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Urban Anno 9 Numero 74 febbraio 2009



L'età che inquieta

Francesca Bonazzoli

Una zona di frontiera ma anche una grande aspirazione collettiva. L’obiettivo di Charlie White si avventura nel tabù dell’adolescenza





Urban 74

sommario

07 Editoriale

09 icon
di Maria Luisa Frisa

10 interurbana
al telefono con Diana Ferrero
di Francesca Felletti

12 trip
di Fabio Sironi

15 portfolio
The soul of New York

20 stars and stripes
foto Vassil Germanov · styling Ivan Bontchev

30 details
foto Vassil Germanov · styling Ivan Bontchev

33 design
di Olivia Porta

34 oltre il pop
di Giovanni Cervi · foto Mattia Zoppellaro

39 libri
di Marta Topis

40 messaggi solidi urbani
di Paolo Madeddu

42 l’età che inquieta
di Francesca Bonazzoli

46 arte
a cura di Floriana Cavallo

48 le curiose armonie dei lucibel
di Simone Tempia

50 musica
di Paolo Madeddu

52 alan moore il mago
di Maurizio Marsico

54 film
di Alessio Guzzano

55 NIGHTLIFE
di Lorenzo Tiezzi

57 fuori

66 Ultima Fermata
di Paolo Cognetti
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A ridosso dell’insediamento di Barack Obama, sul New York Times è comparso uno spietato articolo di Alex Williams sul decadimento di New York. La città che non dorme mai avrebbe ormai perso la sua baldanza: finanza, media, pubblicità, proprietà immobiliari, posti di lavoro e persino il turismo e gli spettacoli di Broadway hanno subito un collasso. Tutti in fuga da New York.
Charlie White, fotografo e artista, nato a New York nel 1972, ci aveva dunque già visto giusto quando, sette anni fa, lasciò la Grande mela per Los Angeles. È vero che anche in California, come nel resto d’America, i grandi musei stanno attraversando una terribile crisi economica, ma il sindaco Antonio Villaraigosa ha appena proclamato impavido LA “la capitale creativa dell’America” sottolineando che 900mila persone sono impiegate in lavori creativi e che questo genera cento bilioni di dollari l’anno.
E, dettaglio non secondario, la città degli angeli piace anche agli europei. Un intellettuale sofisticato come il regista tedesco Werner Herzog, in un’intervista al quotidiano francese Liberation, ha dichiarato: “È una città che vibra in permanenza. Mi ci sono trasferito perché è la città che, negli Stati Uniti, ha più sostanza, ben più che New York che è una città di consumo culturale dove si va all’opera, alle mostre, ma è tutto. E poi la cultura newyorchese è molto improntata a quella europea. Los Angeles, al contrario, nel corso degli ultimi 50 anni ha prodotto l’essenziale della cultura mondiale di oggi: l’informatica, l’accettazione dei gay, gli hippy, la cultura New-Age… Certo c’è anche un tasso di stupidità che viene da là, ma anche quello ha marcato il mondo”.

Anche Charlie White, in fondo, è un regista perché le sue foto sono costruite come in una mini produzione hollywoodiana: le scene sono perfettamente orchestrate, i set studiati nei minimi dettagli e le comparse sono attori professionisti reclutati attraverso un casting. Dopo essersi dedicato a creature androidi, metà mostri metà umani, come nella migliore fiction, la sua attenzione è ora concentrata sugli adolescenti su cui ha costruito la serie raccolta nel libro American Minor, pubblicato dalla sofisticata casa editrice svizzera JRP-Ringier: una serie di foto esposte anche a Berlino alla Loock Galerie. E un cortometraggio omonimo appena presentato al Sundance Film Festival.

Perché i teeenager sono diventati una fonte di ispirazione sempre più importante per arte, musica, moda e cinema?
“I teenager rappresentano due cose. La prima è ovvia: sono un mercato in crescita, una grossa fetta della società dei consumatori. La seconda è forse meno ovvia: tutti noi vorremmo essere teen. Cioè vorremmo comportarci, fare shopping e socializzare come loro. Internet, i telefoni cellulari, facebook, myspace, tutto questo è più teen che adulto, e forse è per questo motivo che essere teen è così dominante, come idea, nella nostra cultura”.

Le foto di teenager e transgender davanti alla carta millimetrata c’entrano qualcosa con le tavole di comparazione scientifica usate nel XVIII e XIX secolo negli studi fisiognomici da Kaspar Lavater o Cesare Lombroso?
“Non è esattamente carta millimetrata, l’idea è più basata sulle griglie di misurazione dei cutting mat (i tappetini da taglio gommati, n.d.r.). Volevo che funzionassero come uno spazio neutro, ma un bianco senza segni mi sembrava una soluzione troppo vicina alla fotografia di moda. Inoltre la griglia suggerisce anche il senso di una struttura standardizzata contro la quale i soggetti possono essere visualmente comparati per mettere in evidenza somiglianze o differenze. In questo senso, sì, c’è un’affinità con le tavole fisiognomiche”.

C’è una specifica qualità americana in questi teenager?
“Sì, penso che per molti versi essi siano l’America”.
Una foto costruita come un set può descrivere la realtà più di un’istantanea presa per strada?
“In qualche caso è così. In altri un’istantanea presa dal vero può raccontare tutto: dipende da quello che ogni singola immagine dice”.

Una volta la fotografia era il medium che testimoniava la verità; oggi le tecniche digitali hanno cambiato il suo ruolo?
“Da tempo, ormai, la fotografia si trova in una posizione simile a quella della scultura e della pittura e il suo significato dipende più dall’intenzione che dal caso”.

Del resto a Charlie White non è mai venuto in mente di chiedere ai suoi attori adolescenti se si riconoscono nell’idea che lui ha di loro: siamo a Hollywood, la città dei sogni, non della verità.