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Urban Anno 9 Numero 77 giugno 2009



Frammenti di viaggio

Francesca Bonazzoli

Arrivano alla Biennale da molto lontano. E forse proprio perché vengono dall’Australia, il paese delle grandi distanze, si concentrano sugli spostamenti. Tra andate e ritorni





Urban 77

sommario


07 Editoriale

09 icon
di Shepard Fairey

11 interurbana
al telefono con Manfredi Beninati
di Francesca Felletti

13 portfolio
Born to surf

19 una vita non basta
di Alberto Coretti · illustrazione Ruggero Asnago · foto Milan Vukmirovic

23 simple white
foto Saverio Cardia · styling Ivan Bontchev

30 di nascosto
foto Danilo Scarpati · styling Delfina Pinardi

38 details
foto Toni Campo · styling Elisa Anastasino / Ivan Bontchev

41 cult
di Mirta Oregna

42 gioventÙ bruciata
di Gian Micalessin · foto Rena Effendi

47 design
di Olivia Porta

49 c’era una volta woodstock
di Paolo Madeddu · foto Barry Z. Levine

53 musica
di Paolo Madeddu

56 deep south
di Maurizio Marsico · foto Jennifer Trausch

60 frammenti di viaggio
di Francesca Bonazzoli

62 arte
a cura di Floriana Cavallo

64 onde anomale
di Simone Tempia

67 NIGHTLIFE
di Lorenzo Tiezzi

69 fuori

82 Ultima Fermata
di Matteo Caccia

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Che la scultura non fosse più un blocco di marmo da scolpire o una bella figura da fondere nel bronzo l’aveva già dimostrato quel provocatore di Marcel Duchamp all’inizio del secolo scorso quando, nel 1917, prese un orinatoio, lo chiamò Fontana e affermò che quella era la sua opera. Finì che nel 1945 Arturo Martini scrisse un saggio in cui affermava che la scultura (quella monumentale e celebrativa, col piedistallo) era ormai lingua morta e nel 1961 quel geniaccio alcolizzato di Piero Manzoni, che a Milano girava fra un bar e una trattoria cercando di vendere quadri completamente bianchi, che chiamava Achrome (senza colore), e merda d’artista in scatole da 30 grammi, realizzò a Herning, in Danimarca, La base del mondo, ovvero una scultura che consisteva nel solo piedistallo rovesciato con lo scopo di sostenere l’intero mondo.
Che cosa si poteva fare dopo questo estremo gesto beffardo e nichilista? Sembra incredibile, ma ancora molto. Soprattutto se all’opera di distruzione ci si dedicano artisti che del passato non sentono poi così tanto il peso: niente di meglio dell’Australia, dunque, per trovare una creatività ancora molto libera e poco condizionata.

La Biennale di Venezia, l’appuntamento di arte contemporanea più importante al mondo, che ha inaugurato proprio questo mese è una finestra attraverso cui sbirciare nel continente “down under”, come lo chiamano gli “aussie”. L’artista che quest’anno rappresenta l’Australia è Shaun Gladwell il quale porta diversi lavori fra cui uno dove sono protagonisti i canguri (chi altro potrebbe farlo?) e la motocicletta con cui ha attraversato il continente incastonata nel muro esterno del padiglione come un tempo si faceva con le sculture che, per esempio, ornavano i portali delle cattedrali gotiche. Ma l’Australia gioca anche altre carte nella vicina Ludoteca dove Vernon Ah Kee utilizza surf e canoe come moderni totem; Ken Yonetani crea fondi marini artificiali ricchi di coralli fatti però con lo zucchero, e il duo Claire Healy & Sean Cordeiro impila migliaia di videocassette VHS, esattamente 195.774, che, tutte assieme, formano quello che una persona di 66 anni e un mese vede mediamente nell’intera vita: il monumentale accumulo è quindi inteso come tutto quello che potrebbe passare negli occhi di una persona in punto di morte.

Il duo Healy & Cordeiro, del resto, è specializzato nel dare forma scultorea a concetti immateriali come il senso della vita: roba da far tremare i polsi. Una delle loro opere più celebri è una roulotte fatta a pezzi: prima la smontano in tutte le sue parti e poi ordinano diligentemente a terra ogni frammento, come il lavoro di un entomologo o di un raccoglitore di erbari. Ma attenzione: parte dell’opera è anche il viaggio che la roulotte ha compiuto, ancora perfettamente integra. Il che equivale a dire che è lo smontaggio il lavoro vero e proprio dello scultore artista, il quale, così, non solo manda in pezzi il concetto di scultura, ma anche il significato stesso della roulotte. Da simbolo di vacanza in libertà, da contenitore di sogni, luogo protetto e famigliare rispetto a qualsiasi contesto in cui viene parcheggiata, così aperta a 360 gradi, la roulotte viene svuotata di ogni mistero, resa inutile nella sua funzione e diventa l’immagine di un disastro, simile a quelle scene di ricostruzione investigativa che si vedono dopo uno spaventoso incidente che ha mandato in mille pezzi, per esempio, un aeroplano o un treno. Nessuna parte verrà persa perché la scultura-smontaggio prevede che poi, dopo la mostra, i singoli frammenti saranno allineati uno per uno e ordinati in modo da rientrare in contenitori dalle misure standard che gli artisti rispediranno a Berlino, la città dove vivono.
Apparentemente un lavoro da folli, un puzzle surreale o una provocazione dadaista, ma in realtà, a pensarci bene, una metafora della nostra vita in continua costruzione e distruzione. Sempre in movimento fra viaggi di andata e ritorno; sempre da rimettere in ordine, capire e interpretare in modo da impacchettare tutte le precedenti esperienze e poter ripartire. Forse per questo il titolo dell’opera è Past Times, tempi passati come sono sempre quelli che passiamo a decifrare i frammenti sparsi delle nostre esperienze. Viaggi apparentemente inconcludenti, che ogni volta ricominciano, ma che tutti insieme, in sequenza, costruiscono la nostra vita ovvero la nostra roulotte: la casa in cui viaggiamo da quando siamo nati.
L’estate è vicina: la roulotte è pronta per un altro viaggio da smontare e decifrare al ritorno. Speriamo non sia l’indagine di un disastro.