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Kaleidoscope Anno 1 Numero 4 novembre-dicembre 2009



Surface Tension

Jörg Heiser



a contemporary magazine


KALEIDOSCOPE
a contemporary magazine
November-December Issue

Featuring:

PANORAMA: Is Detroit the New Berlin? by Chris Sharp
Pure Immanence by Chus Martínez
Mona V?t?manu and Florin Tudor by Mihnea Mircan
Rachel Harrison by Brian Sholis
Honest Jon’s Records by Francesco Tenaglia
ENIGMA no.4 by Simon Fujiwara
EXCURSUS #1 by Zak Kyes
MAPPING THE STUDIO: Baudevin, Coindet, Dafflon, Decrauzat by Luca Cerizza
Junya Ishigami by Hans Ulrich Obrist
PIONEERS: Martin Barré by Simone Menegoi
Thomas Schütte by Martin Herbert
ON EXHIBITIONS: Urs Fischer, New Museum (NYC, 2009) by Paola Nicolin

MAIN THEME: Perverted Minimalism. Edited by Alessandro Rabottini
Surface Tension by Jörg Heiser
interview with Sterling Ruby by Alessandro Rabottini
special project on Dan Graham by Liam Gillick
Perversely Yours by Kirsty Bell
EVA by Tom Burr

MONO: Dorit Margreiter.
overview by Cristina Travaglini
special project by the artist
interview by Markus Schinwald
focus on the film Pavilion by Joanna Fiduccia

The KALEIDOSCOPIC FILES:
Schwerbwlastungskörper by Markus Miessen (Architecture)
Mariana Castillo Debal by Nav Haq (Art)
Jens Fager by Filippo Romeo (Design)
Donna fascista by Maria Luisa Frisa (Fashion)
Ferris Bueller’s Day Off by Adam Carr (Film)
Joy Williams by Tao Lin (Literature)
Laura Pausini by Carlo Antonelli (Music)
Nacho Alegre by Marco Velardi (People)
Harsh Patel by Rob Giampietro (Publishing)
The building where I live by Michael Stevenson (Spot)


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Catherine Wood
n. 17 inverno 2012-2013


Good Design,
exhibition view
MoMa, New York 1952
Courtesy: MoMA Archives, New York
Photo: Soichi Sunam

Furniture in Shaker Church Family House
Hancock, Berkshire County, MA
Photo: William F. Winter, Jr

Paul Thek
Untitled
(from the series "Technological Reliquaries"), 1965
Collection: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Turin

Da molti anni viene corroso, vandalizzato, truccato, abusato, rattoppato, purificato di nuovo, involgarito, riesumato: è il minimalismo. Dalla prospettiva di oggi, dopo parecchie ondate successive di revival e rifiuto, questo si deve forse al fatto che, fra le ultime tre avanguardie statunitensi degli anni Sessanta che si potevano definire con una sola parola (le altre due essendo la pop e la concettuale), l’arte minimal è quella che poteva con più facilità essere trasformata in un “look” (la pop art è troppo incoerente visivamente, l’arte concettuale, per cominciare, è troppo anti-visiva). Quel look denudato funzionava come complemento all’assalto della cultura popolare di massa, la pacata struttura superava elegantemente la diversità eclettica. Ciò fu immediatamente rimproverato al minimalismo (anche se discuterò qui solo di artisti visivi, uso il termine nel senso più ampio, quello che connota una sensibilità legata ai film, alla musica e ad altri campi, opposto a “minimal art” in quanto movimento artistico distinto).
Clement Greenberg, nel suo pezzo del 1967 “Recentness of Sculpture”, descriveva il lavoro scultoreo minimalista come una novità e semplicemente come “good design” (un’espressione resa popolare dal MoMA negli anni Quaranta e Cinquanta con una serie di mostre di design), implicando con ciò una certa aria middlebrow, di compromesso e innocuità da classe media. Ciò che veniva rimproverato al minimalismo (principalmente, e in modo più noto da Michael Fried, nel suo saggio del 1967 “Art and Objecthood”) era anche il modo in cui riusciva a indurre gli spettatori a una consapevolezza più elevata, “teatrale”, della loro stessa presenza fisica in relazione alle opere in mostra, negando al tempo stesso, da questo punto di vista, la possibilità di un assorbimento “epifanico” nell’opera. In un certo senso, entrambi gli argomenti ebbero il loro culmine nel saggio di Anna C. Chave del 1990 “Minimalism and the Rhetoric of Power, nel quale il “good design” è essenzialmente una maschera, una solenne facciata eretta per manipolare lo spettatore e che proietta, nelle parole di Chave, “il volto più neutro, più metallico della società; il volto impersonale della tecnologia, dell’industria e del commercio; il volto inflessibile del padre; un volto che viene di solito mascherato in modo molto più attraente”. Tutte queste reazioni ignoravano, quale più, quale meno, il fatto che il minimalismo ha prodotto fin dal principio dilemmi e feconde contraddizioni che in molti modi hanno anticipato molte delle critiche che gli sono state fatte – anche se ciò può aver spesso contraddetto le intenzioni dichiarate degli artisti in questione. La linea della critica da una prospettiva “esterna”, da Greenberg e Fried a Chave, non ha mai neppure cercato di accogliere a bordo questa implicita “autocritica” del minimalismo.

Figure posteriori come Felix Gonzalez-Torres e Rosemarie Trockel, e, più recentemente, Tom Burr o Monica Bonvicini, hanno portato in primo piano gli elementi latenti e le contraddizioni del minimalismo da un punto di vista implicito o perfino complice – senza per questo risparmiare ai minimalisti della prima generazione critiche femministe e/o queer. Nondimeno, il chiarimento fortuito che ebbe luogo fra Donald Judd e Robert Smithson nei loro rispettivi scritti e opere fra il 1965 e il 1967 è il paradigmatico precursore di questo dibattito più “intrinseco”. Altri protagonisti che hanno messo in luce, già negli anni Sessanta, queste radicate fenditure e alterazioni, sono stati Anne Truitt, Richard Artschwager, Paul Thek, John McCracken e Dan Graham.
Nel 1965, nel suo saggio “Specific Objects”, Donald Judd stese il programma di un genere di arte che non è né pittura né scultura, che è tridimensionale ma non illusionistico o compositivo, in alcun modo convenzionale. “La prima cosa che non va nella pittura è che è un piano rettangolare collocato di piatto contro il muro”, asseriva, nel suo tipico stile impassibile. Per lui, ciò che contava era “la cosa come insieme” e che “la forma, l’immagine, il colore e la superficie siano unitari e non parziali e sparpagliati”. Fin qui tutto bene.
Smithson, comunque, in parecchi testi, e in particolare in “Entropy and the New Monuments” del 1966, accennò alle contraddizioni nella concezione di Judd discutendo la predilezione di quest’ultimo per le complesse e iridescenti qualità materiali delle lacche trasparenti di rifinitura “hi-fi” della Harley-Davidson, per il plexiglas luccicante o le formazioni geologiche. (“Judd acquistò un cristallo di fluorite viola all’Esposizione Mondiale”). La celebrazione, da parte di Smithson, della “superficie puristaimpura” andava contro le dichiarate intenzioni di Judd di stabilire una qualità “reale” e anti-espressiva – ma non così aggressivamente, più come presa in giro e provocazione garbata di un amico. Smithson giocava consapevolmente ad attribuire a Judd interessi e intenzioni (a volte le sue proprie) che andavano contro quelle dichiarate. Ma il gioco, con Judd, non andò a buon fine. Il conflitto ebbe il suo culmine nel settembre del 1966, quando Smithson organizzò una mostra collettiva alla Dwan Gallery di New York. Dopo aver respinto il tentativo di Smithson di riassumere in un comunicato stampa gli interessi condivisi dagli artisti partecipanti, Judd si presentò all’inaugurazione della mostra con spillette su cui stava scritto “Robert Smithson non è il mio portavoce” e ne porse una a Dan Flavin – una presa di distanza pubblica che mise Smithson in una posizione imbarazzante. Judd confermò la sua aggressiva presa di distanza in una lettera ad Arts Magazine pubblicata nel febbraio 1967, che ancora una volta consisteva in una sola riga: “Smithson non è il mio portavoce”. All’epoca la loro amicizia era finita, e in apparenza non si parlarono per anni.

Cosa c’è al cuore di questa giocosa rivalità diventata spaccatura? È un conflitto su due aspetti maggiori e interconnessi di un genere di lavoro allora nuovo, aspetti che sono ancora rilevanti oggi: la questione della feticizzazione della superficie, e la lotta fra la determinazione del significato e la mancanza di significato. La celebrazione, da parte di Smithson, di una specie di attrazione perversa per le superfici scintillanti e cristalline e i contesti da cui uscivano – i garage della Harley-Davidson, i laboratori di zincatura, gli studi dei geologi – silurarono la professione di sobrietà di Judd. Superfici cariche di desiderio e troppo contesto erano esattamente ciò da cui Judd voleva fuggire. Aveva insediato la sobrietà non semplicemente come elemento materiale corrispettivo dello “spleen”, ma come una strategica forma di distacco dalla generazione precedente di artisti: ammirava certamente i quadri di Barnett Newman, Jackson Pollock, Mark Rothko o Clyfford Still, ma considerava sé stesso come colui che sarebbe subentrato loro. Si vedeva sostituire le loro evocazioni astratte del sublime entro i vincoli della superficie dipinta, con degli oggetti costruiti, impassibili, che aggirassero quelle evocazioni e quei vincoli. A quel punto, dover fare la parte di colui che è ossessionato dalle rifiniture industriali o dalle formazioni geologiche, significava rivalutare ciò che doveva essere svalutato. Ma la posizione di Smithson non era un semplice fraintendimento del lavoro di Judd: mostrava le contraddizioni di ogni tentativo simile di liberare l’opera da connotazioni esplicite. Nei lavori di John Chamberlain, apprezzati da Judd, che comprendevano relitti di automobili, sono all’opera ovvie connotazioni di tipo schiettamente quotidiano; laddove gli oggetti di Anne Truitt del 1961-62 che giocavano sulle forme delle lapidi o delle staccionate erano sostenuti da Greenberg ma disprezzati da Judd. Fare un passo oltre ed evitare qualunque sottotesto del genere può essere giustificato da un punto di vista estetico, ma ironicamente suscita nella mente dello spettatore le associazioni più libere – oppure nulla. Si potrebbe perfino sostenere che i minimalisti stavano solo fingendo di rifiutare la metafora e il contesto narrativo, mentre di fatto sapevano fin troppo bene che il loro lavoro traeva profitto dal fatto di suscitare ogni genere di allusioni.

Perché ciò accadeva? Semplicemente perché non c’è modo di rendere il materiale impermeabile alle connotazioni dei suoi vari usi e dei suoi effetti percettivi. PrendiamoUntitled (DSS 35) di Judd, del 1963: ci sono sette sbarre collocate in diagonale, come gradini, fra due pannelli verticali di legno; sono tutte ricoperte dell’esuberante pittura rosso-cadmio che Judd amava usare in quel periodo, eccetto la quarta, che non è squadrata ma arrotondata – un tubo di alluminio smaltato di viola metallico. Questa strana scala verso il paradiso rosso-violetto, è più prossima all’esperienza di Juri Gagarin nello spazio (1961) o a quella di Judy Garland trasportata “da qualche parte sopra l’arcobaleno” nel Mago di Oz (1939)? Molte delle opere di Judd, anche posteriori, sembrano dedotte dall’inconscio popolare in un sogno a occhi aperti, e solo a posteriori si rivelano semplici e dirette.
È forse la percezione dello spettatore che evoca queste associazioni, non quella di Judd; nondimeno, esse si manifestano, e sono presenti perché il materiale, il colore e la qualità della rifinitura usati da Judd sono impiegati in anche in altri contesti, di ogni genere, compresi i viaggi spaziali e il musical in Technicolor. La soluzione apparentemente ovvia per evitare queste connotazioni sarebbe stata quella di realizzare solo opere uniformemente grigie.
Di fatto, per un po’, nel 1960, Robert Morris fece strutture grigie di compensato: lui stesso, comunque, descrisse quei lavori come “paranoici”, il che accenna solo indirettamente al significato del grigio come segnale di potere e deviazione che si addice alla nave da guerra e al manicomio. Nella medesima direzione, Judd era consapevole che evitare colori luminosi e brillanti – evitare di essere seducente – non era la soluzione. Predilesse invece, sempre di più, semplici strutture a scatola, ma anche la serializzazione, ovvero scatole in file regolari. La conseguenza è che le scatole di Judd richiamano un genere di puritanesimo-fattosi-estasi che ricorda la setta protestante del XVIII secolo degli Shakers, di cui Judd collezionava il mobilio semplice e duraturo: proprio come il loro tentativo di purgarsi dal peccato si esprimeva nell’estasi sessuata di danze frenetiche ed estatiche e nella glossolalia (cose che Dan Graham ha collegato al rock’n’roll nel suo video Rock My Religion del 1984), così l’approccio “ciò che è, è ciò che appare” finisce per generare una frenesia di interpretazione e un’estatica sovradeterminazione del significato. Più si pretende di evitare le allusioni, più le si provoca. Le prime opere di Anne Truitt ne sono la prova ex negativo: una volta che si enfatizzano una o due semplici associazioni – a un oggetto comune nella forma, a un contesto sociale nel titolo (la forma a lapide di Southern Elegy (1962), evocatrice di morte e del Sud degli Stati Uniti) – si riducono, o meglio si riducono da un punto di vista narrativo, altre possibili connotazioni.

Richard Artschwager fu forse il primo artista di sensibilità minimalista a raggiungere questa riduzione non tanto con titoli e forme (benché facesse uso di entrambe queste opzioni) ma con la semplice scelta del materiale di superficie. Mentre Judd non riusciva a sfuggire ai sottintesi sociali del metallo laccato o del plexiglas lucido, Artschwager giocava esattamente su questi sottintesi rispetto alla fòrmica. Il materiale “su cui si appoggiano i gomiti nel venti per cento dei diner di New York”, come disse Artschwager in un’intervista del 1965, era già esplicitamente l’epitome di una falsa facciata: una superficie di laminato plastico lavabile che imitava il volume del legno. In tal modo, l’artista metteva in luce l’effetto di mascheramento del minimalismo ben prima di Anna C. Chave, che lo avrebbe in seguito smontato con tanto fragore.
Colui che sta ad Arschwager come Hyde sta a Jekyll, è Paul Thek: mentre Artschwager alterava la superficie, Thek cercava guai con ciò che sta al di sotto di essa.
I suoi Technological Reliquaries (1964-66) – imitazioni in cera di carne umana decomposta e arti mozzati dentro scatole di plexiglas – compivano essenzialmente la stessa operazione della serie Bringing the War Back Home (1969-72) di Martha Rosler: mentre i collage di quest’ultima impiantavano le atrocità della guerra del Vietnam nelle confortevoli case della classe media americana, Thek le inseriva nella traslucida eleganza del minimalismo. L’aspetto meno convincente di questa operazione è l’implicito atto simbolico dello svelamento; più interessante è la reale qualità percettiva della collisione, il modo in cui evoca una repulsione, letteralmente, contenuta, così significativo per il modo in cui affrontiamo la paura e la morte. Ma Thek diceva sempre, in un modo piuttosto camp, “Oh, sono contro l’interpretazione, sono contro l’interpretazione”; Susan Sontag notoriamente sottolineò lo spunto, e il custodito silenzio del minimalismo manifesta il dilemma di respingere l’interpretazione con il solo risultato di provocarla ancora di più.

Ma ci sono ulteriori complicazioni: per esempio, la devianza della West Coast.
Edward Allington (in un articolo del 1998 su Frieze intitolato “Buddha Built My Hot Rod”) collegò in modo convincente la sensibilità minimalista di Los Angeles alla cultura feticista della rifinitura nelle auto fuoriserie, ricordando che John McCracken descriveva le auto come “schegge di colore in movimento, suggestioni di colore su ruote”. Si potrebbe aggiungere che le
opere di McCracken sono altrettanto debitrici dell’ossessiva lucidatura delle superfici dei fanatici della tavola da surf, legata tanto a questioni visive e tattili quanto all’aerodinamicità – specialmente quando si pensa ai suoi oggetti verticali appoggiati contro il muro, ovviamente, come tavole da surf. L’evocazione, da parte di Smithson, di garage della Harley e laboratori di artigiani a proposito di Judd, non fece, in definitiva, che rendere esplicito ciò che era già esplicito in McCracken. L’intepretazione diminutiva di Greenberg del minimalismo come “good design”, e perciò da classe media, viene qui tagliata alla radice da uno scavo deliberato nella sottocultura maschile del proletariato.

L’artista il cui lavoro, all’epoca, superò con più decisione queste divisioni fra il design da classe media e le sottoculture delle classi subalterne, fra la mascolinità e la sua corrosione, fra il minimalismo e il massimalismo che lo circondava, è Dan Graham. Nel 1966 documentò il nuovo boom delle case a schiera con un articolo per Arts Magazine, collegando la serialità e uniformità di queste case prodotte in massa all’arte minimal. Scrisse anche articoli di critica culturale su Eisenhower, The Kinks e le apparizioni televisive da ubriaco di Dean Martin, che metteva in relazione con Brecht e Andy Warhol. Ciò che Graham condivideva con il suo amico Smithson era la logica del “/”, della barra: proprio come Smithson parlava di “site/non site”, così Graham creava uno spazio parallelo condiviso, un asse intorno al quale ruotano campi di forza: godimento/analisi, pop/teoria, Dean Martin/Bertold Brecht, rock/architettura. Quest’asse divenne costruzione sotto forma delle sue strutture di acciaio e vetro semitrasparente, che sono in teoria, e qualche volta in pratica, membrane semipermeabili di interferenza e ibridazione socioculturale.
Nella prefazione del suo libro del 2004 Very Little … Almost Nothing, pubblicato per la prima volta nel 1997, il filosofo Simon Critchley sosteneva che il compito di interpretare l’opera di un artista caratterizzata dal “risoluto rifiuto di significare alcunché” (si riferiva a Beckett, ma avrebbe potuto parlare negli stessi termini del minimalismo) consiste nella “concreta ricostruzione del significato della mancanza di significato”. Di conseguenza, la rivalutazione del minimalismo non significa riempire un silenzio imbarazzato con storie spumeggianti. È ancora possibile convincere i volumi e le superfici silenziose del minimalismo a parlare: ma esse non racconteranno storie, semmai farfuglieranno in modo incomprensibile.

Jörg Heiser è Co-Editor di Frieze magazine, scrive per il quotidiano nazionale Süddeutsche Zeitung e scrive regolarmente per cataloghi e riviste d’arte. È autore del libro All of a Sudden: Things that Matter in Contemporary Art (Sternberg Press, 2008)