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Titolo Anno 21 Numero 61 inverno 2010



Mario Airò.Infundiboli Cronosinclastici

Matilde Galletti



Rivista scientifico-culturale di arte contemporanea


p. 3 Editoriale

p. 4 Mario Airò. Infundiboli cronosinclastici
di Matilde Galletti

p. 7 La fotografia disvela la realtà
di Cristina Casero

p. 10 Se l’arte visiva è fatta di suono
di Paolo Bolpagni

p. 12 …tracce di Emilio Prini
di Elena Di Raddo

p. 14 Attorno all’invisibile. Del lavoro recente di Silvio Wolf
di Francesco Tedeschi

p. 16 Oltre il visibile. Cornelia Parker e Lida Abdul
di Tiziana Conti

p. 18 Veloce come la luce. Le fibre ottiche di Carlo Bernardini
di Kevin McManus

p. 20 L’ultimo, ovvero il primo, libro di Achille Bonito Oliva
di Giorgio Bonomi

p. 22 Ri-generazione astratta. L’astrazione delle nuove generazioni
di Matteo Galbiati

p. 25 Spigolature bibliografiche
di Giorgio Bonomi

p. 28 Recensioni
di S. Antonacci, P. Bolpagni, M. Galbiati, M. Galletti, T. Sgubin, F. Volpi


In copertina, disegno originale di Mario Airò, 2010

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5.500.000 anni fa, 2007
laser (foto di N. M. Gandolfi)
Sequenza per M’illumino d’immenso, 2005
(archivio dell’artista)

Vleugelman, 2009
gobo, proiettore (foto dell’artista)

Infundiboli Cronosinclastici(1)

“Io sento la necessità di una certa vaghezza allucinatoria che liberi il lavoro dall’essere facilmente circoscritto in una semplice operazione progettuale, una semplice operazione algebrica”. Mario Airò

“È solo uno schizzo, dopo tutto, pochi tocchi rudimentali qui e là, che non esauriscono il tema ma si limitano a mostrare quel che potrebbe diventare. Talora mi viene da pensare che le stesse Foglie non siano che la stessa cosa: un passaggio verso qualcosa, piuttosto che un oggetto concluso in se stesso”. Walt Whitman


Nel 2007 Mario Airò è stato invitato da Giovanna Nicoletti a pensare un progetto per la Rocca che sovrasta Arco, una cittadina in provincia di Trento che si trova nella piana del Sarca. L’idea iniziale era che l’artista sarebbe dovuto intervenire all’interno del Castello. Arrivato ad Arco però, Airò si perde a osservare il singolare paesaggio che gli si offre tutto intorno: la valle piena di ricordi della passata vita medioevale, i borghi e le viuzze sorte dove un tempo erano solo zone paludose, il Monte Brione. “La mia prima visita ad Arco è stata un po’ come un viaggio nello spazio e nel tempo: sì il luogo fluttua nel tempo e le tracce più impressive sono sparpagliate all’indietro. (…) Per il resto storia e geologia sono le trame su cui si ordisce il tessuto che fa il luogo. All’improvviso guardandomi intorno, sopraffatto dalla bellezza di tutto ciò, con lo sguardo fisso sul ventre della montagna allisciato dal ghiacciaio che scivola giù, mi sono sentito sott’acqua: ‘il mare era qui’”. Cambio di programma: l’intervento non sarebbe stato più all’interno della Rocca di Arco, ma avrebbe agito direttamente sul paesaggio. La visione del “mare di Garda” avuta da Mario avrebbe potuto essere condivisa da chiunque: 5.500.000 anni fa, un laser(2)che proiettava un fascio di luce verde direttamente sul fianco della montagna, prendendo avvio proprio dalla Rocca. Il laser veniva a segnare sulla ripida verticalità della parete rocciosa il livello del mare prima dell’era della glaciazione: l’immaginazione degli spettatori era sott’acqua! Attraverso un gesto minimo, un semplice segno di sottolineatura del reale Airò ha dato forma a un invisibile memoria tellurica, ormai sedimentata negli strati geologici che sulla roccia segnano i milioni di anni passati.
Economia di segno era già stata la caratteristica precipua di M’illumino d’immenso, un lavoro del 2005 in cui l’artista aveva dato forma all’immagine che in lui ha suggerito la fonetica del verso di Ungaretti. Anche quest’opera era una proiezione laser, fatta sulla facciata dell’Università di Bolzano. Con limpida chiarezza il fascio di luce verde svolgeva sulla parete dell’edificio la fisicità della telegraficità ungarettiana, mostrando all’occhio la verticalità precipitosa dell’illuminazione e la serena distensione dell’immensità.

Sono, questi, due esempi che credo possano già da soli indicare la rara attitudine di Airò a sfuggire ai facili eclettismi di maniera, alle varie mode e a restare allo stesso tempo agganciato al suo tempo artistico, facendo tesoro dell’esperienza e rendendo i suoi lavori una specie di formalizzazione, forse un po’ allargata, del concetto di “inconscio ottico”. Questo pensiero può in un certo qual modo ricondurre a ciò che Italo Calvino afferma a proposito di libri come il Milione e Le Mille e una notte, cioè che questi sono “libri che diventano come continenti immaginari in cui altre opere letterarie troveranno il loro spazio; continenti dell’‘altrove’, oggi che l’‘altrove’ si può dire che non esista più, e tutto il mondo tende a uniformarsi”(3) . Frequenti sono state le suggestioni, per Airò – artista della curiosità, che “vagabonda” tra diversi territori della cultura dei segni – derivate da altre opere, visive, letterarie, musicali. Tutto ciò è stato fatto con sottigliezza, evitando “l’idea di traduzione o trasposizione, così come (dal)la tentazione di fornire una semplice interpretazione di un’opera preesistente”(4) . Le immagini che cattura restano sospese nella sua mente, nel suo immaginario come “presenze intuitive” che egli lascia fluire senza sapere a priori dove e come lo condurranno(5) : “(…) il demiurgo gnostico crea per immagine, il mondo lui non lo crea per costruzione, per progetto, ma per immagine” (6).
In un’intervista a Mario Airò, Gianni Romano afferma che l’utilizzazione da parte dell’artista delle “cose” del quotidiano avviene prediligendo un valore di scambio, trascendendone il valore d’uso. Airò risponde ricordando un proprio lavoro legato al film Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini e alle riflessioni fatte circa i modi dell’intellettuale friulano.

Una similitudine e, appunto, una certa simpatia, non solo foriera di spunti per la realizzazione dell’opera Il fiore delle Mille e una notte – Tutte le risate (1995), tra il lavoro di questi due artisti è da individuarsi laddove entrambi riescono a mettere in campo un pensiero operativo che si fa carico del vissuto, intellettualizzandolo ma anche chiarificandolo.
Nella preparazione e realizzazione del documentario Appunti per un’Orestiade africana (1970), ad esempio, viene registrata da Pasolini una consonanza tra elementi poetici altrimenti non visibile, di primo acchito sfuggente, ma esposta alla giusta luce estremamente armoniosa, che induce il regista a trovare nell’Africa degli anni sessanta il giusto set per svolgere in termini contemporanei la tragedia di Eschilo . In particolare ho ben presente la bella traslazione operata nell’affidare la parte delle Erinni ad una immagine di fronde degli alberi sferzate dal vento o l’inserimento di parti di una jam session che prende il posto del classico coro.
Così nell’intervista l’artista, parlando del film di Pasolini, dice: “mi è piaciuto molto, mi chiedevo il motivo di questo mio interesse che mi ha portato a farci sopra un lavoro; c'è l'aspetto esistenziale dell'intellettuale italiano politicizzato, l'incontro con le altre culture in versione autentica e non come succede oggi con le mode tipo world music”; allora da Il fiore delle Mille e una notte, seguendo un’attitudine analoga a quella dell’intellettuale romano rispetto al lavoro di Eschilo(7), Mario è interessato all’innocenza dell’erotismo nel film e dà forma alla sua “traduzione”, intesa in senso sanguinetiano, per mezzo di elementi prelevati e attivati semanticamente da una serie di slittamenti segnici: una tenda da campeggio decorata con arabeschi fatti con sabbia, fissata sulla superficie esterna, e riempita dalle risate di eccitazione dei personaggi del film. Alla stessa maniera Pasolini e Airò cercano là dove non si cercherebbe nulla per noiosa semplicità, immaginano nuove possibilità che scaturiscono dall’osservazione del solito. “Mi sembra importante la libertà che c'è nella possibilità di formulare una ipotesi che possa modificare anche la struttura di base delle dinamiche nelle quali si è coinvolti” dice Mario Airò, e prosegue: “(...)l’arte esce dai confini della sua disciplina e si occupa di cose vicine, in comunicazione, cose che fanno parte degli interessi dell'artista. È come togliere un’interfaccia e lasciare all’artista il compito di costruirsene uno nuovo, di costruirsi i propri strumenti” (8).
Ecco, quando Mario realizza i suoi lavori, è come se realmente riuscisse a formalizzare dei dialoghi armoniosi con quei continenti dell’altrove di cui scriveva Calvino.

Non è l’invisibilità palese di una immagine che soggiace alla sua forma quotidiana ciò che Mario trae dalle idee utilizzate: egli ne suggerisce di nuove, lascia intravedere nuove possibilità senza però indicarle paradigmaticamente, sostenendo che l’esperienza sia “parte del laboratorio mentale dell’artista, ed è fondamentale rispetto alla qualità del lavoro. La virtualità percettiva, inoltre, dona al lavoro una dilatazione dell’idea iniziale collegandola anche con cose distanti”(9) .
Ciò che sempre l’artista mira a produrre quando elabora un nuovo lavoro – e sempre più nelle opere degli ultimi anni – è un’apertura di linguaggio: che si crei linguaggio perché sembra essere proprio ciò che manca in questo momento dell’arte in cui c’è più manierismo, più scuola, più sapere specifico. Quello che piace ad Airò è “fare le macchine parcheggiate di traverso, che dici ‘ma cosa fa, che mi vuol dire? Non mi quadra… mi porta in giro?(10)’” . Come a Kungsbacka, in Svezia, dove nello scorso dicembre ha fatto una serie di installazioni luminose, tra le quali una in cui la luce creava il riflesso di un’ombra di un non-corpo volante, immagine proveniente da un’incisione rupestre locale, oppure a Sonsbeek, in Olanda nel 1993, quando realizza The bird-watcher, un disegno mentale creato con la sola voce. In una radura del parco il passaggio di un individuo attivava un sonoro che riproduceva la formula rituale con cui l’aruspice trasformava il luogo in tempio, rendendolo atto alla sua divinazione: “(…) Quell’albero, ovunque esso sia, che io nomino a me esattamente, possa segnare il confine del mio templum e tescum sulla destra (…)”.

Note
1. “Quasi tutte le spiegazioni in due parole degli infundiboli cronosinclastici sono inevitabilmente destinate a offendere gli specialisti del settore. Sia come sia, la migliore spiegazione in due parole è probabilmente quella del dottor Cyril Hall, che figura nella quattordicesima edizione dell’Enciclopedia per ragazzi di meraviglie e cose da fare. L’articolo viene qui riprodotto per intero, col permesso degli editori: “(…) Crono significa tempo. Sinclastico significa incurvato dalla stessa parte in tutte le direzioni, come la buccia di un’arancia. Infundibulum è il nome che gli antichi romani come Giulio Cesare e Nerone davano all’imbuto. Se non sai cos’è un imbuto, fattene mostrare uno dalla Mamma”. Per un’idea più chiara e perché vale davvero la pena di leggere l’intero libro, vedi K. Vonnegut, Le sirene di Titano, Feltrinelli, Bologna 2006. La citazione è alle pp. 12-13.
2 “Uno strumento-icona della cultura pop che di cui è interessante servirsi in maniera altra”, Mario Airò in una conversazione del 30 dicembre 2009.
3 I. Calvino, Presentazione, in Le città invisibili, (1972) Mondadori, Milano 2009, p. VIII.
4 R. Pinto, Mario Airò. Attraverso spazi fisici e mentali, in Mario Airò – Oltre (cat. della mostra), a cura di G. Nicoletti, Arco (Tn), 2007.
5 Dall’intervista di G. Romano a Mario Airò per il catalogo della mostra Blue spirit, 1996, testo dall’archivio dell’artista.
6 M. Airò, incontro alla Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1998, testo dall’archivio dell’artista.
7 Già nella traduzione del testo greco fatta da Pasolini su richiesta di Vittorio Gassman, l’intellettuale friulano si ferma a ridiscutere, come testimoniato dalla lettera del traduttore che accompagna il testo in italiano, la corrente “visualizzazione” del testo di Eschilo, osservando ciò che era sotto gli occhi di tutti celato da letture abitudinarie: “La tendenza linguistica generale è stata a modificare continuamente i toni sublimi in toni civili: una disperata correzione di ogni tentazione classicista. Da ciò un avvicinamento alla prosa, all'allocuzione bassa, ragionante. Il greco di Eschilo non mi pare una lingua né eletta né espressiva: è estremamente strumentale. Talvolta fino a una magrezza elementare e rigida: a una sintassi priva degli aloni e degli echi che il classicismo romantico ci ha abituati a percepire, quale continua allusività del testo classico a una classicità paradigmatica, storicamente astratta. In realtà la lingua di Eschilo, come ogni lingua, è allusiva, sì: ma la sua allusività è verso un ragionamento tutt'altro che mitico e per definizione poetico, è verso un conglobamento di idee molto concreto e storicamente verificabile. Il significato delle tragedie di Oreste è solo, esclusivamente, politico”.Eschilo, Orestiade, trad. di P. P. Pasolini, Einaudi, Torino1960.
8 Dall’intervista di G. Romano, cit.
9 Idem.
10 Da una conversazione con Mario Airò del 30 dicembre 2009.