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Urban Anno 10 Numero 90 luglio-agosto 2010



L'isola che non c'e'

Francesca Bonazzoli

Antti Laitinen





Urban 90

9 editoriale

11 icon

13 interurbana
al telefono con Thomas Gamberini

15 portfolio
Un’istantanea per due

20 libri
di Marta Topis

21 Cult
di Federico Poletti

22 m.i.a.
di Roberto Croci
foto Mark Squires / Contour by Getty Images ?

26 design
di Olivia Porta

27 nightlife
di Lorenzo Tiezzi

28 il cacciatore di anime
di Giovanna Maselli
foto Carlo Van De Roer

32 the beachwood
rockers society
di Roberto Croci
foto Stefania Rosini

36 wild living
foto Cristina Capucci
styling Ivan Bontchev

44 details
di Ivan Bontchev
foto Giorgio Codazzi

49 body
di Ivan Bontchev
foto Giorgio Codazzi

50 l’isola che non c’è
di Francesca Bonazzoli

52 musica
di Paolo Madeddu

54 on the surf road
di Federico Della Bella
foto Chris Burkard / Eric Soderquist

57 Fuori on the beach

66 ultima fermata
di Franco Bolelli
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Costruire un’isola nel mar Baltico riempiendo per tre mesi 200 sacchi di sabbia: per sentirsi liberi e proclamarsi indipendenti, l’unica soluzione è essere gli artefici del proprio habitat



Bellezza efebica, capelli lunghi biondi, magro e tonico come un modello, l’artista finlandese Antti Laitinen, 35 anni, sembra la quintessenza dell’idolo delle ragazzine. Aggiungi che si è filmato e fotografato in un’isola con tanto di palma davanti a tramonti infuocati di rosso e albe strisciate di oro, in mezzo a un mare blu polarizzato, e la fantasia della fuga perfetta dalla realtà è presto confezionata in un paradiso facile e scontato, con tutti gli stereotipi giusti dell’immagine da calendario o da poster della cameretta.
Che ci fa uno così a Touched, la Biennale d’arte che si apre a Liverpool il prossimo 18 settembre e che vede invitati artisti radicali come Tania Bruguera, Carol Rama o Alfredo Jaar, e si propone di coinvolgere i visitatori “scuotendoli nella mente, nel corpo e nell’anima”, come annunciano i curatori già dal titolo scelto?
Il fatto è che anche Laitinen, al di là delle apparenze da perfetto metrosexual, nasconde un animo da duro, come ci immaginiamo siano i finlandesi, temprati dai rigori nordici, dai lunghi, malinconici inverni e da una natura pressoché inabitata. In effetti, l’isola di Laitinen, tutt’altro che in un paradiso caraibico come farebbero supporre le immagini, si trova nel mar Baltico ed è stata costruita da lui stesso riempiendo per tre mesi 200 sacchi di sabbia con il solo ausilio di una pala. Uno dopo l’altro, contro le condizioni buone o avverse del cielo e del mare, contro le onde, il freddo, il caldo o le zanzare, i sacchi hanno formato l’isola e alla fine l’artista ci si è seduto sopra.

Ma lo scopo non era tanto il riposo, quanto la fatica di arrivare a quella meta stabilita. “Non ho costruito l’isola per abitarci. È stato più un lavoro concettuale e così alla fine non ci ho passato molto tempo. L’idea mi è venuta un giorno che stavo facendo un bagno. La rotula del mio ginocchio veniva fuori dall’acqua come una piccola isola. È stato in quel momento che ho deciso di costruire la mia terra”, ci spiega Antti che preferisce la fatica fisica alle parole, centellinate con parsimonia come del resto fanno gran parte degli scandinavi (i più attempati dei lettori ricorderanno bene il mutismo del campione di tennis Björn Borg).

Con lo stesso scopo di conquistare il controllo su una parte di sé attraverso un pezzo di natura, Laitinen si è filmato in un’altra performance durante la quale ha passato quattro giorni nella foresta finlandese senza cibo, acqua, vestiti. O ancora, ha documentato il suo scavo di un buco nella terra per sette giorni che ha prodotto come risultato tre sassi: il primo raccolto dopo sette minuti, il secondo dopo sette ore e il terzo al settimo giorno.
Tutte prove a metà fra la body art e la land art, nel segno della performance che, mai come in questi ultimi tre anni, è tornata protagonista nella scena artistica come quando fece il suo esordio negli anni Settanta. Oppure, mettetela come volete, tutte storie simili a quella raccontata nel film Into the wild, diretto da Sean Penn, sul contestatore radicale Christopher McCandless, il giovane del West Virginia che subito dopo la laurea abbandonò la famiglia e intraprese, senza soldi e senza bagaglio, un lungo viaggio di due anni attraverso gli Stati Uniti, fino a trovare la morte per freddo e fame in Alaska.

“Non ho mai sentito la natura come un luogo ostile”, puntualizza l’artista. “Per me rappresenta più un rifugio dove posso rilassarmi. Al contrario, penso che l’ambiente cittadino, con la sua attività febbrile, sia più ostile della natura selvaggia”.
Insomma la natura come ultima spiaggia della libertà, il solo territorio rimasto libero dalle sovrastrutture urbane? “Non penso che sia possibile raggiungere una libertà totale nella nostra società. Il mio lavoro It’s my island gioca appunto con l’idea di creare un’area totalmente libera e indipendente. Se mi costruisco da solo un mio territorio, allora posso dichiararlo indipendente”.

Un’idea che, artisticamente, non fa una piega. E la prossima? “In Finlandia i bambini si divertono a costruire delle barchette di corteccia. Anche io le facevo quando ero piccolo. Ecco, in questo periodo sto proprio costruendo delle barche simili, ma in scala più grande. Quando la barca sarà pronta, proverò a navigare il mar Baltico”.