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Mousse Anno 5 Numero 24 giugno- agosto 2010



Jack Smith

Andrea Lissoni

What’s Underground About Marshmallows





Mousse Magazine no24
Giugno 10



Starring
by Antonio Scoccimarro

PAUL MCCARTHY
The Isle of Porcine Romance
by Anne Ellegood

Diary
by Antonio Scoccimarro

INTRODUCING
Santo Tolone
by Roberta Tenconi

GARETH JAMES AND JOHN KELSEY
Don’t Come the Acid
by Gareth James and John Kelsey

PART OF THE PROCESS - MARK BOULOS
Ecstasy, Militancy, and Marxist Filmmaking
by Karl Lydén

PIETER VERMERSCH
The Lie of the Beholder
by Dieter Roelstraete

JACOB KASSAY
Fields of Light
by Anthony Huberman

ZACHARY FORMWALT
Representing Capital
by Luigi Fassi

HAIM STEINBACH
Skeletons in the Closet
by Matt Keegan

A Plea for Exhibitions
by Jens Hoffmann

STURTEVANT
Artist Project
by Stefania Palumbo

LORRAINE O’GRADY
Living Symbols of New Epochs
by Cecilia Alemani

HARK!
Old Shoes, Slow Feet, Fast Eye
by Jennifer Allen

BERLIN - JAN PETER HAMER AND THOMAS LOCHER
The Artist and the Banker
by Jan Peter Hamer and Thomas Locher

PARIS - ISABELLE CORNARO
Expanding Possibilities
by David Lewis

LONDON - ANGUS FAIRHURST & SARAH LUCAS
Just Where Do You Draw the Line?
by Nicholas Cullinan

NEW YORK – AMIR MOGHARABI
Like a Book Searching For Itself
by João Simões

LOS ANGELES - BARBARA T. SMITH AND SIMONE FORTI
We’ve Been Soldiers
by Andrew Berardini

RUNO LAGOMARSINO
Cyclic History Is Always a Pradox
by Gigiotto Del Vecchio

LOST & FOUND – JACK SMITH
What’s Underground About Marshmallows

by Andrea Lissoni

CATHY WILKES
The Vantage Point of Being Alive
by Kirsty Bell

RASHID JOHNSON
The Long Distance Runner
by Benjamin Godsill

Books
by Stefano Cernuschi

REPRINT
The Future Is Primitive
by Maria Fusco

AGLAIA KONRAD
Unorthodox Modernism
by Katerina Gregos

CURATOR’S CORNER
J’accuse Marcel Duchamp (a Confession)
by Elena Filipovic

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Dora Budor
Kathy Noble
n. 49 estate 2015

We don't need a dislike function: post-internet, social media, and net optimism
Andrew Durbin
n. 43 aprile-maggio 2014

The Screen as the Body
Elisabeth Lebovici
n. 32 febbraio-marzo 2012

Chantal Akerman
Elisabeth Lebovici
n. 31 dicembre 2011-gennaio 2012

Geoffrey Farmer
Monika Szewczyk
n. 30 settembre-ottobre 2011

Art Society Feedback
Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011


Gwenn Thomas
Jack Smith in Jack Smith’s Fear Ritual of Shark Museum, Cologne Zoo, 1974

Courtesy: .the artist
Exile Gallery, Berlin
and Yvon Lambert Paris, New York

Gwenn Thomas
Jack Smith in Jack Smith’s Fear Ritual of Shark Museum, Cologne Zoo, 1974

Courtesy: .the artist
Exile Gallery, Berlin
and Yvon Lambert Paris, New York

Gwenn Thomas
Jack Smith in Jack Smith’s Fear Ritual of Shark Museum, Cologne Zoo, 1974

Courtesy: .the artist
Exile Gallery, Berlin
and Yvon Lambert Paris, New York

What is we want from a film?
A vital experience
An imagination
An emotional release
All these&what we want from life
Contact with something
We are not, know not
Think not, feel not, understand not,
Therefore: An expansion


Jack Smith, The Perfect Filmic Appositeness of Maria Montez



Nel corso degli ultimi vent’anni, mi sono ritrovato a inseguire il fantasma di Jack Smith troppe volte, per poterne davvero scrivere con obiettività e, soprattutto, senza la foga accumulativa, o preso dal panico di dimenticare aneddoti o aspetti fondamentali. Ormai quasi in preda alla paralisi, ho deciso di seguire la via luminosa che il mio balengo idolo artistico tardo adolescenziale m’indicava: ho radunato tutto quello che possedevo su un tavolo, intorno a me e a terra, al centro del soggiorno. Ho inserito la raccolta Jack Smith Les Evening Gowns Damnées – pubblicata per Table of Elements nel 1997 da Tony Conrad (autore del soundtrack del film Flaming Creatures, 1963) – nel CD player e ho attivato la funzione repeat. Ugualmente, ho inserito la vecchia copia DVD pirata di Flaming Creatures nel lettore. E poi, lungo un’intera notte, non ho fatto nulla. O meglio, a essere sincero, fra un dilatatissimo vuoto e l’altro, guardavo un po’ il film, un po’ ascoltavo, un po’ pensavo, un po’ mi fregavo le mani, ricordando i viaggi con le preziose pizze di Normal Love, I Was a Male Yvonne DeCarlo, The Yellow Sequence e Scotch Tape, trasportate da un treno all’altro, in una valigetta di cuoio, fra la sede del distributore Light Cone di Parigi, e Milano, Bologna, Pisa e, ancora, Parigi, nel lontano 1999. E, naturalmente, un po’ leggiucchiavo, perdendomi, assorto in un testo – per esempio quello di Ken Kelman, nell’edizione originale di Film Culture dell’estate del 1963, scritto subito dopo la proiezione del film al Bleecker Street Cinema, condividendone le affermazioni che il film sembra svolgersi in un luogo non identificato, fuori dello spazio e del tempo, in uno splendido bianco e nero che rimanda alle illustrazioni dantesche di Gustav Doré, aggiungendo mito al mito, senza nessuna forzatura, e che è un inferno dove queste creature bruciano, ma la loro gioia lo rende anche un paradiso... finché Be-Bop-a-Lula mi risvegliava, all’incirca ogni quaranta minuti, ricordandomi la fine di quel tormentato capolavoro.

Insomma, nemmeno troppo inconsapevolmente, eseguivo un maldestro re-enactment di quello che, chiunque fosse passato a New York fra la fine dei ’60 e la fine degli ’80, mi aveva raccontato – incalzato dalla mia domanda buttata lì con nonchalance – cosa potesse mai essere una performance di Jack Smith: ore di attesa, l’artista che compariva a tratti, musica esotica anni ’40 in sottofondo e nient’altro. Solo quando gli ultimi spettatori cedevano esausti andandosene, Jack Smith cominciava. E così, anche per me, in piena estasi di sgangherato performative writing, era venuto il tempo di scrivere. Come condensare gli aspetti essenziali di un corpo di lavoro densissimo fra film, teatro, performance, fotografia, arte visiva e vita? Potremmo risolvere tutto in una parola: autenticità. Autenticità nell’individuare uno spazio fra arte e vita in cui l’improvvisazione si combina con il rigore e la coerenza con se stessi, il linguaggio visivo – con fluidità dei movimenti di macchina e immagini sovraesposte, nel caso dei film – s’innesta su interpretazioni segnate dal grande ruolo affidato alla gestualità, la deriva onirica e narcotica dei tempi performativi incontra corpi di travestiti, dive e antidive. Del resto – e Sylvère Lotringer lo ribadisce, sia nel documentario di Mary Jordan Jack Smith and the Destruction of Atlantis (2006), sia nei suoi testi – Jack Smith detestava il capitalismo e la sua “pasty cheerfulness” e non poteva che vivere all’insegna dell’autenticità, alla larga dall’ideologia della felicità “pop” a tutti i costi, dalla dittatura del business permanente, e a tutto favore della condivisione dei sentimenti, della vita della comunità, del godimento della bellezza nel quotidiano. Così Susan Sontag, fra i suoi ammiratori (insieme a Tony Conrad, La Monte Young, John Waters, John Zorn,...), forse esagerava indicando Jack Smith e il suo film – il più censurato della storia del cinema sperimentale e underground – Flaming Creatures (1963), come “pop”, ma non sbagliava certo individuandolo come capostipite e iniziatore del camp e della sua cultura (“Notes on Camp”, in Against Intepretation and Other Essays, Farrar, Strass&Giroux, New York, 1966). Insofferente alla logica del consumismo e dannatamente autentico, Jack Smith non poteva che essere destinato alla paranoia, ossessionato con ironia dall’essere stato derubato intellettualmente (in particolare da Jonas Mekas-Uncle Fishhook, che gli avrebbe sottratto il film che lo aveva reso celebre).

Saccheggiato, o meno, che fosse, Smith non era certo indifferente alla cultura che nell’epoca postmoderna sarebbe diventata dominante, coltivando lui per primo la raccolta indifferenziata di frammenti e di detriti. L’accumulo di ciarpame pop collezionato direttamente dalle strade, una volta intriso d’esotismo hollywoodiano con diaproiezioni, film e musica, diventava infatti elemento drammaturgico essenziale delle sue performance (specie quelle della Plaster Foundation of Atlantis, il suo primo loft a downtown Manhattan fra ’70 e ’72). E la contemplazione di quei bazar di chincaglierie, spazzatura e luminarie, eventualmente appena spostati dall’artista, era solo il prologo di un’azione destinata a estenuare chiunque, e sempre sul punto di implodere. La lezione non sarebbe passata inascoltata, e Bob Wilson in particolare sarebbe stato in grado di lavorare sapientemente sulla dilatazione dei tempi dello spettacolo.

Fuori dalle evidenze (e a volte dagli stereotipi) degli aspetti queer, camp e kitsch, non solo l’architettura ma soprattutto le macerie, la demolizione e il disfacimento, sono soggetti forse più nascosti ma fondamentali dell’ossessione autoriale di Jack Smith. Scotch Tape (1959-62), il suo primo e brevissimo film, è girato prendendo in prestito la 16mm del cineasta sperimentale Ken Jacobs e il suo stesso set, un’enorme distesa di macerie, cavi, aste di metallo ruggini e pezzi di cemento, in cui il nostro ha messo in scena una folgorante danza collettiva. E anche l’incubo (o il meraviglioso sogno, a seconda del punto di vista) di I Was a Male Yvonne DeCarlo (1968-70), si chiude bruscamente fra i fumi e la polvere delle scavatrici al lavoro nella demolizione dell’Hotel Broadway Central.
E oltre la lampante apologia per il cinema hollywoodiano esotico, il mito dell’oriente magico e decadente, la passione smodata per un film come Maciste contro lo sceicco (1926) del regista Mario Camerini, l’adulazione per la diva disastrosa Maria Montez, che Smith adorava per l’inettitudine nel recitare che ne faceva emergere l’identità (poi reincarnata nel transessuale Mario Montez, star dei suoi film), c’è il pinguino Yolanda. Yolanda rappresenta il bestiario e l’animalità come riferimento costante di Jack Smith e lo avrebbe accompagnato fedelmente nel tempo, con un’indimenticabile apparizione nel 1974, per le strade di Roma, con reggiseno a paillettes e un copricapo di piume rosse. Una delle ragioni per cui, nel tempo, ho così ingenuamente inseguito Jack Smith è che la sua pratica mi era sembrata ora seminale, rispetto alla generosità mitografica degli esordi di Matthew Barney (specie in Normal Love, 1963, il lungometraggio forse più stupefacente), ora in splendida assonanza con l’iconografia narcisistica e orientalista di Luigi Ontani, deprivata dalla dimensione collettiva underground, o ancora con le splendenti tensioni performative del cinema di Carmelo Bene, a sua volta eretico, amante dei costumi e dell’uso esasperato della voce in tutte le sue gamme.

Paradossalmente, è proprio la storia del cinema sperimentale, sia per la censura a Flaming Creatures, con annesso scandalo al festival internazionale di Knokke-le-Zoute, in Belgio, nel 1963, sia per la partecipazione di Jack Smith alla sua fase più fulgida – quella expanded, con Rehersal for the Destruction of Atlantis all’Expanded Cinema Festival di Jonas Mekas nel 1965, rassegna con La Monte Young/Marian Zazeela, Claes Oldenburg, Bob Rauschenberg, Terry Riley, Andy Warhol fra gli altri – che potrebbe appiattire la ricerca dell’ “... unico autentico cineasta underground” (John Waters).
Quello che s’impone oggi è, indubbiamente, la potenza visiva, la ricchezza
devastante di un immaginario artistico per sempre originale.
E, diciamolo per l’ultima volta, la libera necessità di creazione, l’evidente integrità e la struggente autenticità.
Ovvero le condizioni che, indifferenti a ogni logica ostinata del consumo, innescano l’azione, fanno fare e fanno agire. Come è accaduto, nel suo piccolo, con questo testo notturno.