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Juliet Anno 30 Numero 150 dicembre 2010 - gennaio 2011



Damien Hirst

Rosanna Fumai



Art magazine


SOMMARIO N.150

* Copertina di Wolfgang Tillmans

* Reportage da Shangai, di Paola Valenti

* Biennale di Gwangju, di Emanuele Magri

* Gigantismo: metodologia o spettacolarizzazione, 6° puntata, fine, di Matteo Bergamini,

* L’arte della sopravvivvenza, 5° puntata, continua, di Luciano Marucci

* Reportage da New York, di Luciano Marucci

* Art Ljubljana, 4° puntata, fine, di Giulia Bortoluzzi

* English Breakfast, 2° puntata, di Matilde Martinetti

* Damien Hirst, di Rosanna Fumai

* Cabalà, di Maria Luisa Trevisan

* Rubrica di Angelo Bianco

* Notiziario Spray di AA.VV.



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L’artista Damien Hirst, accanto a una sua opera, in una foto di Amedeo Benestante, courtesy Madre, Napoli

“Studio Half Skull Face” 2010, opera dalla mostra “Death in Venice” alla Galleria Michela Rizzo

“When Logics Die”, versione 1999, collezione Madre, Napoli

Damien Hirst è un genio.
Sicuramente un genio del marketing, uno che cammina sicuro nel terzo millennio, nel solco già tracciato da illustri personaggi che lo hanno preceduto. Basta ricordare, infatti, il lavoro di Warhol, di Dalì, di Schifano o pensare a quello più recente di Takashi Murakami, per esempio.

Classe 1965, Damien Hirst è un artista inglese tra i più noti e celebrati. Asceso velocemente agli onori della cronaca, negli anni Novanta, per il sensazionalismo suscitato dalle sue opere, Hirst rappresenta il tipico caso di persona che ha saputo ben coniugare il concetto di creazione con quello di successo, trasformando l’idea di sé stesso come artista concettuale, in una vera e propria macchina da soldi. Nato a Bristol e cresciuto a Leeds, oggi vive, plurimilionario, a Devon, a Londra e quattro mesi l’anno in Messico.
Dopo aver frequentato la scuola d’arte e dopo un paio di rifiuti da parte di noti college londinesi, Damien viene finalmente accettato Al Goldsmiths College di Londra, scuola nota all’epoca non solo per i programmi del tutto innovativi, ma anche per la prerogativa di attrarre studenti di talento e insegnanti particolarmente creativi. È qui che probabilmente inizia il suo interesse per i temi della morte e del decadimento progressivo, in seguito all’assegnazione di uno spazio in una camera mortuaria, che influenzeranno gran parte dei suoi futuri progetti.
Nel 1988 cura l’acclamata mostra Freeze, esponendo il proprio lavoro e quello di diciassette suoi compagni di studi. Sceglie le opere, commissiona il catalogo, organizza la vernice. E infatti Freeze lancerà la carriera di molti Young British Artists, finendo per attrarre l’attenzione di Charles Saatchi, il cui nome ancora oggi è spesso associato proprio a quello di Hirst, la cui popolarità cresce di pari passo a quella del suo più noto mecenate. Il rapporto tra i due subisce un duro colpo nel 2003. Hirst decide infatti di fare a meno del sostegno di Saatchi, a causa delle rispettive forti personalità che paiono non trovare più punti in comune e riacquista gran parte dei suoi lavori. Contemporaneamente, decide di aprire un ristorante Pharmacy, nel quartiere di Notting Hill a Londra, che vedrà tra i suoi abituali clienti personaggi del calibro di Madonna, Kate Mosse, Hugh Grant e molti altri. Ma qualche anno dopo il locale chiude. “
È stata una giornata triste
– dirà poi l’artista – come se avessi perso un amico”. Ma la consolazione non tarda ad arrivare. Il ritorno di immagine che l’evento ha scatenato risulta essere senza precedenti. L’astuto Hirst crea infatti, in collaborazione con Sotheby’s, un avvenimento eccezionale, mettendo in vendita gli oggetti e le opere del ristorante e registrando come incasso la cifra record di 20.063.528 dollari. Solo due mesi dopo, Saatchi, cavalcando l’onda del clamore generato dai media, decide di liberarsi dell’emblematica The Physical Impossibility Of Death In the Mind Of Someone Living (ovvero, “L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo”), consistente in uno squalo tigre di oltre quattro metri posto in formaldeide dentro una vetrina, lasciando al noto collezionista americano Steve Cohen la chance di acquistarlo per la modica cifra di 12 milioni di dollari. Questa operazione basta a rendere Hirst il secondo artista vivente più caro al mondo, dopo Jasper Johns. L’opera, che sarà poi donata da Cohen al MoMA di New York, scatenando forti reazioni in Gran Bretagna, rende Hirst la nuova star dell’arte contemporanea, nonché uno degli artisti più popolari della storia.

Non meno scalpore susciterà la realizzazione di For the Love of God, un calco di un teschio umano in platino, in scala 1:1, realizzato sul modello del cranio di un uomo europeo, di circa trentacinque anni, deceduto tra il 1720 ed il 1810. Incastonati nel teschio vi sono 8601 diamanti, per un totale di 1100 carati. Spicca al centro della fronte un grande diamante rosa, da 52,4 carati, che pare valga da solo 4 milioni di sterline. Il teschio-opera, insomma, contiene in totale un numero di diamanti tre volte superiore a quelli della Corona Imperiale. Messo in vendita nel giugno del 2007, alla modica cifra di 50 milioni di sterline, viene acquistato solo tre mesi dopo da un gruppo di investitori, anche se l’artista mantiene per sé il 24% dell’intera proprietà. For the Love of God diventa così l’opera d’arte più costosa di qualsiasi artista vivente e Hirst, non a torto, viene acclamato come un abilissimo conoscitore del marketing.

Numerosi altri episodi si potrebbero raccontare  per spiegare meglio la vita e le opere di un uomo considerato a metà tra l’artista e l’impostore, ma ciò che mi pare importante specificare è che sotto l’apparente assenza di stimoli e significati intellettuali, nei lavori di Hirst si cela sempre un’opera che vuole essere esplorata piuttosto che indagata o spiegata. Si nascondono aspetti controversi della vita e del suo modo di intenderla. Molti suoi set, ad esempio, hanno per protagonisti cadaveri di animali precedentemente sezionati, decomposti, putrefatti, a ricordare la caducità di tutto ciò che è vivo, anche dell’arte. A dimostrare che la morte non è un evento negativo, ma solo un aspetto normale della vita, un aspetto “altro” che va comunque attraversato. E così a una apparente riflessione sulla vita e sulla morte si contrappone la cinica ricerca dello scandalo e del successo. Non ci sono domande moralistiche da farsi, ma solo da constatare serenamente l’innato talento per il marketing e il branding. Del resto, come ama spesso dire, “È questo il mondo in cui viviamo”. Pochi artisti come lui hanno saputo costruire la propria strategia di promozione e questo è un fattore che non può essere ignorato. Basta considerare i titoli dei suoi lavori. Essi stessi sono opere, al punto che ciò che diventa veramente importante è la forza e la coerenza dell’insieme: creazione e creatore inscindibilmente legati. Niente complicazioni intellettuali, compromissioni emotive, reminiscenze filosofiche ancestrali. Solo un’azione nel suo manifestarsi, nella sua essenza, nel suo divenire. Damien Hirst può fare e vendere qualunque cosa senza temere la ricerca estetica, il peso della storia artistica trascorsa, il giudizio moralistico negativo, gli incredibili prezzi.

Come dice in proposito l’irriverente critico statunitense Jerry Saltz: “La sola cosa che conta è l'abilità a vincere a dispetto di tutto”.
Scusate se è poco.