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Mousse Anno 5 Numero 26 novembre-dicembre 2010



Reading is writing

Gigiotto Del Vecchio

Intervista a Moyra Davey





SOMMARIO MOUSSE N.26

Starring
by Antonio Scoccimarro

Talking About
What Will Last? Some Thoughts On Duration In the Age Of Contemporaneity
by Stefan Heidenreich

Talking About
If Money Talks, What Language Does It Speak?
by Jimmie Durham
Nick Relph
A History of Tartan
by Kirsty Bell
Moyra Davey
Reading Is Writing

by Gigiotto Del Vecchio

Talking About
Critical Mess: On the Ruins of The Museum’s Research Departments
by Dieter Roelstraete
Part of the Process – Guillermo Faivovich & Nicolás Goldberg
A Guide to Campo del Cielo
by Johan Lundh
Laure Prouvost
The Floor Is Slippery... Is There Anything We Can Hold Onto Here?
by Francesco Pedraglio
Jakob Schillinger
Ghost Train of Marx
by Portfolio – Chto Delat?
Běla Kolářová
Velvet Revolution
by Alice Motard

Artist Project
Leonor Antunes
Ten Fundamental Questions of Curating
Chapter 2: How About Pleasure?
by Dieter Roelstraete – Edited by Jens Hoffmann, illustrations by Pierre Bismuth

Los Angeles – Frances Stark
The Letter Writer, Frances Stark
by Andrew Berardini

New York – Uri Aran
I Believe In Mimicry
by Cecilia Alemani

Paris
Unpreaching to the Choir
by Dorothée Dupuis

Berlin – Willem De Rooij
Becoming Abstract
by Heike-Karin Föll

London – Ed Atkins
Hauntology
by Alli Beddoes

Lost & Found – Marta Minujin
El Día Que Me Quieras
by Jens Hoffmann

Skeletons In The Closet
John Stezaker
by Barbara Casavecchia, photos by Thierry Bal

Reprint
Like a Dog Makes Its Hole, Like a Rat Makes His Den
by Christoph Keller

Nice To Meet You
J. Parker Valentine
by Laura Fried

Talking About
After Images
by Fionn Meade
Ken Okiishi
Neverland
by David Lewis

HARK!
From Media to New Media
by Jennifer Allen
Diary
by Antonio Scoccimarro

Pratchaya Phingtong
Don't Tell His Mother About This
by Raimundas Malašauskas

Curator’s Corner
Palpable Distance
by Mihnea Mircan – Edited By Andrea Viliani

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Moyra Davey,16 Photographs from Paris (detail), 2009.
Courtesy: Murray Guy, New York.

Moyra Davey,16 Photographs from Paris (detail), 2009.
Courtesy: Murray Guy, New York.

Moyra Davey,16 Photographs from Paris (detail), 2009.
Courtesy: Murray Guy, New York.

Per Moyra Davey la lettura è un piacere e un problema. Si può essere assorbiti completamente da un romanzo, o messi in crisi da un saggio arduo e difficoltoso. In ogni caso, per Davey, il requisito elettivo resta quello di una lettura che si addensi attorno al suo proprio lavoro, che gli si organizzi intorno. Gigiotto Del Vecchio incontra l’artista le cui fotografie sono, da anni, scevre di presenza umana ma cariche di polvere...


Gigiotto Del Vecchio: Il tuo lavoro comprende fotografia, cinema e video. Inoltre, contiene chiari riferimenti alla scrittura e alla filosofia. Potresti dirmi qualcosa di questo “mondo di intersezioni” che influenza la tua attività artistica?

Moyra Davey: La fotografia, il cinema e il video sono strettamente legati ed è facilissimo per un artista passare da uno all’altro. Quando si lavora intensamente, per un certo periodo, con un determinato medium – nel mio caso si è trattato, per molti anni, della fotografia – può avere un effetto corroborante ricominciare da capo con un nuovo progetto sulla scrittura e il video. Attualmente sto lavorando a diverse cose contemporaneamente: sto leggendo e scrivendo di Mary Wollstonecraft, Mary Shelley e di tutto quello straordinario circolo di donne; pian piano stanno cominciando a venire alla luce alcuni video e foto attinenti. Probabilmente ad un certo punto mi metterò lì e comincerò seriamente a progettare un video a partire da questo lavoro di scrittura, ma per ora si tratta solamente di quella piacevolissima forma di flânerie nota come ricerca.

gdv: Tu suggerisci vi sia un’affinità tra gli atti della lettura e della scrittura, due lati opposti della comunicazione che si intersecano l’uno con l’altro; che cosa intendi esattamente quando dici che lettura e scrittura sono complementari? È uno degli argomenti trattati nel tuo libro The Problem of Reading (Document Books, 2003)?

md: Sì, si tratta di una conclusione a cui sono giunta in The Problem of Reading. Ho scritto quel saggio perché ero molto confusa e inquieta riguardo all’atto della lettura e volevo capire da dove venissero quella confusione e quell’inquietudine, come potessi trovare un centro d’attenzione su cui focalizzarmi, ecc. Molti grandi scrittori hanno affrontato il problema della lettura, alcuni direttamente, come Virginia Woolf nel suo saggio Come si legge un libro?, o Italo Calvino nel suo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, o, ancora, Kafka (“non perdete tempo leggendo qualcosa che non sorprenderà la vostra mente”). Altri (Benjamin, Sartre, Barthes) affermano, in un modo o nell’altro, che “la lettura è scrittura”, il che ha rappresentato per me la scoperta più interessante e, in un certo senso, la soluzione al mio problema. Mi sono resa conto che per me la forma di lettura più vitale e più gratificante è quella che si organizza intorno alla produzione di qualcosa di mio. Non sono sicura da dove provenga l’inquietudine, ma so che alla fine ho bisogno di ancorarmi a temi e testi che risulteranno generativi.

gdv: Immagino che questa sia la dimensione entro la quale hai progettato la tua recente mostra alla Kunsthalle Basel, “Speaker Receiver”. Perché questo titolo?

md: Tutto è cominciato con il semplice desiderio di dare un titolo alla mostra da una o, in questo caso, due delle fotografie che vi ho esposto (l’ho fatto anche con la mia mostra precedente alla galleria The Fogg, “Long Life Cool White”). Mi è sempre piaciuto l’accoppiamento di quelle due parole, “Speaker-Receiver” e, riflettendoci più attentamente, ho cominciato a vedere nel titolo diverse risonanze, in particolar modo con i video: Fifty Minutes si basa in gran parte sul rapporto psicoanalitico e My Necropolis è organizzato intorno a una lettera che Walter Benjamin scrisse nel 1931 e su un gruppo di persone che, settantacinque anni dopo, cercano di interpretarla.

gdv: C’è sempre una sorta di senso di immobilità nelle tue opere, la sensazione di cose e oggetti che non abbiano visto la presenza umana per molto tempo. Le persone sono raffigurate molto raramente. Potresti parlare di questo elemento? Perché una simile distanza? Ovviamente è una questione che non riguarda solo l’atmosfera dell’immagine...

md: È vero, è raro che nelle mie fotografie compaiano esseri umani, ed è così da più di vent’anni. Fino al 1984 circa ho realizzato molti ritratti ma, grazie all’esposizione alla critica della rappresentazione – attraverso la scuola di dottorato e il Whitney Program – quell’impulso si è gradualmente atrofizzato. Ho pensato a lungo a una frase, tratta dal saggio di Walter Benjamin Piccola storia della fotografia e citata da George Baker: “La rinuncia all’uomo per la fotografia è, fra tutte, la più irrealizzabile”. È un sentimento che condivido pienamente; tuttavia, Benjamin adorava anche Atget, la cui opera è quasi completamente svuotata della presenza umana: “come la scena di un crimine” è la famosa frase con cui Walter Benjamin stesso ha descritto le opere di Atget. Amo la tradizione della strada, incarnata da Robert Frank, e quella del diario, esemplificata dal Larry Clark degli inizi e da Nan Goldin, Peter Hujar, David Wojnarowicz. Ammiro particolarmente questo tipo di lavoro, ma il mio temperamento e la mia visione si sono in qualche modo evoluti in una direzione ermetica, perfino agorafobica, più in linea con la fotografia testimoniale o, in qualche caso, perfino con le immagini di eBay: oggetti che lasciano intuire una presenza umana, ma che essenzialmente vivono di vita propria. Forse quell’immobilità caratteristica deriva dal lungo tempo che ci è voluto per scattare alcune di quelle fotografie: il tempo penetra nell’immagine.

gdv: Nel testo di Eric Rosenberg sulla tua opera vi è un passo in cui si dice: “Lasciate che il presente sia, dicono le immagini di Davey, lasciate che abbia il suo tempo, che si prenda il suo tempo, specialmente se il futuro significa disfarsi di ciò che è rotto prima ancora che abbiamo determinato in che modo ciò che è rotto potrebbe essere riutilizzato, tenuto o visto”. Pensi di poter aggiungere qualcosa a tale osservazione? Che significato attribuisci esattamente al tempo?

md: Sono molto felice di leggere la parola “presente” nella frase di Eric, perché spessissimo mi vengono poste domande sul “passare del tempo”. So che molti degli oggetti che compaiono nelle fotografie sono antiquati, ma non è quello il motivo per cui li fotografo. C’è un motivo specifico per ciascuna immagine: può essere per il modo in cui cade la luce (Speaker); una confluenza di forme (Nyro); la mia continua attrazione per la polvere (Shure, Paw, Two Streaks, ecc.). Glad, invece, è una sorta di scherzo sulla costipazione da un punto di vista freudiano. E poi c’è l’importanza che per me riveste la rappresentazione della musica (Greatest Hits ecc.). Per esempio, considero il collezionismo di dischi una forma di salvaguardia e di omaggio e qualcosa di intrinsecamente ottimistico. Ma sono totalmente d’accordo con il sentimento espresso da Eric: il ritmo con cui consumiamo nuovi oggetti è spaventoso. L’uso di combustibili fossili, l’industria e le manifatture stanno rendendo tossico il pianeta; ma qui negli Stati Uniti ci viene detto di comprare, comprare, comprare per salvare l’economia. In un modo o nell’altro ci stiamo dirigendo verso l’implosione.

gdv: Le tue fotografie, sempre di dimensioni modeste e mai troppo spettacolari, mostrano le condizioni di vita e di lavoro come metafora della condizione umana. Adam Szymczyk ha paragonato il tuo lavoro a quello che Cesare Pavese, nei suoi diari, chiamava “il mestiere di vivere”. Questa posizione, dal tuo punto di vista, si lega maggiormente a una dimensione poetica, politica o a entrambe? Perché?

md: Mi piace che Adam abbia citato dei diari, perché io stessa ritengo che molte delle mie fotografie siano diaristiche; di questi giorni penso che la macchina fotografica e il quaderno per gli appunti siano quasi intercambiabili. Amo il libro di Pavese. Lo scorso anno ne ho lette alcune parti in francese e proprio recentemente l’ho recuperato dallo scaffale. In due punti ho piegato gli angoli delle pagine e uno di quei due passi riguarda la lettura: “Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi,” e il secondo riguarda la scrittura: “vogliamo realizzare un’opera che comincerà stupendoci”. La stessa cosa vale per la fotografia, (Garry Winogrand: “Scatto fotografie per scoprire che aspetto avrà la cosa fotografata”): vogliamo essere sorpresi dall’immagine. In termini di dimensione politica, credo che in alcune delle immagini vi siano elementi di politica femminista, specialmente in quelle che ritraggono uno spazio domestico, il pavimento, il frigorifero, la polvere ammassata. Inoltre viene suggerito uno stile di vita che non concentri l’attenzione sulle cose materiali.
La posizione femminista emerge più chiaramente nelle cose che scrivo. Ho tenuto una conferenza su Louise Bourgeois in cui effettuavo una triangolazione tra lei, in quanto figura storica del periodo bellico, Marguerite Duras e Mildred Pierce, il personaggio fittizio del romanzo di James M. Cain. E ora sto lavorando ad un testo che deve molto a Mary Wollstonecraft, la femminista, educatrice e attivista politica di fine Settecento.

gdv: Vorrei chiederti della tua esperienza e della tua amicizia con una figura importante come quella di Colin De Land di American Fine Art, dove hai cominciato a esporre nel 1994. Ma vorrei che mi parlassi anche dell’esperienza di far parte del collettivo che ha creato Orchard, la galleria newyorchese gestita da artisti. Il programma era davvero eccitante e, a parer mio, uno degli ultimi momenti culturali importanti. Orchard ha messo in scena e ha prodotto i nuovi progetti di Allan McCollum, Andrea Fraser, Michael Asher e molti altri.

md: Colin era una figura poetica e ambigua, che interpretava il ruolo di mercante d’arte quasi come una messinscena. Dopo la sua morte e quella di Pat Hearn, molti di noi, che gravitavamo nella loro orbita, hanno sentito un forte senso di perdita, la sensazione di un vuoto nel mondo dell’arte, e volevano trovare uno spazio che potesse essere un po’ quello che l’American Fine Art aveva rappresentato per loro. Penso che abbiamo sgobbato molto nei tre anni di attività di Orchard: abbiamo dato vita a una moltitudine di mostre (prevalentemente collettive), proiezioni, eventi e abbiamo dialogato molto tra noi e con la comunità che si è rapidamente formata intorno a quello spazio.

gdv: Come funzionava? Com’era organizzato il programma di Orchard? Qual era il clima culturale al suo interno e quale fuori?

md: Il clima culturale era quello rappresentato da George Bush e dai repubblicani, quindi orribile. Molti di noi erano così depressi per la rielezione di Bush che sentivano di dover fare qualcosa semplicemente per sopravvivere fisicamente e moralmente. Nic Guagnini (eravamo undici membri) insisteva particolarmente sul fatto che le mostre dovessero protestare contro, o almeno riguardare la guerra in Iraq (in realtà penso che solo una mostra, curata da Nic e intitolata “September 11, 1973” fosse esplicitamente incentrata sulla guerra). Inizialmente siamo partiti da una posizione unitaria, ma nella pratica si è assistito ben presto ad un processo di diversificazione e le mostre hanno cominciato a riflettere un insieme d’interessi individuali piuttosto che quelli di un gruppo preso nella sua totalità. Nonostante ciò l’idea di esporre opere intergenerazionali (come quelle di Asher) è sopravvissuta e nella maggior parte dei casi ci siamo attenuti alla regola di non organizzare mostre monografiche. Il primo anno ci siamo incontrati spesso come gruppo e abbiamo avuto accese discussioni sul programma; poi alcuni membri hanno ottenuto lavori in California, mentre altri erano sempre in viaggio per le mostre e così il nucleo si è ridotto. È stato allora che sono cominciati i disaccordi che sembrano endemici ai collettivi... Nonostante ciò, è evidente l’importanza che ha avuto Orchard in quei tre anni, e una comunità di artisti di New York ne sente ancora la mancanza. Sono fiera della profusione di mostre e di eventi a cui abbiamo dato vita; basta dare un’occhiata al sito web (Orchard 47) per rendersi conto della riflessività e dell’inventività che emergevano da ogni progetto.