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Titolo Anno 23 Numero 65 estate 2012



Stefania Beretta

Mario Casanova

L’identità svelata tra tecnologia e globalità estetica



Rivista scientifico-culturale di arte contemporanea


SOMMARIO N. 65
PAG. 3
Editoriale
di Giorgio Bonomi

PAG. 4
Stefania Beretta
di Mario Casanova

PAG. 8
Nuove basi per una storia dell’arte del XXI secolo?
di Francesco Tedeschi

PAG. 11
Critico o curatore? Una questione di “campo”
di Elena Di Raddo

PAG. 15
Sulla Breve storia della curatela di H. U. Obrist
di Gaspare Luigi Marcone

PAG. 18
Storie di ordinaria follia
di Matteo Galbiati

PAG. 20
L’anatomia dell’opera d’arte contemporanea
di Federica Boràgina

PAG. 23
Testi e ipertesti. In difesa del catalogo di mostra
di Kevin McManus

PAG. 25
La fotografia nella sua storia e nella critica
di Cristina Casero

PAG. 27
Arti visive e musica
di Paolo Bolpagni

PAG. 30
Uno spazio ulteriore. Scena, danza, video
di Silvia Leonardi e Antonio Locafaro

PAG. 34
Tra arte contemporanea e ricerca antropologica
di Franca F. Pregnolato

PAG. 37
Enrico Della Torre e Valentino Vago. Intorno a due cataloghi ragionati
di Luca Pietro Nicoletti


PAG. 40
Spigolature bibliografiche
di Giorgio Bonomi

PAG. 44
Lo sciocchezzaio
di Giorgio Bonomi

Recensioni

PAG. 48
“Avanti della Domenica”
di Chiara Mari

PAG. 50
Trebisonda. Una storia contemporanea
di Anna Cochetti

PAG. 54
Alberto Zanchetta, Frenologia della vanitas. Il teschio nelle arti visive
di Cristina Marinelli

PAG. 56
Enrico Minato, Performance
di Antonio Locafaro

PAG. 58
Giovanni Mezzedimi, Solubili in acqua, video
di Antonio Locafaro

PAG. 60
Strangers
di Stefania Crobe

PAG. 62
Stefano Soddu
di Luca Pietro Nicoletti

PAG. 64
Hiroyuki Nakajima
di Giorgio Bonomi

PAG. 66
Maria Mulas
di Antonella Scaramuzzino

PAG. 68
Osvaldo Licini
di Elena Magini

PAG. 70
Uno sguardo italiano
di Elena Magini

PAG. 72
Martin Soto Climent
di Sara De Chiara
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Francesca Pola
n. 62 primavera/estate 2011

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Matilde Galletti
n. 61 inverno 2010


Stefania Beretta, Contaminazioni, Londra, 2005

Stefania Beretta, Los Angeles, 2006

Stefania Beretta, #76 Indian’s walls, 2008

Mi chino per la prima volta sull’opera della fotografa svizzera Stefania Beretta (1957), cercando di collocare il suo lavoro nel contesto storico e societale che lo ospita, lo giustifica e lo rende senza tempo, e paradossalmente immateriale; poiché l’acqua lenisce i segni, e ciò che rimane di un artista, non solo è la sua opera, ma soprattutto il suo pensiero via via più fiero e dominante oltre la sua produzione. Societale, non sociale, poiché l’artista in generale, proprio per la sua genetica anti-reale, non potrà mai issare la bandiera dell’impegno civile e – appunto – sociale. Tuttavia la coscienza della Storia e delle storie rende unica e vigorosa la produzione del pensiero artistico. In un’epoca, in cui il futuro si configura nel consumo ossessivo e quasi liturgico del presente, attraverso un processo tattile ed espressivo (se non espressionista), in opposizione consequenziale a tutti gli -ismi concettualizzanti di tempi addietro. Non solo, aprire gli occhi e svelare sembrano parole d’ordine per un nuovo ordine sociale.
Per quanto ciò possa concernere Stefania Beretta, la messa a fuoco mira su di un periodo temporale che ci riporta lentamente agli anni ’80, allorquando argomentare di multimedialità, come funzione quasi obbligata del procédé artistico-produttivo, faceva in sé presagire la caduta di molte consuetudini professionali e sociali

La scelta di usare la macchina, di definire, in altri termini, la rappresentazione del reale attraverso un filtro tecnico e meccanico, una sorta di interfaccia che riposiziona interamente il concetto di lasso temporale legato all’esecuzione e che intercorre tra l’idea e il prodotto finale, imporrà a Beretta, fino ad oggi, un mezzo di produzione e materializzazione del pensiero e dell’immagine riflessa quale purgatorio ed estenuante ricerca di unità tra documentazione e rappresentazione dell’immagine; tra cronistoria e universo artistico, tra desiderio di riproduzione e velleità visionaria. Ed è proprio nel rapporto perverso spettatore/artista (si ricorderà la significativa Esposizione in tempo reale n° 4: Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, di Franco Vaccari alla Biennale di Venezia del 1972), e dal suo totale ribaltamento vittima/carnefice, che la fotografia interviene a forza nel mondo dell’arte visuale come vera e propria forma d’arte ancorata ai criteri performativi della Body Art quale critica al sistema dell’arte. Se da un lato Vaccari interviene nello sdoganamento della fotografia verso l’arte, dall’altro, egli teorizza il soggiogamento dell’uomo all’”inconscio tecnologico”, di cui la macchina è portatrice sana. Si consumano altri esempi di illustri pensatori circa la perdita dell’innocenza di fronte alla tecnologia (McLuhan, Pasolini, etc.). Siamo nel pieno del pensiero artistico ribaltato all’interno della relazione arte e scienza. Il movimento Fluxus farà il resto nel verso di un processo non ancora giunto al capolinea di definizione della fotografia come aspetto non solo dell’arte, bensì, in primis, dei processi originari creativi, liberati dallo stesso concetto di cultura intesa come matrice ed espressione di una realtà borghese.
Il Novecento, un susseguirsi di movimenti storico-culturali, rappresenta l’apice di un processo di imborghesimento a difesa dello Stato, che troverà nel dopo-guerra quel benessere del consumismo concepito per trasformare abilmente l’uomo che produce nell’uomo che consuma. Proprio in questa fase delicata, laddove la riproducibilità dell’opera d’arte concima la fotografia e il mercato ad essa legato, si cerca di definire l’identità dei ruoli e delle competenze dell’artista-fotografo entro l’arte-mercato, così come Facebook e la produzione smodata di immagini.

Non ancora completamente svelato l’arcano in che misura la fotografia sia documento od opera d’arte, Stefania Beretta sembra coinvolta nel mondo che la circonda, dal suo processo di globalizzazione fortemente frenato dal buon sano archetipo umano e connotato da avvenimenti storici fondamentali, capaci di segnare per sempre il nostro futuro, e soprattutto la nostra consapevolezza di esseri umani di fronte al mistero delle cose.
La caduta, nel 1989, del Comunismo e lo sgretolamento del tardo Capitalismo nel 2008 hanno rimesso in forte discussione non solo l’assetto economico, bensì anche il concetto sociologico ed antropologico dell’uomo inteso come “persona”.
In questo stadio di totale emancipazione dalle ideologie e dalle avanguardie, e di una maggiore presa di coscienza di ciò che l’umanità è nel suo errare nella stratificazione dei secoli, l’artista si deve riconfigurare recuperando la sua identità di agente di disturbo e premonitore. L’anti-realtà, di cui è intriso forse non già per educazione, non lo potrà mai congiungere con quell’impegno sociale, che – si pensava – lo potesse contraddistinguere dagli anni ’50 del secolo scorso. Ecco che siamo, quindi, tutti uniti, ma per fortuna separati nell’incontro con il soci(et)ale. Molte certezze si sono infrante, molti collettivismi pure; ciò che una volta chiamavamo avanguardia, oggi rimane una mera moda; uno dei tanti aspetti dell’universo delle cose vane che appartengono non già all’uomo, ma all’individuo, cioè al suo involucro: un’altra invenzione della borghesia nascente nel suo massimo splendore.
La produzione di Stefania Beretta si è sempre concentrata su due aspetti che bene rappresentano l’uomo: l’intimità e il suo coinvolgimento sociale; ovvero il suo mondo privato e interiore e la volontà di rendere pubblico il suo intimismo. L’approccio sensuale con il quale l’artista cerca nel proprio sé, scavando nel proprio corpo fisico e psichico, intervenendo e solcando la pellicola, la pone all’interno di un universo antireale, ove le verità più personali e nascoste sono la outline di una ricerca umana ed esistenziale, che si concretizza con il processo di estetizzazione del proprio mondo oscuro, da decodificare e interiore. L’ossessione del desiderio, ma anche il desiderio delle ossessioni, è uno degli aspetti del motore artistico. Ciò è, così come accade anche a un pittore che elabora l’immagine in un lasso di tempo meno immediato e prolungato. Stefania Beretta elabora, invece, il negativo, la matrice e/o l’idea/impressione oculare primaria per offrire al pubblico il suo risultato positivo, ribaltando completamente le fredde modalità della macchina e della tecnologia.

Tuttavia, l’artista svizzera non si ferma a un’analisi del proprio io e del proprio sé all’interno di un criterio, per così dire, “artistico”, bensì attraversa questo difficile mezzo, la macchina, per rapportarsi al mondo delle diversità e alle diversità del mondo. Il viaggio interiore, laddove l’artista dà immagine delle problematiche del suo rapporto con il reale, si trasforma qui in viaggio reale …e l’aspetto documentario pone la sua persona in una luce diversa.
India, soprattutto e regolarmente, ma anche Londra nel 2006 e Parigi qualche anno prima, l’Italia, sono le mete del suo errare e del suo viaggio interiore, dove Beretta diventa lo specchio imparziale delle immagini che la circondano nel suo inter-agire, lo strumento, affinché il mondo possa vedere un altro mondo. Non v’è possibilità, in questo caso, che l’immagine vista dalla fotografa in anteprima sull’interfaccia della sua macchina non possa corrispondere in pochi secondi a ciò che il pubblico avrà, in seguito, la facoltà di elaborare e fare sua. Dei fotogrammi di reportage che vanno a completare i suoi tournage di video costituiscono un corpo di lavoro fondamentalmente meno autoreferenziale e più sociale.
Rimane la Magia, quel fattore dell’immaginario, che in tutti i casi e per osmosi emozionale o analitica coinvolge il rapporto artista/pubblico all’interno di un dialogo tra le parti; una funzione che ci riporta al sogno e alla smaterializzazione temporale …convinto, come lo sono, che la visione, l’utopia e l’espressione della cultura rimangono la vera responsabilità civile e sociale dell’uomo, “al di là del possibile, al di là conosciuto!”.