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Urban Anno 13 Numero 112 marzo 2013



Middle East Now

Francesca Bonazzoli

FIRENZE CREATIVE LAB





SOMMARIO N.112

7 | EDITORIALE
9 | ICON
11 | INTERURBANA
al telefono con Marina Avanzi
13 | PORTFOLIO
Pericolosa, sporca e creativa
a cura di Floriana Cavallo
19 | CULT
di Michele Milton
20 | SOSTIENE DEVENDRA
di Paolo Madeddu
foto Mattia Zoppellaro / Contrasto
28 | MUSICA
di Paolo Madeddu
30 | LA CITTÀ INFORMALE
di Susanna Legrenzi
34 | PSYCHIC ILLS
di Ciro Cacciola
foto Samantha Casolari
38 | MIDDLE EAST NOW
di Francesca Bonazzoli
42 | DANIEL ANDRESEN
di Federico Poletti
foto Tatiana Uzlova
44 | IL RITO DELLO
SPRING BREAK
di Roberto Croci
49 - 58 | DETAILS
di Ivan Bontchev e Tatiana Uzlova
50 | DAYDREAMING
foto Luca Campri
styling Ivan Bontchev
60 | NIGHTLIFE
di Lorenzo Tiezzi
61 | FUORI
66 | ULTIMA FERMATA
di Franco Bolelli
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Hassan Hajjaj
L Nisrin

Hassan Hajjaj
M Miriam Green

Rana Salam
LR LILI YA LOULU

Differenze, analogie, ma soprattutto contaminazioni fra due culture di confine. Ovvero, anche il Medio Oriente ha il suo lato pop

Spagnoli, italiani, francesi, greci, turchi, egiziani, marocchini, algerini, libici, libanesi, siriani, israeliani e palestinesi: abbiamo tutti i piedi immersi nella stessa acqua.
Se guardiamo una carta geografica, infatti, il “bacino del Mediterraneo” appare come un catino dentro cui tutti questi Paesi mettono a bagno le loro estremità. Eppure, per quanto possa sembrare incredibile vista la distanza ravvicinata e i continui contatti che si sono avuti nel corso dei millenni, il Nord poco sa del suo lato Sud. Anche oggi che internet e le immagini inviate in tempo reale ci dovrebbero svelare ogni segreto, noi Occidentali ci facciamo sempre cogliere di sorpresa da ciò che avviene nei Paesi arabi. Siamo lì a registrare le “primavere” e a contare le “controprimavere” come osservatori inebetiti seduti per caso sugli spalti di un campo da tennis, ignari delle regole del gioco, ostinandoci a tenerci distanti da un mondo in realtà così vicino.

A Firenze il festival Middle East Now! (chissà perché intitolato con la solita lingua inglese per cui nemmeno possiamo imparare come si dice Medio Oriente in arabo), alla sua quarta edizione, dal 3 all’8 aprile, prova a gettare ponti fra una sponda e l’altra del Mediterraneo ed è un’occasione imperdibile per aprire nuove visioni attraverso la cinematografi a contemporanea, fi lm indipendenti e underground poco visti anche nei Paesi di provenienza. I giovani cineasti e i talenti emergenti ci fanno da guida nei loro territori presentandoci personaggi, raccontandoci storie, mostrandoci case, città, campagne, la vita quotidiana e l’attualità in Iran, Iraq, Libano, Israele, Egitto, Palestina, Giordania, Yemen, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Afghanistan, Siria, Bahrein. Circa 40 tra fi lm, documentari, short fi lm e animazioni, titoli che normalmente non vengono distribuiti in Italia e a cui si aggiunge, quest’anno, la cinematografi a del Nord Africa:Marocco, Tunisia e Algeria.

Altre novità di questa edizione sono la sezione speciale dedicata a Israele e Palestina e il focus Afghanistan Inside Out, dedicato a un Paese che, dopo oltre dieci anni di controllo militare da parte degli Stati Uniti d’America e della missione Isaf guidata dalla Nato, sta per essere lasciato a se stesso e a un futuro incerto. Tra le anteprime in programma ci sono lavori altrimenti impossibili da vedere come My Afghanistan. Life in the forbidden zone, del regista Nagieb Khaja: uno sguardo affascinante e commovente sulla vita quotidiana di uomini e donne afgani che raccontano se stessi dal basso, attraverso la videocamera dei loro cellulari.

Ma il festival non si esaurisce nel cinema. In questi Paesi, infatti, dove il sapere accademico è meno rigido e l’arte di arrangiarsi diventa creatività a tutto campo, i confini fra cinema, musica, arte, design, fotografi a, moda sono molto più liquidi. A rappresentare questi “spazi ampi” sono stati invitati due protagonisti: Hassan Hajjaj e Rana Salam.
Il primo, nato nel nord del Marocco nel 1961, ha lavorato come produttore musicale, designer di una linea di accessori moda e successivamente ha lanciato RAP, una ready-to-wear boutique diventata un hub di moda nella Londra degli anni ’80. Negli anni 2000 ha lavorato a opere e installazioni influenzate dalle atmosfere del suk arabo, ma ispirate anche alla Pop Art americana, inventando mondi ludici e divertenti che ribaltano i codici. Nello stesso periodo ha iniziato le serie fotografi che che omaggiano fotografi di moda come Samuel Fosso, Malik Sidibé e David La Chapelle e nel 2009, dopo essere stato acclamato dal critico d’arte Rose Isa, è stato fi nalista al Premio Jameel del Victoria & Albert Museum per l’arte islamica.
Nella casbah di Marrakech, la città dove vive dividendosi con Londra, ha realizzato lo shooting di ,VogueArabe, dodici scatti in mostra alla Aria Art Gallery (Borgo Santi Apostoli 40, dal 6 aprile al 5 maggio), controcanto parodistico alle foto glamorous di moda. Invece delle longilinee modelle ariane, Hajjaj fotografa le sue connazionali marocchine che indossano vestiti ideati da lui stesso: camicioni e veli che nascondono volto e corpo, e accessori che rimandano a quelli delle griff e d’alta moda e al binomio donne e motori in ironiche versioni “vorrei ma non posso”. Chiassose, tamarre, ironiche e stravaganti, le opere di Hassan Hajjaj ci invitano a riflettere sul modo
in cui Oriente e Occidente si vedono reciprocamente e sul corto circuito che si innesca.

“Fra i due mondi c’è un continuo fraintendimento culturale, ma il fatto che non ci capiamo a vicenda dipende anche dai media, dal modo in cui i mezzi di informazione raccontano il mondo”, ci dice Hajjaj. Secondo l’artista marocchino è questo il motivo principale per cui ci facciamo sempre sorprendere e cogliere impreparati dagli eventi che accadono nei Paesi arabi. Per esempio non abbiamo ancora capito se la primavera è passata, torna, o si è trasformata in inverno.

“Guardando all’epoca in cui viviamo e a quanto sta accadendo, credo ci vorranno generazioni per sistemare le cose. E credo che quello che accade nei Paesi arabi possa anche contagiare l’Occidente, vista la crisi economica, il modo in cui viviamo e quello che vogliamo. E poi c’è da considerare che c’è un gap generazionale molto grande e internet: chi ci dice che presto non arrivi anche una primavera occidentale?”.
“Con VogueArabe voglio condividere qualcosa della mia cultura, voglio far vedere che i marocchini, e in generale gli arabi, sono consapevoli di cosa siano la moda e lo stile, e che nei fatti non pensiamo sempre e solo alla politica e alla religione”.

Anche la seconda ospite speciale, la graphic designer libanese Rana Salam, riesce a stupirci per il suo modo fantasioso di unire le immagini occidentali a quelle arabe. Artista tra le più affermate e celebrate di tutta la scena mediorientale di oggi, ha studiato a Londra ed è stata tra le prime a rilanciare un immaginario pop della cultura araba più recente, mescolando i poster di celebri fi lm egiziani degli anni ’80 alle colorate confezioni dei chewing gum libanesi Chicklet, ispirandosi a fi gure mitiche della cultura popolare come la cantante Oum Kalthoum.
Ha realizzato l’interior design e le atmosfere per department store come Harvey Nichols, catene di ristoranti alla moda come Le Comptoir Libanais a Londra, ed è stata anche coautrice di The secret life of Syrian lingerie, un libro che ha suscitato scalpore perché indaga il ruolo della Siria come il più importante produttore di biancheria intima di tutto il Medio Oriente.
Giovedì 4 aprile la si potrà ascoltare durante una lecture al Centro di cultura contemporanea Strozzina dal titolo Dalla cultura popolare allo chic: il pop design Middle East di Rana Salam. E poiché a lei si deve anche l’avvio di una tendenza ormai consolidata nella scena di Beirut – l’apertura di negozi temporanei dalle atmosfere pop – a Firenze, dal 5 al 28 aprile, allestirà un temporary shop con i suoi oggetti negli spazi del concept store Société Anonyme, in via della Mattonaia 24. Inoltre, una sua installazione sarà visibile al cinema Odeon nei giorni del festival.
Già guardando le immagini di queste pagine si respira un’aria familiare.
Non è forse la stessa allegria colorata dei carretti siciliani e delle carte veline stampate in cui venivano avvolte le arance? La prova che non siamo mondi poi così lontani, e soprattutto che non lo siamo mai stati.
Il vento sta cambiando ed è meglio accorgercene in tempo. Come ci spiega ancora Hassan Hajjaj: “Ci sono tantissimi musei sia occidentali sia del mondo arabo, e anche tantissimi curatori alla ricerca continua di nuovi artisti locali che non hanno ancora lasciato i loro Paesi d’origine. Non è più così necessario per un artista arabo emigrare in Europa: ora è il mondo occidentale ad attraversare il mare”.