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Juliet Anno Numero 87 apr-magg 98



BOTTO & BRUNO

A cura di Domenico Papa



Art magazine
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Domenico Papa: Come avviene la scelta dei luoghi che fotografate per i vostri lavori?
R.Botto: Casualmente. Giriamo in automobile e quando vediamo un posto che ci interessa ci fermiamo. Spesso fotografiamo anche in movimento. Abbiamo usato molto, in passato, le immagini riprese dall'automobile...
G.Bruno: ...poi abbiamo sentito l'esigenza di entrare nei luoghi intravisti da fuori, dalla strada. Luoghi abbandonati, dove non c'è più nessuno. Abbiamo sentito la necessità di viverli di più.
D.P.: Come decidete che è arrivato il momento di fotografare uno spazio. Cos'è che fa scattare il meccanismo per cui riconoscete, il luogo che cercate?
R.B.: Ci rendiamo conto che alcuni spazi è necessario abitarli, anche se per pochi secondi, farne esperienza, per conoscerli.
G.B.: Un'esperienza anche sofferta. Entri in un posto e lo vivi sulla tua pelle.
R.B: ...devi in qualche modo conquistare quello spazio...
G.B: è una sorta di frontiera. E la fotografia è lo strumento con il quale attraversi ed esplori la frontiera. Usiamo la macchina fotografica come in un film di Wenders su Lisbona veniva usata la cinepresa: è un'arma. Hai sempre una certa paura e la macchina fotografica è un modo per difenderti. Quando esci hai conosciuto delle cose nuove, nuovi luoghi.
R.B: Cosa che non puoi fare sempre fotografando da lontano.
D.P.: Nel momento in cui vi rimettete in gioco in quegli spazi, quelli vi si aprono. E mettersi in gioco non è solo un evento mentale ma anche fortemente fisico. E per questo ne fate esperienza.
G.B.: E proprio per questo a volte torniamo in alcuni luoghi visitati per fotografarli di nuovo e per cogliere quello che è cambiato. Ogni volta che torniamo abbiamo impressioni diverse: non più timore, ma addirittura, a volte, un senso di familiarità. Cominci a conoscere un tuo territorio.
D.P.: E cominci ad abitarlo, a costruire una mappa, ma a quel punto ha ancora senso ritornarci ancora?
G.B: In verità, cominci ad avere sensazioni maggiormente piacevoli, come il senso di pace, di silenzio, che prima non percepivi.
R.B: E poi ti accorgi che non sei il solo a visitarli, magari sono abitati, da altri, in modo altrettanto furtivo. Te ne accorgi, per il fatto che trovi degli oggetti spostati o magari perché qualcuno ci ha dormito. C'è comunque un vissuto del quale scopriamo le tracce, anche se non ne conosciamo la storia. Per questo motivo mettiamo in mostra un materasso abbandonato che non è mai quello che troviamo, ma uno ricreato ex novo, un segno per quella traccia.
D.P.: Non è infatti un ready-made, perché preferite ricreare un oggetto che è artificio in un contesto, quale quello della galleria o della collezione, che è artificiale.
G.B: Riproduciamo l'insieme degli oggetti che troviamo perché quegli oggetti appartengono a quei luoghi e ai visitatori di quei luoghi. Perché devi sottrarli a quel contesto per poi renderli fruibili a pochi?
R.B: E poi noi vogliamo esplorare un paesaggio, non vogliamo modificarlo, preferiamo che lo facciano altri. E perciò, la conquista di un spazio non significa mai saccheggio ma sempre e solo un'esperienza. Mi fanno sempre un po' paura i grandi progetti di riqualificazione delle aree periferiche: in essi va sempre perduta la pulsazione di un'energia. In quelle aree è possibile ritrovare degli stimoli a patto che non vengano pietrificati in un progetto. Un nostro lavoro -Zona Temporaneamente Autonoma- cita un saggio di Akim Bey, che teorizza appunto un uso di questi spazi, al di fuori di qualsiasi sistema di norme, per un tempo che può essere solo di transito, che non permetta l'istituzionalizzazione dell'uso del luogo.
D.P.: Dicevate di luoghi "interessanti": qual è il significato dell'aggettivo "interessante"?
R.B.: A volte entriamo senza sapere quello che troviamo: cominciamo con il guardarci intorno. Poi ci rendiamo conto di trovarci in luoghi surreali, perché sono luoghi della città dove la natura ha ripreso il sopravvento, sono luoghi dove magari da bambini si giocava, perché un tempo erano abitati e dunque sono luoghi della nostra infanzia...
G.B.: Sono luoghi dove un tempo si lavorava, anche.
D.P.:Dite surreale, ma in ciò non fate riferimento diretto alle avanguardie storiche, quanto piuttosto all'osservazione che nei luoghi da voi visitati si sovrappongono diverse realtà. Surreale nel senso di un eccesso di realtà, di una realtà sovraesposta.
R.B: Sì, in fondo, quel che ci interessa è dare una visione di questi luoghi il più possibile molteplice. In certi spazi viene fuori una periferia molto dura, in altri una periferia più visionaria, in altri ancora...
G.B: ...più legata al sogno, legata ai quegli aspetti dell'infanzia dei quali dicevamo, delle scorribande giovanili, che per chi come noi è nato in una periferia, erano un modo per attraversare spazi che sapevamo pericolosi. È il senso del limite, della frontiera: la paura e la voglia di oltrepassarla.
D.P.: E quei luoghi sono visionari perché quelle forme, le architetture, i magazzini, le cisterne, ormai private della funzione, vengono caricate di valenze provenienti da un più ampio orizzonte simbolico, che però non è mai esplicito.
R.B.: Infatti, ci piace pensare che dal momento che la gente non va in questi posti, noi ricreiamo questi spazi nei quali lo spettatore è costretto ad entrare e, una volta dentro, a trovare un proprio percorso di lettura. Ecco perché ci sono queste sequenze. Si tratta di scatti diversi, in luoghi diversi, in tempi diversi e quindi documentano un nostro cammino. Entrare in uno di questi spazi significa parteciparvi e spesso, come nella mostra Konrad Lorenz's Duck, si ripropone il timore a entrare, lo stesso provato da noi. Sono zone di confine, ibride.
D.P.: E sembra che ci si possa avvicinare a esse solo attraverso l'opera. Ecco perché il vostro lavoro è un diaframma, una trasparenza, un mezzo grazie al quale si ottenere una percezione di quegli spazi.
R.B.: Nei plexiglas, infatti, si uniscono immagini di paesaggi diversi per formarne di nuovi, inesistenti, resi ancora più distanti dall'uso dei colori dati dalla macchina. Ecco perché non sono spaccati di una realtà. Non facciamo mai reportage.
G.B.: Anche perché non sì coglierebbe l' energia sotterranea del luogo: nei lavori precedenti abbiamo usato testi di taglio giornalistico, mentre adesso lavoriamo su testi provenienti dall'ambito musicale. Abbiamo scelto la musica, e in particolare il rock, giacché dalle periferie provengono molti gruppi interessanti. Un nostro ultimo lavoro si intitola Sogno sonico e riprende immagini dall'universo musicale: il sacco a pelo, che si riferisce all'idea del viaggio e, poi quello che è necessario in un viaggio: soprattutto la musica.
D.P.: Il sacco a pelo, in quel caso, è qualcosa di sottile, non ti protegge, è soltanto una seconda pelle fatta di parole e di immagini.
R.B: C'è una ricerca di semplicità: cerchiamo di non caricare ulteriormente le immagini dal momento che sono già molto forti. Cerchiamo di rendere tutto ciò che sta intorno all'immagine, e la sostiene, molto leggero. Usiamo, perciò, una similpelle bianca, che contrasta con la durezza delle scritte o delle immagini.
Usiamo forme della quotidianità, che siano anche immediatamente percepibili: il tappeto, il sacco a pelo e anche oggetti ove la gente possa adagiarsi, che possa usare, che possa vivere con il proprio corpo. Sul materasso puoi appoggiarti, riposare, dormire.
D.P.: Il corpo dello spettatore viene sempre messo in gioco: sia perché utilizza, come dicevate, le vostre opere, sia perché egli visita attraverso le opere quelle periferie e non solo con gli occhi, ma anche con le orecchie, con il tatto. Nel caso del tappeto, del materasso, ma anche nelle stanze, l'opera non è solo per gli occhi, ma per il corpo intero.
G.B: Nelle immagini, nelle stanze ad esempio, non ci sono immagini di persone, di altri corpi, ma solo paesaggi e oggetti, ciò che l'uomo ha lasciato, i suoi rifiuti. Il fatto che non ci sia alcun riferimento ad altre presenze indica che l'opera si conclude solo nel momento in cui viene visitata, nel momento in cui ospita la presenza dello spettatore, che diviene l'attore della nostra opera.
D.P.: Questo fa pensare a una simmetria nel vostro lavoro: esiste un luogo, quello delle periferie, che si compie in una visione, la vostra. Esso non ha significato se non nello sguardo che lo esplora. Esiste poi lo stesso luogo, all'altro estremo del processo di elaborazione da voi avviato, che non si compie se non grazie allo spettatore che lo visita. L'opera è il processo che tiene in rapporto questi due estremi.
G.B: Sì, all'inizio siamo noi gli attori, mentre alla fine è lo spettatore: in mezzo c'è la nostra esperienza personale che diventa collettiva. L'opera è un modo per partecipare ad altri l'esperienza di un luogo, e in questo senso non può essere un oggetto, ma piuttosto un processo.
D.P.: Anche perché non vi ponete l'obiettivo di costruire una storia o un racconto. L'insieme delle immagini che recuperate in modo assolutamente casuale viene proposto allo spettatore in modo altrettanto casuale, egli è libero di costruire le proprie sequenze o il proprio ordine di lettura. Ogni rappresentazione delle vostre periferie è tutta da costruire, perché non esiste ancora un testo codificato.
G.B.: I testi, per nulla codificati, li traiamo dal cinema, dalla musica, dalla letteratura giovanile. La visione di un futuro come grande periferia, infatti, non comporta necessariamente una visione negativa. Fintanto che le visioni di un luogo non sono codificate esiste una varietà incredibile di forme, di linguaggi, di paesaggi.

"I'am seeing ghosts flyin'" 1997, cm 33x30, lasercopy su plexiglas, courtesy Alberto Peola-Torino

Progetto per la Triennale "A noir" 1998, ph. courtesy Le Case d'Arte- Milano

"È lì che tutto cominciò" 1997, courtesy Studio Barbieri-Venezia