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Juliet Anno Numero 97 Aprile 2000



L'altra metà del cielo

Roberto Vidali



Art magazine
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Dove va il mondo? Lui gira e noi giriamo con esso, sì, ma quello che si vuole chiedere è: "Dove va la gente che sul mondo poggia i piedi e, nello specifico, dove vanno gli artisti, cosa fanno delle loro giornate, cosa pensano le loro testoline, a quali estetiche danno configurazione?"
Insomma, davvero dovremmo credere che tutti sono lì a giocarsi la vita con le playstation, a sognare con internet, a folleggiare con la posta elettronica oppure tra i giovani serpeggiano anche le diversità, le dissomiglianze, le separazioni? Certo, a sentire il coro pusillime di tanti critici sembra che la realtà sia ben conformata e facilmente classificabile: da un lato l'aspetto tecnologico dell'espressività linguistica (in tutte le sue forme e sfumature), dall'altro un tipo di pittura figurativa, spesso riconducibile a istinti neoimpulsivi, talvolta debitrice di schemi o griglie d'impianto fotografico. Ora, senza star qui a far le pulci a nessuno (ché non voglio elevare all'altare il capro sacrificale di turno per mezzo della mia poco seguita parola) voglio solo sottolineare che sono le singolarità a far la storia e non le masse oscure e informi e che di queste il Bel Paese è pieno, purtuttavia si tratta di singolarità che vengono regolarmente dimenticate dalle manifestazioni ufficiali, da alcuni segmenti di mercato impazzito dietro la sua stessa vanagloria e che mai s'incontrano -per pochezza d'intenti della critica militante- tra di loro e, più precisamente, gli artisti di una certa operatività linguistica con quelli di un'altra area.

Tanto per capirci, una delle più radicali singolarità è Maurizio Cattelan, autore che tutti vorrebbero come vicino di casa (o di mostra) ma che ormai ha operato lo scarto generazionale e che si confronta con autori di tutt'altra età e di tutt'altro calibro (tra parentesi, sapete quanti erano gli italiani presenti -su un totale di centotrentasette- nel librone pubblicato da Taschen "Art at the Turn of the Millennium"?, non è importante che lo sappiate perché ve lo dico io, uno solo: nella fattispecie Maurizio Cattelan). Tutto ciò va a onore dell'autore, così come va a detrimento della critica attuale che vive su una formula di appiattimento generale: seguire le mode che vengono dall'estero, rincorrendo con il nome di riferimento locale quanto succede a Londra o a New York (anche in questo caso non fornisco indicazioni dirette: ognuno immagini chi vuole lui o altrimenti consulti i Vegetali Ignoti che risponderanno a tutti i quesiti più strani e magari poi li pubblicheranno nella loro rubrica su uno dei prossimi numeri di Juliet). In questo modo tutti si sentono creativi, tutti credono di essere pronti e preparati a superare l'impasse del momento.
Boh?! Sarà davvero così?! E soprattutto ci sono delle alternative possibili? Io credo di sì, giacché esistono delle realtà seminascoste che si stanno muovendo in piena libertà e in tutt'altra direzione. E qui voglio essere più chiaro. Questo senso di frustrazione annebbiata è un po' come la presenza di Ray Smith e di Julio Galan sul mercato internazionale: tutti dicono che sono bravi pittori e non ce li hanno mai fatti vedere a una mostra pubblica in Italia o alla Documenta di Kassel; come dire: nessuno ha trovato coraggio sufficiente per ufficializzarli, nessuno ha trovato il coraggio di dire: vediamo un po' cosa succede se vicino a questa lamiera di Kounellis ci metto il ritratto di Ezra Pound con i pesci a far da acquario (tela di Ray Smith del 1992-94); e se lo faccio mi scatterebbe qualcosa nella testa o sarebbe peggio di un pugno nello stomaco? Io propendo per la prima opinione, eppure se dovesse capitarmi un pugno nello stomaco davvero mi farebbe così male? (E poi, suvvia, un pugno non può essere visto come un qualcosa di propositivo?)
Qualcuno potrebbe tentare una giustificazione: sono gli artisti che comandano, altro che i critici; quando mai uno come Kounellis si lascerebbe avvicinare da uno come Smith o Galan? Tutt'al più il prode è disposto a lasciarsi avvicinare da autori inoffensivi come Domenico Bianchi, cioè da tutti coloro che non potranno mai soffiargli la luce del palcoscenico... Sì, il discorso è lampante e contiene un fondamento di verità. A molti curatori sarà capitato di non riuscire a fare una mostra in un certo modo a causa del rifiuto di un artista o per la non reperebilità di una data opera (ricordo ad esempio quella primadonna di artista accompagnato da quella superprimadonna di gallerista che nell'occasione di Aurelia, nel 1989, rifiutò di prendervi parte perché vicino a Pusole e a Premiata Ditta non ci poteva proprio stare; anche in questo caso lascio a voi la fantasia di riempire le caselle vuote con i nomi che ritenute più opportuni o di chiedere ai soliti Vegetali Ignoti gli eventuali chiarimenti...). Certo, in questi casi si tratta di terrorismo culturale, di potere spropositato gestito in malo modo, di volontà di fare scuderia, con la scusa delle comunanze stilistiche, perciò formulerò il quesito retorico: "A qualcuno è mai venuto in mente di fare un testo sulla diversità di artisti come Smith e Galan, di confrontare e spiegare il loro lavoro in consonanza con quello dell'arte concettuale e processuale, e di giustificarne le relative posizioni?" Questo lo si potrebbe fare senza star lì a sbrodolarsi sugli epigoni della videoarte e del mezzo fotografico e, soprattutto, senza dover subire il ricatto di galleristi o di artisti superman che giocano solo alla conservazione del loro personale potere. In altro modo saremo costretti ad abbandonare la forza propositiva e positiva di questi (e altri) autori nelle mani pur autorevoli di un cerbero di turno alla Jean Clair. E la faccenda non pare proprio che sia delle più piacevoli, poiché in questo modo si trascinerebbe il discorso fuori dal seminato per contorcerlo all'interno di una forbice malata e sconsolata, espropriandolo dalla giusta luce di modernità che lo dovrebbe accompagnare.
Dico tutte queste cose perché ogni mostra getta delle nuove ipotesi, delle speranze, delle alternative (o così dovrebbe essere per giusto), e la mostra di Alice Rubbini ("L'altra metà del cielo", realizzata per il Rupertinum Museum di Salisburgo in collaborazione con Peter Weiermair) ha proprio offerto il pretesto alla pochezza di queste mie annotazioni, aprendo di questi spiragli, offrendo l'opportunità di osare nella direzione del rischio e dell'andare controcorrente.
Per capirci metto dei paletti: tra i tredici autori presenti nella mostra, quattro sono pittori a tutti gli effetti, nel senso che lavorano a una ricerca sì di natura concettuale (configurabile dalla superficie decorativa, dal titolo fuorviante, dalla materia incongrua, dall'inimitabile svolgimento tecnico), una ricerca che nel contempo rende plausibile e appetibile quella ricerca, ma dall'altra operano nello specifico della pittura e della grande tradizione pittorica, rispondendo secondo mezzi antichi a quesiti nel contempo antichi e moderni. I nomi di questi autori ve li faccio in quanto singolarità della ricerca contemporanea italiana (anche questi sono autori poco presenti sulla scena pubblica e privata che dir si voglia del mercato dell'arte): Maurizio Cannavacciuolo, Aldo Damioli, Claudio Massini, Cristiano Pintaldi. A questi, con coraggio e senza alcuna difficoltà, vengono affrontati i lavori di Matteo Basilè, Martino Coppes, Stefano Scheda, Alessandra Tesi, come a voler sostenere (e giustamente) che la "tecnologia" può benissimo fare da contraltare a declamazioni diverse senza per questo cadere in contraddizione, senza star lì a generare blocchi o a creare le condizioni di forzature impossibili. Questi autori convincono, quindi, non per la loro verità soggettiva, ma proprio per la distanza concettuale che pongono tra il loro fare e la tecnica più impegnativa, prassi che ritengo più apprezzabile di una piena immersione nella concettualità strutturale della stessa. L'operazione, nello svellere schemi già acquisiti e rapporti manieristici fin troppo consolidati, mi pare quindi lodevole negli intenti oltre che nei risultati conseguiti.

Veniamo, ora, alla sequenza espositiva che, ripetiamolo, gioca la carta dell'integrabilità ragionevole assieme a quella della giustapposizione linguistica. il percorso si apre con le due sculture di OLIVIERO RAINALDI (una in bronzo, l'altra in gesso), quasi a voler sottolineare l'eroicità vissuta nella volontà di dare corpo plastico alla materia informe. In questa sorta di percorso rodiniano il silenzio domina il percorso della luce che plasma l'opera, quasi a voler assecondare il principio che la contemplazione debba essere la chiave che apre ogni serratura. A seguire i nomi di stelle e costellazioni ritagliati sulla trasparenza di una pelle bianca. Si tratta dell'opera di ANDREA FOGLI: a questa fa da contraltare (fisico e cromatico) un'entità terrestre innalzata fin sulla volta e unita per i piedi, come a voler indicare che dalla forza delle passioni non è dato fuggire, qualsiasi sia la geografia nella quale ci si vuole collocare. Questa interferenza di segni si fa ambiente e percorso iniziatico allo stesso tempo.
Al primo piano troviamo un mixed media di BETTY BEE: un pannello di plexiglas inciso con processo fotografico, un video ad angolo e due piccoli "Luppeppi" su tela. Qui l'appunto quotidiano e il racconto privato si confondono nella dimostrazione che i segni della vita possono essere decantati (e declamati) anche ad alta voce. Queste immagini sfumano nelle tempere su legno di GIUSEPPE SALVATORI. Si tratta di una sorta di traslazione di frammenti "altri" secondo lo schema della siluetta (dell'ombra, dell'appiattimento, del contorno, della superficie, del binomio figura-sfondo, della riduzione monocromatica, della tessitura ripetuta...). In questo modo il processo di volontà cede il passo a una prassi di pura rappresentazione. In giustapposizione troviamo le foto montate su alluminio di STEFANO SCHEDA. Qui il corpo (nudo) si manifesta in tutta la sua pregnanza fisica e compostezza formale, eppure non si tratta di ritratti dove il concetto della bellezza deve regnare sovrano (o almeno non è solo così), bensì di situazioni dove il ribaltamento della gravità (per mezzo di una semplice rotazione del punto di vista) istituisce un brivido di spaesamento e di scompenso percettivo. Le foto di Scheda sfumano nell'installazione a parete (realizzata con oggetti bendati e piccole foto incorniciate) di MAURIZIO PELLEGRIN: segni di una memoria personale che si sovrappone a quella collettiva. Una memoria non ancora fattasi storia e che, quindi, si sofferma sulle tracce di una ipotetica neo-umanità. Non ci troviamo in presenza di risposte, quanto di interrogativi, di punti di vista molteplici: al mondo arcaico non è dato di placare i nostri dubbi, può solo accentuarli. Più oltre le stampe plotter di MATTEO BASILÈ ci conducono all'interno del potere fascinatorio dell'immagine: come sono fatte queste immagini? Da dove vengono fuori? Hanno un cuore elettronico o umano? Non sembri una bestemmia, eppure, nel montaggio di rielaborazione ricordo il processo di cancellazione proprio di John Baldessari. Ciò a dimostrazione che la tecnica più avanzata, spesso, non è altro che una traslazione progressiva da mondi già conosciuti e praticati. Il piano si conclude con la videoinstallazione "Opale 00" di ALESSANDRA TESI che a suo modo a questa tecnologia rivisitata da un suo personalissimo contributo. In questo caso l'ipersaturazione cromatica, l'uso spropositato del dettaglio, la proiezione del nastro su una parete di microbiglie di vetro, sposta radicalmente il processo percettivo dal piano documentativo a quello della pura fantasia irrealistica. Alcuni di questi frame sono di così difficile lettura da sembrare (secondo un'accezione antica) del tutto astratti, non concreti, inconoscibili.
Al secondo piano le c-print incorniciate di MARTINO COPPES ci conducono all'interno di un percorso inverso: se per la Tesi il viaggio è dal termine noto al punto infinito dell'ignoto, qui il tragitto è dall'informe (l'ignoto della materia bruta) verso un riconoscibile che viene indicato e suggerito (nella fattispecie in una sequenza di corolle floreali). Così, in Coppes, l'immagine si fa oggetto ma anche finestra, perché nel vuoto dello spazio neutro che contiene l'immagine, si smaterializza, fluttua, dato che da uno spazio (quello dell'oggetto rappresentato) si entra dentro un altro spazio, come in un doppio sogno magrittiano, come in un racconto intrecciato.
A contraltare la "Processione" (olio su tela di quasi otto metri di base) di MAURIZIO CANNAVACCIUOLO dove l'incastro narrativo delle Mille e una notte sembra avere il sopravvento sulla linearità espressiva: la citazione rielaborata conduce non solo a una proliferazione segnica (che ci permette di parlare di horror pleni), ma anche a un assunto decorativo che tutto avvolge e che tutto magnifica. Così il tessuto di Morris può convivere con l'architettura della Sainte-Chapelle e lo studio entomologico con quello del dettaglio anatomico. Un segno sottile (al positivo o al negativo) pone in correlazione tutte queste fantasie (eminentemente erotiche, of course, anche se camuffate con le spezie della mitografia orientale). Nella seconda sala troviamo i pigmenti misti di CLAUDIO MASSINI. Si tratta di una sorta di simil-encausto che riporta in vita i concetti di lusso-calma-voluttà all'interno del parametro unico di una bellezza pacata e immobile. In questo modo il concetto "convulsivo" caro a Breton viene finalmente negato, riportando così la forbice dell'avanguardia all'interno del soggetto classico del fiore e del paesaggio. Ma stiamo attenti e seguiamo le parole dell'autore: "È evidente che nei miei quadri i soggetti sono pretestuosi: il giglio o il paesaggio non sono questa o quella cosa, non sono metafore di un indistinto ideologico, sono semplicemente ottanta strati di pigmento; tra questi sta il pensiero e la tela che li sostiene". A seguire i pixel pittorici di CRISTIANO PINTALDI riportano in primo piano il processo scompositivo di Seraut. In questo modo la superficie pittorica, al pari d'un'immagine televisiva, si dà come persistenza di una memoria collettiva oltre che tecnologica. Pintaldi non inventa le immagini, più semplicemente le "trova" e le rielabora con la prassi certosina dell'amanuense. Infine ALDO DAMIOLI; anche quest'autore, con molta pazienza e meticolosità, con una pittura dedicata alla presenza-assenza dell'immagine nominata, flette l'acrilico alle esigenze concettuali dell'arte. Così, in un riverbero d'acqua, accanto alla raffigurazione di un grattacielo newyorckese, proiettiamo con il sostegno dell'immaginazione personale gli archi fioriti del Palazzo Ducale: "Venezia New York", per l'appunto.
Bene, grazie a queste scelte, grazie a questo montaggio a scacchiera il mondo può ancora sperare nella sopravvivenza di alcune biodiversità checché possano tentare di imporci con i vari WTO dell'arte o con i supersistemi interpretativi alla Hawking o GTU cosmici, dato che il compito dell'artista "non è più quello di creare a tutti i costi qualcosa di nuovo, di mai visto, bensì quello di rendere unica e difendibile la propria idea, anche se questa trae vita da spunti facilmente riconoscibili" (A.Rubbini).
L'arte, più della giungla, ama le diversità, le dissomiglianze, le devianze, le separazioni, i distacchi, gli addii... e in questo senso, la mostra in questione, ci offre un insieme davvero plausibile.
Roberto Vidali
Febbraio 2000

"L'altra metà del cielo", a cura di Alice Rubbini e Peter Weiermair, dal 12 febbraio al 2 aprile al Rupertinum di Salzburg, proseguirà (dal 13 maggio alla fine di giugno) alla Kunstsammlungen Chemnitz. Gli artisti invitati sono: Matteo Basilè, Betty Bee, Maurizio Cannavacciuolo, Martino Coppes, Aldo Damioli, Andrea Fogli, Claudio Massini, Maurizio Pellegrin, Cristiano Pintaldi, Oliviero Rainaldi, Giuseppe Salvatori, Stefano Scheda, Alessandra Tesi.