Antico Municipio
San Donato Val di Comino (FR)
via Orologio, 16
0776 508701
WEB
4 artisti e una citta'
dal 30/7/2005 al 28/8/2005
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Segnalato da

Anna Cautilli




 
calendario eventi  :: 




30/7/2005

4 artisti e una citta'

Antico Municipio, San Donato Val di Comino (FR)

40° 51’ Nord 014° 17’ Est. Antonio De Filippi, Rezzuti, Eugenio Giliberti e Quintino Scolavano


comunicato stampa

40° 51’ Nord 014° 17’ Est. Antonio De Filippi, Rezzuti, Eugenio Giliberti e Quintino Scolavano

Con “40° 51’ Nord 014° 17’ Est”, la grande arte contemporanea arriva in provincia di Frosinone. La mostra, organizzata dalla signora Anna Cautilli, sarà inaugurata domenica 31 luglio 2005 alle ore 18 nei locali dell’Antico Municipio a San Donato Val di Comino (FR).

Gli artisti - che il vento ideale e simbolico, reale, spirituale e virtuale coincide con le visioni progettuali e contemporaneamente interne ed esterne, esteriori ed interiori - generano situazioni dinamiche e imprevedibili, nel mondo dell’immaginario, perché le spinte della fantasia e le forme delle cose producono “fughe e spazi aperti”. Più liberi, e via via “ultrapolitecnici”, gli artisti – come direbbe Merlean Ponty – vanno ad affermare le loro “coappartenenze a un medesimo” essere sensibile “grezzo” nella cui dimensione “carnale” soggetto e oggetto non sono ancora costituiti o la percezione si compie nell’indistinzione di percepire ed essere percepiti, nell’indifferenza di attività e passività, nella reversibilità fra “vedere” ed essere visti che si trova testimoniata in modo esemplare dalla pittura e attestata da molti pittori che hanno avvertito restituito dalle cose lo sguardo ad esse rivolto.

Antonio De Filippi che trova e svela i frammenti, i resti e gli altri strumenti del suo lavoro, trasformando lo spazio circostante in palestra, officina e in luogo dove le “apparenze” divengono sculture e dove le parti, colorate degli oggetti si dispongono variamente nella pittura, colore del cielo. Esse eseguono movimenti aerei, imprevedibili, ma comunque visibili e coniugabili nei modi e nelle figure, disegnate come volumi di geometria solida. Nella prima fase le opere di Antonio De Filippis sembrano simili alle “macchine celibi”, presentate nella rassegna della Biennale di Venezia, curata nel 1975, da Harald Szeemann – per i caratteri dell’editore Alfieri. Nella fase successiva compaiono oggetti simbolici.

Gli animali di Rezzuti, inizialmente messaggeri di giochi infantili, giullari e “picari”, protagonisti di avventure di viaggi concettualmente infiniti e senza tempo, sembrano alieni che corrono a velocità supersonica e ritornano sul palcoscenico degli uomini, frenando con tanto impeto e stridio sugli sproni dei talloni, da evitare di cadere a rotta di collo e di salutare gli amici “tellurici” con grande solidarietà. Tuttavia, queste creaturine del mondo animale sentono di non poter più sottrarsi alla responsabilità di essere più a lungo “figure” di un “Bestiario” o trattazione ricavata dal mondo medioevale.

Eugenio Giliberti scopre il grande e straordinario impegno alla costruzione in un arco di tempo inusuale e nella forma di un’architettura e di uno stile facilmente accoglibili e consensualmente accettati. A prescindere da dubbi e incertezze, pressappoco comuni a tutti i cittadini del tempo, e senza alcuna forma di attualità e di rispettato tacitando il rapporto tra gente dello stesso quartiere e gli altri di un settore urbano diverso, rende più facile la comunicazione tra abitanti e cittadini suggerita dalle strutture compatibili con il territorio e con le reali possibilità di accesso e permanenza.

Nelle opere di Quintino Scolavano, artista sia naturalmente dotato di elementi plastici e di forme scultoree autenticamente preziose, si avverte l’essenza della musicalità, implicita in ogni partitura immediatamente comunicabile con altri modi di sembrare e di essere. Inoltre nella ridistribuzione delle parti si pone la richiesta di silenziose arature di colori che segnalano pause e continuità di immagini riflesse dalle acque ai raggi solari, abbondantemente manipolabili e quindi capaci di assorbire fattori campestri e influssi di congiunture astrali e poetiche.

RELAZIONE CRITICA

La nostra penisola è davvero “il bel paese” da tutti invidiato per la sua forma distesa lungo il crinale degli Appennini e rasente la battigia del mare, a guisa del modello assoluto della bellezza sia che esso si identifichi con la Venere celeste, sia che rammemori la Venere di Milo col suo vibrante charme espansivo e il suo sensuale profumo di primavera, di giovinezza e d’amore.
Così che ogni città, Capoluogo o Centro, più o meno periferico, ogni borgo o quartiere, si sente, vive e abita come vero cittadino del “mondo”, senza prescindere dai rapporti parentali, amicali, politici, economici, religiosi, strettamente legati al “lavoro”, stanziale o stagionale, garantito o “a tempo” e, quindi effimero, e perciò stesso evocatore di “nostalgia” che non si riferisce più a un sentimento vagamente romantico e malinconico, ma ad una azione, reale e concreta, visitata, per rispondere alle richieste di prodotti preziosi, di oggetti del lusso, dello spreco e del potere economico, sociale o culturale. Allora avviene che ogni creatura respinga qualsiasi tentativo di accerchiamento di riduzione e di intolleranza nei confronti del “prossimo”, della religiosità e dello Stato, assecondando i principi del “dovere” e l’etica dei “diritti” e della Democrazia tra i popoli, tra i singoli cittadini e le istituzioni conservino intatta la propria identità, sia pure concettuale e contemporaneamente attiva per le azioni, svolte in tempo reale e progettuale. Questa qualità, questa virtuosa attitudine al lavoro e alla “creazione”, sprigiona forze ed energie indispensabili alla vita tellurica dell’uomo, alla consistenza e compatibilità degli elementi naturali presenti nel territorio e quindi consumabili e pertanto inalienabili; per essa, si muovono nello spazio intergalattico le particelle anonime e infinite dell’ ”essere”, che viaggiano a velocità supersonica, con l’appoggio di una “mappa”, che, essendo ancora ignota non ne immagini una possibile e applicabile a “Territori”da conoscere e terre da conquistare o colonizzare. Il dato innegabile riguarda la congiunzione fra l’immaginario e la fisicità della geografia: sono i due termini che disegnano il ponte di unione tra le parti estreme dell’indiscutibile rinnovamento, per il quale la geografia unisce alla disponibilità e alla operosità pratica il vanto e il vantaggio di una “luce” e gli archi come segnali di uno spazio “inattuale”.

Infatti, per indurre un esempio probante, si ricordi l’effetto prodotto da un forte vento su una superficie tellurica abbastanza estesa e fortemente caratterizzata da eventi e fenomeni reali, oltre che da smottamenti impensabili. A questo “punto”, e su questa piattaforma giungono gli artisti che il vento ideale e simbolico, reale, spirituale e virtuale coincide con le visioni progettuali e contemporaneamente interne ed esterne, esteriori ed interiori, generano situazioni dinamiche e imprevedibili, nel mondo dell’immaginario, perché le spinte della fantasia e le forme delle cose producono “fughe e spazi aperti”. E’ qui che il “linguaggio e l’immaginario continuamente offrono motivi di incontro e di creazione equivalenti ai segni e alle tracce di forze fisiche e concettuali”.

Più liberi, e via via “ultrapolitecnici”, gli artisti – come direbbe Merleau Ponty – vanno ad affermare la loro “coappartenenza a un medesimo” essere sensibile “grezzo” nella cui dimensione “carnale” soggetto e oggetto non sono ancora costituiti o la percezione si compie nell’indistinzione di percepire ed essere percepiti, nell’indifferenza di attività e passività, nella reversibilità fra “vedere” ed essere visti che si trova testimoniata in modo esemplare dalla pittura e attestata da molti pittori che hanno avvertito restituito dalle cose lo sguardo ad esse rivolto. Proprio tale “carne del sensibile” rende partecipabile e comunicabile ogni nostra esperienza, prolungandosi altresì in carne della storia e del linguaggio. (Il visibile e l’invisibile).

Qui arriva, premuroso e zelante, Antonio De Filippis che trova e svela i frammenti, i resti e gli altri strumenti del suo lavoro, trasformando lo spazio circostante in palestra, officina e in luogo dove le “apparenze” divengano sculture e dove le parti, colorate degli oggetti si dispongono variamente nella pittura, colore del cielo. Esse eseguono movimenti aerei, imprevedibili, ma comunque visibili e coniugabili nei modi e nelle figure, disegnate come volumi di geometria solida.
Nascono come stelle danzanti ed escono dal caos generatore di fenomeni e di vite come previsto dall’oracolare “Nietzsche”.

Nella prima fase le opere di Antonio De Filippis sembrano simili alle “macchine celibi”, presentate nella rassegna della Biennale di Venezia, curata nel 1975, da Harald Szeemann – per i caratteri dell’editore Alfieri. Nella fase successiva compaiono oggetti simbolici, come Braccio con valigia del 1987, oppure Ragno del 1993, Bronzo del 1994, Machine n° 3 del 1996, dove compaiono materiali nuovi che hanno funzioni più specifiche e rapporti differenti con lo spazio e con le strutture ambientali come avviene nelle Machine n° 8-9-10 “in legno” e soprattutto nelle piante in materie simili alle forme fondamentali di un bosco di natura floreale.
Intanto, mentre De Filippis chiede un’altra testimonianza di attenzione più premurosa di quella che si potrebbe chiamare “Gaia Scienza”, agli amici di cordata un’altra testimonianza di solidarietà, fanno irruzione, nello spazio accanto, gli “animali” di Carmine Rezzuti.
A primo acchito sembrano una squadra fatta di spiriti bizzarri, guastatori e burloni, minacciosi, ma non aggressivi, preferiscono la zampata, della tigre, falsamente irritata, provoca e diffonde l’eco profonda del ruggito del leone.

Diamine è il segnale di allarme! Tutti gli animali fuggono per evitare il pericolo ignoto della confusione, anzi del “caos” e, ancora una volta, il “filosofo” tedesco afferma il valore positivo del “nulla” a seguito del quale, solo può spuntare una stellina danzante.
Tuttavia, queste creaturine del mondo animale sentono di non poter più sottrarsi alla responsabilità di essere più a lungo “figure” di un “Bestiario” o trattazione ricavata dal mondo medioevale descritto favolosamente e in modo spirituale per significare, secondo motivi e ritmi musicali, la forza espressiva e l’energia spirituale profusa a piene mani in questi esercizi morali e nei censimenti delle cose di natura. Ma non si può parlare di casi legati all’imitazione o ad altre regole di liste imperative categoricamente affini alla spiritualità e alla geografia umana, nonché alle integrazioni dei regni che costituiscono le risorse indispensabili alle generazioni degli esseri viventi e intelligenti.

Perciò gli animali di Rezzuti, inizialmente messaggeri di giochi infantili, giullari e “picari”, protagonisti di avventure di viaggi concettualmente infiniti e senza tempo, da alieni, quali in realtà veramente sono, corrono a velocità supersonica e ritornano sul palcoscenico degli uomini, frenando con tanto impeto e stridio sugli sproni dei talloni, da evitare di cadere a rotta di collo e di salutare gli amici “tellurici” con grande solidarietà.
Ogni volta che si presenta un caso difficile ed enigmatico, allora si determina un’attenzione, sospesa tra una condizione drammatica e ironica, che finisce per diventare argomento di stupore e di meraviglia. Molto frequentemente ritornano alla ribalta le storie dei cosiddetti autori “lunatici e asociali”. Tutto ciò accade perché si propone, attraverso il complesso mondo letterario e filosofico, la questione dell’anormalità e della libertà di scrittura. Perciò, quando l’esteriorità è come l’interiorità capovolta, dicono alcuni scrittori–tra cui Blanchot–rifiutando, la definizione di Napoli città “porosa” e accolgono, invece, l’immagine di metropoli complessa e “difficile”, per cui ogni fenomeno urbano finisce per diventare episodio territoriale e contemporaneamente verificabile ai livelli di latitudine e di longitudine mediterranee e, quindi, in gara c’è il capoluogo della Campania, una volta capitale regale, più opportunamente va ricordata la vicenda di un grande personaggio della cultura e della poesia, che occupò gran parte delle cronache e della storia di Napoli, strettamente legata alla fama di Giacomo Leopardi, di uno stretto gruppo di persone, dal comportamento non sempre prevedibile e lineare.
La prima scena e le prime azioni della “favola” indicano che i protagonisti non vogliono essere considerati degli accattoni o dei poveri barboni, bensì si muovono avidi e affranti, e, secondo le passioni generano sentimenti casalinghi e quotidiani, in contrasto con visioni delicate e amorevoli, coltivate a lungo e quasi di slancio, prima sensuale e poi affettivo: Intanto scende l’ombra della notte sulla creatura umana che, non riesce più a cogliere l’empito vitale, indispensabile al respiro e al soffio, segni dell’umana presenza, che è anche concorso e partecipazione al programma di miglioramento culturale e alle attività declinanti il benessere e l’avanzata del progresso sul piano del linguaggio.

Intorno a questi elementi comunemente praticati e vissuti c’è sempre un vigile e attento personaggio che regola l’appannaggio fondamentale di una piccola riserva economica. La permanenza di un tal gruppo di attori protagonisti, accresce la domanda di un bene effimero di una indispensabile capacità di consumo, strettamente metabolico e apertamente abile nel decretare la sussistenza e la consistenza alimentare e nutritiva.
Nel palazzo del Gas, dove lavora, al di là del “bene e del male”, pochi hanno letto e notato le lapidi del Palazzo Pignatelli di Calata Trinità Maggiore se non si fosse definitivamente collocato, tra l’area della creazione e lo spazio dell’immaginario, il fattore di incontro e di scontro tra le parti e tra i contendenti intorno alla porzione più larga e importante della scena, avvertono come fatto pericoloso, la carenza di un plafond educativo-culturale, che riveli la coscienza dei beni artistico-musicale, che rimanda ad un programma in cui l’arte sia uguale al Capitale economico (Kunst=Kapital, come diceva Beuys in Gemania).
Questo discorso rinvia ad un elemento importante della nuova iconografia delle lettere e delle espressioni iconiche. L’ ha già detto Eugenio Giliberti quando ha affermato che l’occhio guarda superficialmente le cose e non riesce a cogliere il senso giusto della verità né la globalità delle cose sperimentate che conducano “verso l’arte”.

In questo tragitto si compie, con maggiore duttilità e frequenza, il miracolo della coesione tra cittadini di vario tipo e di differente stato sociale che si trova affratellato e solidale con tutti quelli che aspirano alla bellezza e al benessere come nel clima e nell’atmosfera più conforme alla natura dei luoghi e alla consapevolezza che il malumore molte volte risulta legato alle condizioni ambientali e culturali, ignote e noiose per lo sconosciuto, per l’estraneo e per il turista, che chiede il privilegio di calpestare quotidianamente questo selciato e frequentare questi luoghi di cui desideri essere informato.
“In vico Pero”, quartiere Stella, dieci metri da via Santa Teresa,

Testo del contratto di affitto della casa di vico Pero, 2
Colla presente scrittura a doppio originale ai termini
dell’art. 1279 delle leggi civili si conviene quanto segue
fra il signor D. Michele Giura, figlio di Donato, qual procuratore
del sig. or D. Prospero Iasillo, con mandato di giorno
3 maggio 18trentacincque registrato li cinque detto n°
1537 nel quarto ufficio lib. 1° volume 316, fo 165, casel:
1° grana venti Banchieri, domiciliato Vico del Pero n° 2,
ed il signor D. Antonio Ranieri, domiciliato Strada Santa
Ognibene n° 26.

Giacomo Leopardi e i suoi amici napoletani, Antonio e Paolina Ranieri e ancora il cuoco patriota Pasquale Ignara si trasferirono tra il 4 e 9 di maggio 1835: Secondo le testimonianze ritrovate, fu questa l’ultima residenza napoletana del poeta che morì per “idropisia” il 14 giugno 1837, non a villa Ferrigni, ma in città mentre infuriava la terribile epidemia di colera.
E’ questo il privilegio casuale che ha spinto l’artista a scoprire il grande e straordinario impegno alla costruzione in un arco di tempo inusuale e nella forma di un’architettura e di uno stile facilmente accoglibili e consensualmente accettati. A prescindere da dubbi e incertezze, pressappoco comuni a tutti i cittadini del tempo, e senza alcuna forma di attualità e di rispettato tacitando il rapporto tra gente dello stesso quartiere e gli altri di un settore urbano diverso, rende più facile la comunicazione tra abitanti e cittadini, tra gruppi di precari e provvisori col primo effetto di espulsione, volontaria o coatta e tuttavia suggerita dalle strutture compatibili con il territorio e con le reali possibilità di accesso e permanenza.
Quintino Scolavino Nicastro avanza con passo felpato per raggiungere le zone del lavoro e della produzione disincantata, Paesaggi ameni, e portatrice di belle novità sostanziali (quasi vada incontro alle figure del linguaggio e al materiale duttile, colorato, espansivo e ritrattile in base ai dettami di una coloritura che sembra in divenire e non già riprodotta; rivela, infatti, un legame autobiografico e fantastico)

Infatti Quintino Scolavino Nicastro compie dei veri e propri viaggi cromatici e inventa colorate incursioni pittoriche, spontaneamente elaborate, senza che il cielo e la terra siano chiamati al responsabile esercizio della coloritura dei piani come forme di giardini e come aiuole fiorite, oppure, secondo ricami virtuali, ma ugualmente lavorati per essere consegnati nelle mani di artigiani, felici di contendere alla natura un disegno ricco e attraente. Forme iconiche, aniconiche, astratte, dedicate alla sopravvivenza e alla sovranità materiale, nonostante i materiali effimeri e ricostruibili a terra, materialmente sensuali e modulati spontaneamente legati a forme involontarie.

Ritorna, così, ad imporsi il motivo della festa come rete di affetti e di sentimenti rinsaldati dalla qualità dei materiali che, già in sé e per sé vibra di emozioni e risuona del sound della musicalità compositiva, nonché armonica. E, benché l’artista sia naturalmente dotato di elementi plastici, e di forme scultoree autenticamente preziose, si avverte l’essenza della musicalità, implicita in ogni partitura immediatamente comunicabile con altri modi di sembrare e di essere.
Inoltre nella ridistribuzione delle parti si pone la richiesta di silenziose arature di colori che segnalano pause e continuità di immagini riflesse dalle acque ai raggi solari, abbondantemente manipolabili e quindi capaci di assorbire fattori campestri e influssi di congiunture astrali e poetiche.

Anche le pietre, i lapislazzuli si concentrano in corone e in apparizioni improvvise, che tuttavia rivelano il ritmico andamento dei movimenti tellurici, sostenuti dall’invitante ondeggiamento del suolo, fantastica guida dei pascoli celesti.
Che tutto ciò sia essenzialmente vivo e rasserenante, lo dimostrano la cura della forma e la proprietà del linguaggio: assicurano al discorso sull’arte un tempo ancora lungo e ricco di esperienze reali e spirituali, di immagini solari e mediterranee.
Arcangelo Izzo

La mostra è organizzata in collaborazione con il Comune e la Pro Loco di San Donato Val di Comino (FR), la Regione Lazio, la Provincia di Frosinone e il Gal versante Laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise.

Municipio
Via Orologio 16 – San Donato Val di Comino (FR)
Apertura al pubblico: 31 luglio-28 agosto 2005
dalle ore 11,00 alle 13,00 e dalle 18,30 alle 20,00

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