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Incontro 10 10 2011 | Palestra Rocco e i suoi fratelli | Arci Bellezza | Milano

































Lunedì 10 ottobre i Lavoratori dell'arte di Milano si sono incontrati in una assemblea dal titolo 'Daidaidai, occupiamoci di ciò che è nostro'.
Qui di seguito la trascrizione in sintesi dei primi interventi.

Domenica 23 ottobre ore 20.30 all'Arci Bellezza di Milano, faremo il prossimo incontro. Tutti coloro che sono interessati sono invitati a participare attivamente.


Report incontro 10 ottobre 2011:

Maddalena
Lavoratori dell'arte è un gruppo misto di operatori delle arti visive e non solo.
Quindi critici, artisti, curatori, storici, giornalisti e attivisti.
Dico non solo, sia perché ognuno di noi ha in attivo almeno altre due professioni che non cadono esattamente nella definizione che ci diamo, sia perché fin da subito abbiamo sentito la necessità di ampliare questo discorso all'ambito della cultura e della conoscenza in generale, rilevando, che le istanze specifiche al nostro ambito non sono dissimili a quelle che provengono dall'ambito dei lavoratori della conoscenza, nel più ampio senso che questo termine assume oggi.
Questa quindi non vuole essere la lotta di una categoria specifica di sfruttati.
Questo primo gruppo di persone si è riconosciuto, perché tutti, singolarmente o meno, caratterizziamo il nostro lavoro nel campo dell'arte, con pratiche che si situano spesso 'fuori contesto', se per contesto dell'arte e della cultura, ci limitiamo ad intendere le istituzioni e i linguaggi dominanti.
Come gruppo, abbiamo dedicato molto tempo (più di un anno) nell'individuazione e la stesura di punti teorici che ci trovassero tutti d'accordo.
Non siamo più dei lavoratori atipici e, anche se i lavoratori dell'arte fanno fatica ad identificarsi con i lavoratori della conoscenza o i lavoratori in generale, dovrebbero rendersi conto insieme a loro, che questo discorso l'hanno capito già da tempo, che non c'è più nulla di atipico nelle forme non contrattuali dei lavori dell'arte. Anzi sono proprio questi lavori ad aver suggerito l'attuazione di nuove forme di sfruttamento nel lavoro contemporaneo.
Il tema della precarietà, in termini contrattuali ed esistenziali, inteso come capire che il fatto stesso di essere degli esclusi è il vero business! Che non c'è un prima per un dopo che verrà.
Mi spiego, tutti condanniamo le nostre vite a rincorrere, per sopravvivere ovviamente, quelli che sono i sottoprodotti di quello che sappiamo fare o di quello che abbiamo studiato, spesso con grandi investimenti economici e di tempi di vita. Sottoprodotti che compongono la vera ricchezza dell'industria culturale di cui noi, i produttori, non percepiamo quasi niente e di cui, tra l'altro, condividiamo poco.
Minimo spazio alla ricerca, assoluto assoggettamento al prodotto, quindi un'arte sempre più mercificata e in mano a pochi fruitori: queste sono le parole che caratterizzano le forme di produzione culturale contemporanea, di cui noi stessi siamo artefici, in modo più o meno forzato e più o meno cosciente. Un esempio fra gli altri è la sinonimìa tra il titolo dell'ultima Biennale di Venezia, Illuminazioni, e il nome di uno dei suoi sponsor, Enel. Tutto ciò non ci piace, non ci piace perché si fonda su un principio di disuguaglianza e non ci piace perché non garantisce e tutela la libertà di espressione: in poche parole non crea né ridistribuzione in termini economici né in termini di conoscenza, scambio e cultura, questo per noi si chiama oligarchia, anzi sistema oligarchico.
A capo di tutto questo ci siamo chiesti: che fare? E perché la giornata di oggi?
Perché crediamo necessario che questa domanda si trasformi in un fare, senza più che e punto di domanda, in modo collettivo e cooperante.
Partiamo da alcuni punti:
E'necessaria una narrazione di quello che è il presente della nostra condizione, in altri termini, fare auto coscienza per conoscere lo stato delle cose, sia in termini personali che collettivi.
E' più che legittimo - e su questo termine come su quello di legalità ci torneremo più avanti - è più che legittimo fare delle azioni di ri-appropiazione di spazio pubblico, a Roma, a Milano, come in tutta Italia. Questa pratica come miglior modo di produrre, gestire e controllare la cultura: quindi rifiutare l'attuale gestione della produzione culturale, creando nuovi modelli di autogestione di spazi abbandonati dalla cultura. Cominciare ad attuare, all'interno di questi, la ridistribuzione dei mezzi di produzione, delle economie e della conoscenza. Nel momento che queste pratiche si diffondono e funzionano aldilà delle logiche di mercato, si può arrivare veramente sul piano nazionale a chiedere, accanto agli altri lavoratori, un nuovo sistema di welfare e un reddito di esistenza.
La forza politica di queste azioni non è quella di chiedere sconti o agevolazioni di categoria, bensì quella di mettere in discussione, nella pratica, i modelli di produzione culturali, mettendone in crisi fino in fondo la modalità non solo di sfruttamento ma, e soprattutto, la modalità non partecipativa, non cooperante, che è specchio di una società che non si fonda sull'uguaglianza dei diritti e delle intelligenze.
Quindi avere il coraggio di mettere un punto a questi 10 anni di vuoto partecipativo e di individualismo ideologico, che troppo spesso hanno visto, soprattutto nel mondo dell'arte, l'estetica della rivoluzione sopprimere con astuzia ed efficacia il gesto rivoluzionario.
La cultura, la conoscenza, l'arte come bene comune nasce da qui: dalla sua possibilità, dalla sua necessità collettiva, dalla sua tutela, dal desiderio di liberarla dal concetto di indotta sopravvivenza. Da schiavi cinici a liberi interpreti costituenti.

Emanuele
Questo affresco riassume i punti fondamentali su cui noi Lavoratori dell'arte vorremmo ruotasse questa assemblea:
In primo luogo capire chi siamo. Se i nostri interessi individuali possono essere motivo di unione e di azione collettiva.
In secondo luogo capire cos'è l'arte come bene comune. Può essere questa pratica e questo concetto politico il motivo che ci muove?
Ultimo punto, sottolineare che ci stiamo muovendo all'interno di una rete nazionale con cui stiamo dialogando.
Propongo di tenere presente questi punti per cercare di capire ora quali azioni possiamo fare a Milano nei prossimi giorni e mesi.

Neve
Sono un operatore culturale, sono passata da poco da una situazione di precarietà a una di stabilità, ma i temi di questa assemblea mi sono molto presenti. Credo che sia importante esserci definiti lavoratori della conoscenza. Sento anche io, a prescindere da tutte le differenze specifiche, la necessità su piano nazionale di ridefinire il ruolo della cultura e il modo in cui è gestita. Facciamo delle gran figuracce con l'estero, esempio eclatante il padiglione Italia di quest'anno. Forse è emblematico il titolo "L'arte non è cosa nostra", invece dovrebbe essere cosa nostra... Siamo preparati e specializzati, saremmo capaci e dovremmo cominciare a fare, dal basso senza aspettare che qualcuno ci rappresenti. Perché chi ci rappresenta non è competente, non ha contenuti, è stato nominato solo per interessi clientelari.

Roberto
E' difficile quando si finisce di studiare e si inizia a diventare professionisti. Nessuna istituzione è in grado di definire chi è professionista e chi no. La nostra figura si è diluita in tante figure simili… e questo fa sempre più il gioco di chi si tiene le poltrone. E' più importante saper stringere contatti con chi conta che saper fare qualcosa di specifico.

Maddalena
Noi non vogliamo fare i controllori di chi è o non è artista… superiamo questa logica di controllo, siamo uniti come operatori del contemporaneo. Tutti siamo costretti a fare mille lavori per sopravvivere. Partiamo dal dato che mentre noi siamo sfruttati e frammentati, c'è qualcuno che invece guadagna sulla cultura e su queste forme di frammentazione.

Francesca P.
La domanda che mi piace pormi è perché l'arte è un bene comune? Quando lo è? Se continuiamo a rincorrere il collezionista vince sempre chi vende di più, quello è il migliore. Se tutta la cultura, dall'arte visiva al romanzo, al cinema, è ridotta ad essere un prodotto ci sono delle conseguenze… Questo vale per tutte le specialità. Noi non dobbiamo aspettare un genio, c'è una crisi che ha messo in ginocchio la riflessione culturale e il ruolo dell'intellettuale. Siamo lavoratori della conoscenza. Cè una storia del capitalismo dell'arte: nel modello capitalista l'arte è uno dei tasselli. Da un lato a tratti l'arte ha messo in discussione il capitalismo, dall'atro lo ha giustificato, lasciandosi schiacciare verso il basso: la cultura è lo strumento con cui si può creare prodotti di consumo e assicurarsi di consenso. Il Valle ci dice l'opposto, è un luogo per tutti e di più. Speriamo di trovare degli strumenti non per negare l'arte di qualità, ma per spiegare che la definizione di qualità è subordinata ad un meccanismo più ampio. Tutti possiamo essere artisti, con successi ed esiti diversi. Così come tutti possono capire come fare arte con gli strumenti della razionalità, del calcolo e della creazione.

Cecilia
Togliere il valore di merce al prodotto artistico! Sono una cartografa e per mantenermi faccio la saldatrice industriale. Questo perché non volevo andare al soldo di uno stampatore famoso e non essere pagata per imparare da qualcuno che si fa vanto del suo grande nome. Voglio permettere a ciò che faccio di non essere vincolato da qualcuno che lo compra. E' vero che dopo otto ore di saldatura non ho poi molto tempo... Come dice Landini, segretario della FIOM: perdendo i nostri dritti di lavoratori, oltre a non avere soldi stiamo perdendo le nostre vite, ci stanno prendendo le nostre vite. In nome della produzione, di questo concetto astratto ci stanno privando di tutto. La cosa più dura per me è che non ho tempo per fare qualcosa di mio, perché lavorare per il capitale significa essere prosciugati dalle forze, non avere più nulla.
Non gliela regalo la mia vita! Il precariato è lavorativo ma anche esistenziale. Non dobbiamo più produrre merce. Punto!

Anna
Se da una parte sento spesso dire che non c'è mai stata tanta libertà come oggi, (cosa che non penso affatto) dall'altra si sta capitalizzando il "desiderio di rivoluzione". Per questo penso che sia opportuno discutere sui modi con cui compiere delle azioni, sul come, di conseguenza su che cosa sia il bene comune.

Francesca G.
Sono curatrice, docente, e chi più ne ha più ne metta. Rientro in quella categoria che si chiama "operaio della conoscenza", come l'ha definita Sergio Bologna in Alfabeta nel numero di settembre dell'anno scorso. Il problema è il ricatto morale che ci viene in continuazione fatto: è una cosa bella, fai esperienza, lo fai gratis. Faccio la curatrice per hobby: ovvio è una provocazione! Ho delle competenze da spendere… Ma è un lavoro che non viene retribuito, quindi non è un lavoro. Giuridicamente non è un lavoro: è hobby, volontariato, qualcos'altro. Lavorare nella cultura in Italia è qualcosa di riservato a pochi, siamo in una democrazia dove l'accesso alla cultura dovrebbe essere per tutti, ma non è così.

Stefano
Ci sono categorie lavorative che forse andrebbero ampliate. Forse non bisogna cercare di entrare in quel sistema, ma cercare di trovare un sistema che ti permette di lavorare a seconda delle tue possibilità. Sono già trent'anni che parliamo di queste cose. Ma ora forse è interessante perché oggi si può pensare di partire da un altra situazione. Perché a questa generazione è stata tarpata proprio totalmente qualunque possibilità.

Giulia A.
Sono d'accordo con il fatto che non esiste un dopo a questa attesa. Ci danno da mangiare giusto per fare un po' di spettacolo, noi teniamo duro, ma non c'è un dopo. Allora perché non ripartire da Milano. Ci sono degli spazi inutilizzati, c'è un grande pubblico off… Molto numeroso: perché Milano non ha un posto per reclamare questi contenuti?

Antonella
Non sono un precario, timbro il cartellino alla Provincia di Milano, ufficio cultura. Ma sono qui come rappresentate dell'associazione 89/A. Un posto a Milano di questo tipo era la Casa degli artisti, che è stata sgomberata nel 2007, lì c'era la possibilità di lavorare insieme e fare dei progetti comuni, mescolando le discipline.

Emanuele
Il bisogno di spazio è connesso al bisogno di occuparci di ciò che è nostro e del concetto di cultura come bene comune. Credo che in questo momento abbia un valore politico reclamare l'arte come un lavoro, svincolandola dal concetto di merce e prodotto. Non dobbiamo rinunciare al fatto di essere dei produttori di cultura, di pubblica utilità e che lo facciamo a tempo pieno. Se noi questo lavoro lo sappiamo fare e lo facciamo con mille difficoltà, allora abbiamo la legittimità ad occuparci degli spazi vuoti come anche delle istituzioni. Dobbiamo dimostrare che li gestiamo meglio della casta e delle oligarchie verticistiche.

Francesca P.
Non mi piace la parola reclamare. Bisogna capire come lottare e allo stesso tempo come inventare. Le cose non succedono per bontà d'animo.

Anja
Volevo raccontare la realtà finlandese. Tutti stiamo stringendo i denti, la crisi è ovunque. Esiste là come qua come in tutto il mondo. In Finlandia c'è un sindacato degli artisti, non è come in Italia perché là gestiscono gli spazi stessi. Non ci sono gallerie, ma chi fa parte di un sindacato paga una quota per associarsi e poi farà una mostra pagata dall'associazione.
Però bisogna dimostrare non solo una formazione, ma anche una continuità e la coerenza della propria professione. Si fa una application, la giuria è sempre numerosa e tutto è trasparente. La cosa importante è che questo sistema è stato il frutto di lotte politiche che hanno portato a uno stipendio minimo garantito dallo stato per poter svolgere il proprio lavoro. Questo non esisteva negli anni '70 e '80, ma la protesta sindacale è stata così forte che è riuscita ad entrare in parlamento e a cambiare la struttura del welfare. Ora gli artisti sono pagati con le tasse di tutti, canalizzando i soldi in questo modo. Sicuramente la Finlandia è una realtà più piccola, e poi, siccome c'è molto freddo, se non si collabora si muore.

Valeria
Il capitalismo "frega" la cultura. Altrimenti non esisterebbe un'industria creativa, e quindi un assoggettamento del nostro lavoro. I soldi ci sono. Ce ne sono anche tanti. Per esempio per partecipare alla Biennale di Venezia, affittano palazzi per milioni di euro e poi il guarda sala ne prende 5 all'ora. La soluzione è stare dentro a questo sistema e cercare di sfruttarlo per le potenzialità che ha, cercare di rovesciarlo. I modi ci sono: bisogna parlare di welfare, di reddito garantito. Bisogna fare in modo che il valore del nostro lavoro sia riconosciuto. Il lavoro di un lavoratore della conoscenza è poco quantificabile secondo i metri tradizionali. Si lavora sempre, certe volte in modo più intenso, certe volte più negli interstizi… si chiama Post-fordismo, è stato studiato, ha forme ben conosciute. Si tratta di chiedere un riconoscimento e farci corrispondere un reddito garantito che ci permetta di produrre ed essere pagati per quello che facciamo.

Cecilia
Il condizionamento che il mio prodotto subisce nel suo prodursi è il problema. Se sento che il mio prodotto si corrompe o mi corrompe non accetto di farlo a queste condizioni.

Alessandra
Sono curatrice, ho lavorato in lungo e in largo e, dopo tanti anni, mi sembrava di essere ancora agli inizi: con due lire a dover investire su me stessa. Allora sono passata alla televisione, a tele+, quando era un modo di fare cultura ad alto livello… Poi è diventato Sky e non si fa più cultura… ora sono spot senza più approfondimenti. Certo all'interno dei 100 canali offerti dal pacchetto Sky c'è ancora spazio per le mie proposte, ma in una percentuale minima e sempre con difficoltà, come se fosse una concessione. Non non posso più fare gli stessi prodotti; dicono che non c'è mercato. Ma non è vero… perché a me è da dieci anni che mi chiedono ancora gli speciali che facevo dieci anni fa. Sto ancora facendo tante copie che se avessi i diritti e le vendessi ci farei una casa di produzione. Non facciamoci più fregare da questa storia che non c'è mercato. Qualcuno non vuole che ci sia mercato per le cose di qualità, è la volontà che non c'è. Chiunque ha siti web e fa cose ben fatte, subito ha un riscontro positivo.

Emanuele
L'industria creativa, nel post fordismo, è al centro del motore economico, quindi non siamo al margine; c'è un controllo che decide che cosa produrre e che cosa non produrre. Su questo non ci piove, il problema è che bisogna creare un motore di rappresentanza che inverta questa direzione di controllo.

Ferdinando
Andrebbero analizzate le singole situazioni e poi cercare di trovare una produzione comune. Siamo stati dominati dall'ideologia del mercato fondato sulla mitizzazione del personaggio, ora dobbiamo partire dal basso, da reti di persone intelligenti che riescono a vivere democraticamente. L'importante ora è fare.

Paola
L'accademia l'ho fatta negli anni settanta e me la sono pagata, poi ho fatto la mia ricerca, e me la sono pagata. Non siamo in Finlandia. Dobbiamo capire che siamo in una crisi di democrazia, in cui operaio e capolarato leghista sono dalla stessa parte; noi ci ritroviamo in questo luogo che è molto accogliente ma è marginale, mi stupirei che ci dessero domani la direzione della biennale, forse se vogliamo lavorare mettendo al centro questa coscienza critica dobbiamo rinunciare ad a essere pagati, perché noi stiamo lavorando a margine, abbiamo un altro lavoro che ci permette di lavorare a margine, l'esperienza degli anni ottanta ci ha insegnato questo: proteggere un lavoro indipendente significa trovare i soldi da un'altra parte. Così facendo abbiamo preservato la libertà del nostro lavoro, ma in uno stato di democrazia avariato. Noi siamo l'utopia dell'utopia, perché se chi produce il pane non è pagato, come possiamo chiedere di essere pagati noi che facciamo cultura?

Emanuele
Non vedo distinzione fra chi produce il pane e chi produce cultura davanti alla crisi, siamo tutti dalla stessa parte, e se questa battaglia non la vince l'uno, non la vince nemmeno l'altro.
Non a caso gli stati che stanno resistendo di più alla crisi sono quelli che hanno investito di più anche nella cultura e nella conoscenza, sviluppando modelli di welfare più progrediti e strutturati.

Paola
Dico soltanto che la cultura è particolarmente nella merda perché più di ogni altro settore, si regge sempre più solo su meccanismi mercificanti e capitalisti.

Antonella
Credo che la cultura possa essere una risorsa e fare da traino per tutti gli altri settori. Noi operatori culturali abbiamo la responsabilità di far capire anche a chi non è interessato quali possono essere i benefici della cultura per poter migliorare insieme.

Piero
Credo che sia il caso di parlare di modelli culturali. Siamo di fronte all'egemonia di un modello culturale fortemente orientato al mercato che si fonda sulla mitizzazione del personaggio. Bisognerebbe invece partire dal basso, e far vedere che c'è una rete diffusa di intelligenze che non sempre ha la possibilità di emergere, ma che sono la base del humus culturale, condizione per potere creare qualsiasi cosa. Non dobbiamo aspettare dal padrone la possibilità di essere liberi.

Francesca P.
La coscienza critica dei cittadini deve essere il fondamento della costruzione democratica.

Ferdinando
Il nostro indebolimento nasce dal frazionamento. Una volta gli studenti scendevano in piazza con gli operai, ora siamo tutti frazionati.

Giulia C.
Il punto è che manca un senso politico diffuso fra gli artisti. Discuto con altri studenti in accademia e università, e quello che noto è che il problema di Milano è l'estetica della rivoluzione, siamo imprigionati nel feticismo sterile di figure rivoluzionarie sessantottine… quello che manca è la passione e la fiducia in noi stessi. Io faccio l'artista perché voglio dire una cosa, smuovere le acque, fare arte deve essere un gesto politico. Questo può veramente cambiare le cose. Siamo in un momento in cui dobbiamo fare 5 lavori in contemporanea per vivere, la sfida è usare tutti questi fronti per dare un contributo al cambiamento politico.
Sono stata a vivere nel Valle Occupato e lì c'è proprio questo in atto, c'è il pepe al culo che qui a Milano non c'è.

Emanuele
Uscire dall'estetica della rivoluzione, innescare dei processi partecipati che costituiscono nuovi modi di gestire gli spazi culturali e presa di responsabilità individuale; perché possiamo fare analisi finché volgiamo ma se non usciamo da questa specie di prudenza non andiamo da nessuna parte.

Andrea
Ho letto un articolo su Internazionale pazzesco: la Grecia facilmente va in default controllato, a seguire ci sarà l'Italia. I lavoratori dell'arte finiranno per essere tutti guide turistiche di un enorme patrimonio culturale forse venduto a cinesi, russi o arabi. Noi saremo impiegati in questo grande nuovo organismo statale che darà la possibilità ai ricchi di vedere le nostre ricchezze. Noi non vediamo oggi nella cultura italiana la possibilità di costruire una visione. Non è il Teatro Valle che ci salverà, siamo l'ultima ruota del carro nel mondo e il peggio deve ancora arrivare. Si sono mossi i greci, gli spagnoli, i finlandesi, gli inglesi, gli americani, i cileni facendo un culo così al proprio stato; i cileni chiedendo solo due cose: la scuola pubblica e pari accessibilità al servizio pubblico… In Italia, ragazzi, oltre al Teatro Valle non c'è un cazzo… e come noi qui, sono pochi, in proporzione, quelli che si incontrano a parlare. La situazione è un disastro. Trent'anni di appiattimento totale hanno azzerato la capacità di pensiero. Nel 2040 3/5 della popolazione italiana saranno pensionati. Siamo in prospettiva una società vecchia. Io sono già vecchio, a 41 anni, e non ho fatto altro che impoverire il patrimonio lasciato dalla scorsa generazione. La cultura dovrebbe ricucire questo disastro? Dobbiamo inventare proprio delle nuove pratiche. Basta anni 60, 70….90! Io vengo da occupazioni anni 90… avevamo la possibilità di costruire un centro di produzione autogestita… e non siamo stati in grado, siamo collassati su noi stessi. Ne è uscito un topolino senza futuro.

Giulia C.
Il problema è che manca l'autogestione dell'individuo, non l'autogestione degli spazi. Tu rappresenti una sorta di sfiducia di te stesso. Finché non abbiamo fiducia in noi non possiamo occupare uno spazio. Se non riesco ad occupare me stessa non posso occupare uno spazio. Ci sono Paesi che hanno fatto rivoluzioni pazzesche fino in fondo. Ce l'hanno fatta perché si sono messi loro in prima linea… in Italia è vero… magari trenta Teatro Valle cambierebbero davvero le cose.

Andrea
Qui a Milano c'è stato un fenomeno di partecipazione genuina fresca spontanea durante la campagna elettorale per le comunali… dove è finita tutta quella adrenalina? Si dovrebbe stare in quello spirito di coinvolgimento, dimostrare il potere della nostra creatività.
Tanto non c'è niente da perdere. Noi siamo un collettivo che le ha provate tutte… biennali, gallerie… ma non funziona.

Mirko
Abbiamo capito che stiamo male, sfruttati, mal pagati, potremmo stare mesi a raccontarcela… ma cosa vogliamo veramente?
Quale è il nostro obiettivo? Come raggiungerlo? L'obbiettivo è avere uno sussidio? Rovesciare il trend dominante?

Emanuele
Il Teatro Valle unisce un'analisi dello stato dell'arte all'essere laboratorio di linguaggi, all'essere un processo costituente. Cosa significa essere costituente? Mostrare che il modo in cui stanno gestendo l'occupazione è un possibile modo di produrre cultura. Giuristi come Mattei e Rodotà stanno costruendo anche gli strumenti legali perché questa esperienza già in atto sia legittimata da un punto di vista legale e stanno anche chiedendo che non sia un problemino relegato a Roma… ma che sia in gioco la gestione culturale nazionale.

Francesca P.
Il Valle ha potuto fare quello che ha fatto perché è entrato in occupazione subito dopo il referendum. Il Valle è incredibilmente l'unico che sta dimostrando di credere nella vittoria dei referendum. L'unico che ha rielaborato quella vittoria, in un deserto dove tutti i partiti politici hanno taciuto sui risultati referendari. Nessuno ha il coraggio di dialogare con quella vittoria.
L'idea di questo bene comune esce da questo referendum. Che cos'è il bene comune? Perché questo concetto passa così poco proprio qui a Milano? Siamo capaci di ripartire da soli da Milano?

Barbara
Siamo adulti e vaccinati, i soldi ci sono, facciamo in modo di prenderci in mano il nostro destino. Proprio nel mondo dell'arte contemporanea, dove c'è un gerarchia verticistica, dobbiamo capire come disinnescare questi meccanismi.

Francesca P.
E' difficile, infatti nessuno degli intellettuali italiani ha detto di no a Sgarbi, facendosi così coinvolgere nella costruzione del padiglione Italia. Ma il fatto è che noi sapevamo tutto prima che inaugurasse e non abbiamo fatto niente. Per evitare di dare ulteriore visibilità all'operazione, ma anche per paura della macchina mediatica, dei modelli dominanti.


Emanuele
Propongo di fare un ultimo giro di interventi sul che fare? Concretamente. In base a tutto quello che ci si è detto. Occuparci di ciò che è nostro, occupare degli spazi, sia che siano istituzioni, edifici, riviste o la strada. Sfidare l'agenda dei grandi appuntamenti culturali dei prossimi mesi… ognuno di noi concretamente cosa farebbe?

Anja
Non credo nelle cose fast, io sono slow. E faccio laboratori sull'auto organizzazione di gruppo. So che non ci deve essere un capo che dice cosa fare, e questo vuol dire un lungo periodo di prova in cui testare il rispetto reciproco, il metodo è 'yes and', non "questa cosa non funziona", facciamo "questo e anche questo". Positivo non negativo. Credo nella consapevolezza di gruppo. Avere pazienza e rispetto nelle cose degli altri. Dobbiamo anche dormire sulle cose. Le idee vengono quando vogliono.

Camilla
Io non sono slow. Ricordo uno slogan del Valle "come è triste la prudenza" e ricordo che la prudenza è il nostro peggior nemico. Non sono d'accordo che il Valle sia l'unica esperienza, perché è in una rete con tante altre. Non sono nemmeno d'accordo che stiamo parlando solo di cultura, perché la lotta sta unendo anche gli studenti e gli operai. Non c'è più tempo. Perché non c'è solo il precariato culturale, ma c'è una crisi che coinvolge tutte le categorie lavorative. Dobbiamo chiedere un nuovo welfare, questa per me è l'unica luce in fondo al tunnel. Nessuno sa quale è la soluzione giusta. Noi dobbiamo fare dei tentativi e così trovare soluzioni inedite. Il teatro Marinoni per esempio, è nato dalla collaborazione tra Sale di Venezia e Valle di Roma, creando una occupazione di altro tipo… nessuno sa quale sia la ricetta giusta, basta tentare e aprire nuove strade.

La discussione va avanti per tutta la serata...
Molti propongono azioni, modalità... Parliamo di Milano e dei suoi spazi, sia di quelli troppo vuoti che di quelli troppo pieni.

Domenica 23 Ottobre ore 20.30, all'ARCI BELLEZZA, via Bellezza 16A, abbiamo indetto un'altra assemblea per continuare insieme questo confronto e questa azione comune.