Intervista a Matteo Balduzzi e Stefano Laffi

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Indice :

1 Storie e immagini dal territorio di Rosignano Marittimo

2 Il progetto raccontato per immagini

3 Intervista a Matteo Balduzzi e Stefano Laffi

4 La mostra

5 Il libro

6 Progetto sulle pagine del Il Tirreno

7 Foresta Bianca su Rai Radio3


Cosa c’è all’origine del progetto?

Stefano: Foresta Bianca è un esperimento di autobiografia comunitaria, di racconto in prima persona di un territorio. Io lavoro a Codici, un gruppo di ricerca sociale di Milano, in cui da tempo cerchiamo di invertire un paradigma dominante che vorrebbe ridurre il racconto della realtà e del mutamento sociale ad una disciplina accademica senza scambio con chi quella realtà e quel mutamento lo vive e lo genera. Mentre fare ricerca è dare parola e volto. Lo abbiamo fatto sul territorio, in questa mostra, alla radio, con Il Tirreno. Georges Perec diceva che “i giornali parlano di tutto tranne che del giornaliero”, ci sono estranei, mentre in questo caso un quotidiano ha rotto il ricatto della cronaca per raccontare periodicamente queste storie, per ospitare immagini di famiglia, facendo per una volta da specchio alle persone comuni. D’altra parte è proprio “La vita: istruzioni per l’uso” di Perec il romanzo all’origine del progetto, la straordinaria constatazione che un citofono è l’incipit di altrettante insospettabili storie e dei loro possibili intrecci.

Matteo: Da molto tempo, sia nelle ricerche personali iniziate già alla fine degli anni novanta sia attraverso i progetti di arte pubblica che ho curato presso il museo di fotografia contemporanea, lavoro con l’arte e soprattutto

con la fotografia per indagare e comprendere i luoghi. Non in senso descrittivo però, quanto piuttosto per attivare relazioni tra le persone, con la memoria, con il paesaggio fisico e con quello immaginato di ognuno. Ecco quindi che Foresta Bianca, attraverso le immagini di famiglia e attraverso le storie delle persone, vuole dare forma a un racconto collettivo del territorio, capace di fondere la dimensione privata con quella pubblica, costruito insieme alle persone che lo abitano. Il nostro ruolo è quello di avviare un percorso e di accompagnarlo, con attenzione e con la nostra sensibilità, ma Foresta Bianca non esisterebbe e non avrebbe senso senza le
moltissime persone che vi hanno partecipato e ne hanno quindi determinato i contenuti e le direzioni.

Perché abbinare le storie di vita alle fotografie di famiglia?

Stefano: La storia di vita è il tesoro che puoi sempre scommettere sia custodito in ciascuna casa, qualunque piega abbia preso la biografia di una persona, avrà sempre una storia da raccontare. Di più, le storie rivissute hanno un fortissimo tasso di lirismo, hanno una carica di umanità nei dettagli che solo i testimoni possono restituire, e “chiamano” le immagini,
perché dopo un po’ che ascolti il racconto o lo leggi come nel libro hai proprio voglia di vedere i personaggi, di riconoscere i luoghi, di scoprire com’era prima. In fondo credo che la storia di vita con le fotografie di famiglia sia il romanzo perfetto, quello con la forza della prima persona singolare e delle immagini che precipitano gli occhi in quel mondo.

Cosa raccontano di diverso le fotografie di Foresta Bianca?

Matteo: A differenza delle immagini di cronaca utilizzate dai media, che in pochi istanti ci colpiscono e ci raccontano un’intera storia, quasi esaurendola, le fotografie di famiglia sono silenziose e spesso misteriose. Abbiamo cercato nei cassetti e negli album le immagini meno strutturate, evitando quanto più possibile le situazioni più ufficiali e più impostate per concentrarci su momenti del quotidiano, che presentano qualcosa di indeterminato, a volte buffo o drammatico, spesso con inquadrature imprecise o addirittura sbagliate. Innanzitutto queste fotografie ci mettono immediatamente in contatto con la persona della storia, come con l’immagine dei cari che si tiene nel portafoglio o, una volta, sul cruscotto dell’automobile. Ma se le osserviamo con attenzione, ci accorgiamo che proprio perché aperte, vaghe e spiazzanti, lasciano spazio a infiniti racconti e a molti possibile ricordi comuni.

Come è stata pensata la mostra?

Matteo: In mostra c’è una selezione più ampia dell’archivio, abbiamo esposto oltre centotrenta immagini. Abbiamo scelto di incorniciare gli originali, che diventano così delle vere e proprie opere, con le diverse tecniche, carte, formati e con tutti i segni del tempo. Sono state raggruppate per decenni, uno in ogni sala, in modo che ci accompagnino in un viaggio che dagli anni Trenta arriva a oggi, dal bianco e nero al colore, dall’analogico al digitale. Ognuna di esse ci regala un frammento preciso della vita dei partecipanti al progetto, che troviamo nella didascalia, ma contemporaneamente apre nuove narrazioni. I visitatori sono invitati a partecipare, portando le proprie fotografie che saranno aggiunte a quelle già esposte, come in un domino, a seconda delle somiglianze, delle associazioni di idee, dei ricordi che evocano.

Cosa succede a raccontarsi e mostrarsi?

Stefano: Ci si commuove, a volte si piange, ogni tanto si salda un debito con se stessi svelando un segreto o dicendo ora a freddo quello che si pensa intorno a quanto è successo. Insomma, uno psicologo direbbe che è terapeutico, ma anche senza entrare in una logica clinica è evidente a tutti che ne abbiamo bisogno, che il silenzio e la censura su di noi cui in parte siamo costretti dal nostro stile di vita – penso soprattutto a come si vive nei grandi centri urbani – ci fanno male. Nella mia esperienza ogni intervista lascia un senso di benessere, di scoperta della dignità della propria storia, di valore per cose a volte mai considerate importanti e meritevoli di attenzione. Alla fine direi proprio che il risultato è la
bellezza, non tanto la verità come fosse un esercizio di ricerca storica, ma la scoperta della bellezza delle storie comuni, l’emozione per chiunque, a prescindere dal tasso di eroismo delle sue gesta, anzi spesso in antitesi con quello. Credo che tutto questo sia anche un esercizio di cittadinanza, di ripresa dello spazio pubblico da parte delle persone comuni, per una volta non spettatori televisivi, non utenti di servizi.

Ci sono temi che ricorrono in queste storie, e c’è un legame con la Storia, quella che si studia a scuola?

Stefano: Il libro della mostra è il libro di testo che avrei voluto a scuola, leggendolo ci si imbatte nel fascismo e nella militanza comunista, nella civiltà contadina e nei processi di industrializzazione, nelle catene migratorie e nelle guerre mondiali, ma è tutto filtrato dall’esser stato vissuto, visto coi propri occhi, trasformato in scelta o tragedia personale.
Tutto questo a volte non quadra con la Storia ufficiale, anche quella locale, ma il pregio di un racconto che inizia cosi - in fondo le quasi centro storie sono solo l’incipit di un romanzo che potenzialmente ne ha migliaia - è che risulta fuori dalle retoriche, perché è inciso in queste persone e nelle loro famiglie, e al proprio corpo non si mente.

Che cosa rimane del progetto, ora che è arrivato a conclusione?

Matteo: A prima vista si potrebbe pensare che questo libro è quello che resta di Foresta Bianca. In realtà la selezione di storie e di immagini che abbiamo raccolto nel volume è soltanto una parte del progetto, una piccola testimonianza. Ci auguriamo che rimanga per un intero territorio l’esperienza di avere condiviso per molti mesi, a volte anche in modo sottile, distratto o laterale, frammenti di una storia comune. Non sappiamo esattamente chi abbia seguito le pagine su “Il Tirreno”, chi sia venuto a vedere il cinemino o la mostra, ma abbiamo avuto la percezione che, mano a mano, Foresta Bianca abbia davvero accompagnato la vita delle persone. C’è poi l’esperienza di un gruppo di ragazzi che si sono messi alla prova con grande intensità, competenza e passione, imparando qualcosa dal lavoro diretto con noi, ma soprattutto conoscendo e vivendo la storia del proprio territorio dall’incontro diretto con le persone . E c’è infine un archivio fantastico, con quasi cento storie e oltre 1200 fotografie, che rimane e rimarrà a disposizione di tutti come una sorta di monumento collettivo.