Immagini in movimento sul confine fra arte e documento

26/10/2012



La Biennale di Venezia

55. Esposizione Internazionale d'Arte


Venezia, 25 ottobre 2012: il Presidente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta, e il Curatore della 55. Esposizione Internazionale d'Arte, Massimiliano Gioni, hanno incontrato i giornalisti.

Gioni: “Il tuo desktop è una wunderkammer”. E ci rende più ottimisti.

Accerchiato da schermi, display, iPad, telefonini, e tutto il solito ambaradan mediatico da conferenza stampa, Massimiliano Gioni evoca la necessità di organizzare e ridurre il traffico visivo a cui siamo sottoposti quotidianamente.

All’accumulazione passiva delle informazioni, oppone struttura e organizzazione; alla ridondanza, oppone l’immaginazione; al sensazionalismo, la meraviglia. Questo è il suo “palazzo enciclopedico” – e guai a chi gli chiede cosa ci sarà dentro. Quel che conta è la struttura, che nasce da un’architettura brevettata nel 1955 da un semisconosciuto artista autodidatta italo-americano, Marino Auriti. Tra la torre di Babele e il teatro di Giulio Camillo, il palazzo enciclopedico sarebbe una configurazione mnemonica, una struttura che associa gli elementi per proprietà semantiche o per ricorrenze formali, non per appartenenza cronologica.

“Siamo una generazione iperstorica” dice Gioni in risposta a qualcuno che gli chiede quale spazio ci sarà per i giovani artisti: certo, ci saranno i “giovani”, ma accanto a vecchissime cose, perché la nostra generazione è caratterizzata proprio dalla facilità con cui abbiamo accesso ai documenti e dalla nostra tendenza ad accumulare dati, affiancare passato, presente e futuro. I desktop di ognuno di noi sono delle wunderkammer, dice Gioni, ridisegnando i confini tra ordine e disordine, dignità museale e trash casalingo.

Che Gioni voglia continuare l’esperimento della biennale di Gwangju? In quell’occasione aveva lavorato sull’ossessione per le immagini, riesumando materiali fotografici di inizio secolo, esplorando il fuori-campo di icone storiche, ragionando sull’influenza dell’apparato sull’immagine stessa, indagando la funzione dei sistemi di visualizzazione delle nuove tecnologie.

Che voglia allestire una mostra “di ricerca”? Quando dice che vuole “trattare l’arte come sintomo della cultura visiva”, sta parlando di antropologia delle immagini, e scusate se è poco. Opere, oggetti comuni, documenti saranno disposti insieme, ognuno a illuminare e dare senso all’altro. Ma questo “palazzo enciclopedico” è solo una metafora per parlare di un’organizzazione tematica di una mostra? Macché, il progetto di Auriti sarà pienamente realizzato, almeno in forma di “modellone”, anche nei materiali da lui indicati: pettini (sì, proprio pettini per capelli), utensili, oggetti vari.

Ci fa sognare Gioni, saltando da Hans Belting a Marco Polo, dalle cartografie dell’immaginario ai bestiari medievali. E si sente pure un po’ in colpa perché qualcuno starà pensando che è didascalico, accademico e un po’ megalomane: la solita accusa a chi elabora un concept e non si sbottona sugli artisti invitati è di essere accentratore e di ridurre l’opera dell’artista a dimostrazione della sua tesi. A quel punto fa atto di umiltà e cita Harald Szeeman: “Sono solo un cameriere, non il cuoco”. Eppure è vero che, se saranno rispettate queste promesse, sarà una biennale coesa e solida, basata sulla collaborazione tra gli artisti, che non parteciperanno come monadi solitarie, ma in un progetto comune e collettivo.

Qualcuno si azzarda a far paragoni con l’ultima dOCUMENTA, e a opporre questa volontà di organizzazione e centralizzazione alla dispersione e alla mancanza di un tema della mostra di Carolyn Christov Bakargiev. A pensarci bene, però, l’idea di Gioni non è tanto lontana da quell’apparato centrale nascosto nel cuore del Fredericianum – il cosiddetto “cervello” della mostra – che custodiva la memoria delle cose, oggetti di uso comune, fotografie documentarie, antiche statuine rituali.

Anche il modo in cui le cose erano disposte ricordava più i musei etnografici che non le mostre d’arte – e quello era il senso di tutta la mostra, al di là del tema verbalizzato o no. Forse Gioni calcherà la mano su questo punto – e cioè che, se l’outsider bricoleur può entrare nel tempio dell’arte, è perché di base tutta l’arte, che lo si voglia o no, ha un che di folk.

Valeria Burgio

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