Vorrei parlarvi dell'ambiente in cui Group Material ha lavorato, mostrandovi
immagini di
progetti realizzati da Group Material in luoghi pubblici così
come quelle di altri artisti e
gruppi che hanno svolto un lavoro analogo. Passerò poi a una
descrizione e una
testimonianza di alcuni sviluppi recenti nell'area di Times Square
a New York e di alcuni
progetti di public art conseguenti a questi sviluppi.
Group Material è un gruppo di artisti fondato per dare una risposta
costruttiva all'arte che
era insegnata, esibita e distribuita nella cultura americana di quel
tempo, a ciò che
ritenevamo essere una strada che non ci soddisfaceva. Quando abbiamo
cominciato nel
1979 eravamo in tredici, ma dopo un anno e mezzo eravamo rimasti soltanto
in tre (Mundy
McLaughlin, Tim Rollins e io). Group Material ha cambiato negli anni
i suoi componenti, ma
per la maggior parte della sua storia era costituito da un gruppo di
quattro persone
organizzato in una struttura non-gerarchica. C'erano delle condizioni
diverse e delle
intenzioni condivise che hanno condotto alla formazione del gruppo.
Molti di noi erano
appena usciti dalla scuola d’arte, dove eravamo stati abituati a sviluppare
un voce artistica
“individuale”. Siamo stati anche abituati a credere che dopo la scuola
saremmo potuti
andare ad esercitare questa voce nel cosiddetto mondo reale. Questo
ci è sembrata
essere una promessa piuttosto falsa considerando le limitazioni e le
deviazioni che hanno
accompagnato i principi del mercato e del sistema dell’arte commerciale,
anche perché
molti di noi non erano interessati a creare oggetti, ma concentravano
la loro attenzione sui
processi di collaborazione. Eravamo collettivamente intenzionati a
unire le nostre
motivazioni sociali e politiche con le pratiche artistiche, che è
più comune adesso di
quanto lo fosse a quel tempo. Allora, la linea che divide arte e politica
era più chiaramente
tracciata e quella delimitazione è stata comunemente sostenuta,
spesso con il preciso
interesse di prevenire la contaminazione tra arte e politica.
Il nostro manifesto iniziale annunciava alcuni nostri obiettivi:
“Noi vogliamo mantenere il controllo sul nostro lavoro, dirigendo le
nostre energie nella
richiesta di condizioni sociali, che sono opposte a quelle del mercato
dell’arte. Mentre la
maggior parte delle istituzioni dell’arte tengono separata l’arte dal
mondo, neutralizzando in
questo modo le forme più abrasive e i suoi contenuti, Group
Material accentua le parti
taglienti dell’arte. Il nostro progetto è chiaro: invitiamo
ciascuno ad interrogare l’intera
cultura che abbiamo dato per scontata”.
Il medium principale di Group Material sono state le mostre temporanee.
Nel nostro primo
anno abbiamo affittato e lavorato in un negozio con le vetrine su strada
in cui abbiamo
presentato alcune esposizioni. Dopo questo abbiamo cominciato a realizzare
esposizioni
in spazi interni, presso vari tipi di istituzioni d’arte e abbiamo
anche organizzato mostre in
luoghi non usuali, o in spazi pubblici. Per spazio pubblico voglio
dire, nella maggior parte
dei casi, spazi pubblicitari, che, naturalmente, sono privati, ma sono
situati in luoghi
pubblici. Così Group Material ha affittato gli spazi dei cartelloni
per la pubblicità o nei
giornali, nella metropolitana o nelle stazioni, allo scopo di portare
l’idea di un’esposizione e
proporre nella sfera pubblica qualcosa di diverso rispetto alla pubblicità.
Questi sono i
progetti su cui voglio focalizzare la mia attenzione, i primi dove
ci siamo occupati di
discorsi pubblici e obiettivi sociali all’interno di un ambiente commerciale
e pubblicitario.
Piuttosto che isolare artificialmente la nostra pratica vorrei inserire
il lavoro di Group
Material nel più ampio contesto di certe condizioni sociali
all’interno delle quali noi
operavamo a New York a partire dai primi anni Ottanta, affiancando
i nostri lavori ad alcuni
esempi di altri artisti per cercare di trasmettere il senso in cui
abbiamo operato a quel
tempo, lavorando all’interno di una rete di pratiche critiche e oppositive,
all’interno delle
varie comunità.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, il contesto
per lavorare come
artista a New York era polarizzato: da una parte c’era il risorgere
della pittura neo-
espressionista che continuava con la concezione dell’artista eroico,
dall’altra, c’era un
ambiente di femminismo, critica anti-colonialista, diritti civili,
punk e cultura della musica
autoprodotta, ecc. C’era una forte richiesta di diritti nei giovani,
e tra gli artisti e i lavoratori
dell’industria culturale — rivendicare i propri diritti, mettere in
dubbio l’autorità, e assumersi
la responsabilità di avere voce in capitolo in una cultura che,
tra le altre cose, stava
cambiando, contestando e collettivizzandosi.
Inizierò facendovi vedere delle immagini, e ponendo un paio
di domande in rapporto a
questa serie di conferenze sullo spazio urbano: cosa è possibile,
incoraggiato e permesso
in pubblico? Con quali meccanismi è controllato lo spazio pubblico?
Come fanno a
funzionare le varie agenzie e come sono utilizzate per ottenere un
certo obiettivo o una
comunicazione nei confronti del pubblico? Come sono controllati, censurati,
incoraggiati e
strumentalizzati gli artisti nei vari contesti culturali urbani? Quale
ruolo prendono gli artisti
quando agiscono “in pubblico”? E, un promemoria sulla congiunzione
tra sfera pubblica e
clima politico che è drammaticamente cambiato agli inizi degli
anni Ottanta e negli anni
Novanta a New York, come vedremo nell’esempio di Times Square.
Una prefazione prima delle immagini: da Sharon Zukin autrice di un
inestimabile e analitico
libro chiamato The Culture of Cities (La Cultura delle Città):
“Costruire una città dipende da come la gente combina i tradizionali
fattori economici di
terra, lavoro e capitale, ma dipende anche da come manipolano i linguaggi
simbolici di
esclusione e dei diritti. Lo sguardo e la sensibilità di una
città riflettono decisioni di quello e
di chi deve essere visibile e di quello che non deve esserlo, basandosi
su concetti di
ordine e disordine, e sugli usi del potere estetico. In questo senso
principale la città ha
avuto sempre un’economia simbolica”.
Ho letto questo perché le diapositive che presenterò
dimostrano come si tratta con un tipo
di superficie o di luogo di proiezione all’interno di un contesto urbano.
Questa economia
simbolica e reale è un campo di battaglia tra le varie ideologie,
non tra i metodi.
All’inizio del 1980, concomitante con gli inizi di Group Material, un
gruppo di artisti ha
organizzato un evento chiamato The Real Estate Show. Questo era un
pietra miliare ed un
esempio di artisti uniti insieme per fare un’asserzione critica sulla
crisi economica, politica
e rappresentativa. Questi artisti organizzati hanno illegalmente occupato
uno spazio che si
affacciava sulla Delancey Street nel Lower East Side per allestire
una mostra d’arte
tematica intorno al soggetto delle proprietà immobiliari e,
in maggior misura, inscenare
un’azione e un evento mediale contro il Comune (qualche volta il peggiore
padrone di casa
di New York) come il gruppo responsabile dell’accumulo di edifici o
di mantenerne sfitti altri
che potrebbero altrimenti essere usati come abitazioni o come uffici.
La proprietà
comunale che decisero di occupare, 123 Delancy Street, era programmata
per diventare
un centro commerciale.
I volantini distribuiti annunciavano l’evento dichiarando:
“Questa è, in poche parole, una occupazione di una proprietà
commerciale sfitta
dell’amministrazione cittadina… L’intento di questa azione è
mostrare che gli artisti sono
disposti e capaci di mettere loro stessi e il loro lavoro fermamente
in un contesto che
mostri solidarietà verso le persone oppresse e a riconoscere
che le strutture istituzionali e
mercantili opprimono e distorcono la vita e le opere degli artisti,
e a riconoscere che gli
artisti vivono e lavorano in comunità depresse, sono parte attiva
nel ridare purezza e nel
fenomeno della gentrification (N.d.T. “imborghesimento” di parti della
città mandando via
con la scusa delle ristrutturazioni le fasce più povere della
popolazione). È importante
concentrare l’attenzione degli artisti in questa direzione perché
vengono usati come pedine
da avidi costruttori edili”.
La mostra era aperta dal 1 gennaio e il 3 gennaio la municipalità
di New York la chiuse,
bloccandone il cancello. Joseph Beuys era in città in
quel momento e visitò lo
spazio, la sua fotografia fu stampata dai quotidiani, con il conseguente
aumento di
attenzione da parte dei mass media. Questo fatto ha contribuito a trasformare
l’evento e le
circostanze della chiusura definitiva della mostra da parte del Comune
in una piattaforma
da cui amplificare e articolare obiettivi e critiche del progetto.
Gli organizzatori erano stati
ricevuti dai funzionari del settore edilizia del Comune per negoziare
una soluzione. La città
offrì un altro spazio vicino che sarebbe potuto essere permanente
o semi-permanente in
funzione dell’autosufficienza del gruppo stesso. Di malavoglia loro
accettarono quello
spazio in 156 Rivington Street che sarebbe diventato ABC No Rio, un
spazio alternativo
ancora aperto, anche se minacciato di sfratto. Questo è un significativo
esempio
dell’attivismo culturale degli artisti, ma anche dell’impatto di un
compromesso di quel tipo.
Accettando quello spazio, finì l’attenzione dei mezzi di comunicazione
e il pubblico dibattito
intorno a questo evento, la negoziazione annullò l’importanza
di un modello di occupazione
abusiva degli spazi.
All’incirca nello stesso periodo di The Real Estate Show, Group Material
ha affittato un
spazio di un negozio sulla East 13th Street. Bisogna tenere a mente
che questo era ancora
il Lower East Side, che entro alcuni anni sarebbe diventato noto come
l’East Village, un
luogo per moltiplicare fantasie bohemien e arte alternativa in contatto
con SoHo e la 57th
Street. Quando Group Material ha aperto il suo spazio l’intenzione
era di avere una nostra
propria stanza dove fare un laboratorio per organizzare o fare esposizioni
ed eventi con
temi sociali. Volevamo anche sviluppare una relazione con gli abitanti
del quartiere, un
pubblico “normale”, in aggiunta alle relazioni con il “mondo dell’arte”.
Noi stavamo
mantenendoci in equilibrio tra pubblici differenti. Questa esposizione,
chiamata The
People’s Choice (La Scelta della Gente), è un esempio di come
reinventare la nozione di
pubblico attraverso un’esposizione . Appesi ai muri c’erano articoli
ed oggetti che
abbiamo raccolto dalle persone che abitavano lì intorno dopo
che avevamo distribuito
porta a porta una lettera di cui riporto una parte: “Egregi amici e
vicini della 13th Street.
Group Material ha organizzato un’esposizione a cui sei invitato. Group
Material è la galleria
che ha aperto questo ottobre al 244 East 13th. Siamo un gruppo di giovani
che ha
organizzato diversi tipi di eventi nel nostro spazio. Abbiamo organizzato
feste, mostre
d’arte, abbiamo proiettato film e organizzato corsi d’arte per bambin.
The People’s Choice è il titolo della nostra prossima esposizione.
Ci piacerebbe mostrare
cose che di solito non si possono trovare in una galleria d’arte. Le
cose che personalmente
trovate belle, gli oggetti che tenete per il vostro proprio piacere,
gli oggetti che hanno un
significato per voi, la vostra famiglia e i vostri amici. Cosa potrebbero
essere? Possono
essere fotografie, o i vostri poster favoriti. Se raccogliete cose,
questi oggetti sarebbero
buoni per questa esposizione”.
Quello che era importante per noi in quel momento nell’esposizione,
e significativo con uno
sguardo retrospettivo, è che ha proposto un diverso punto di
vista, rispetto a quello dei
musei o delle altre istituzioni che vengono considerate la cultura
ufficiale, di ciò che è
prezioso culturalmente, e la “collezione” di The People’s Choice era
una risposta a cosa è
culturalmente prezioso per la gente, non ciò che pensano gli
esperti culturali. The People’s
Choice non era un’esposizione etnografica.
Al termine di questo primo anno in cui avevamo lo spazio della galleria
si erano formate
varie fazioni e discussioni che avevano prodotto dei litigi nel gruppo
e così siamo scesi da
tredici a tre persone. Benché abbiamo cominciato con molta energia
ed entusiasmo,
mentre identificavamo e raffinavamo più chiaramente le nostre
idee ed interessi, su ciò che
volevamo fare individualmente e come gruppo, la configurazione originale
si disintegrò.
Una ragione che allora abbiamo identificato era che noi eravamo caduti
nella trappola di
creare uno spazio alternativo. Alimentavamo il sistema commerciale
ed accettavamo il
ruolo che ci era assegnato di rimanere nella nostra condizione sociale
alternativa.
Aspettavamo che la gente venisse e vedesse quello che stavamo facendo
piuttosto che
portare idee e produrre sulle strade o in altri luoghi, piuttosto che
occuparci dei problemi
che ci stavano a cuore, “per chi è la cultura e dove deve essere
vista”. Con la scissione del
gruppo iniziale e nel momento in cui abbandonavamo il nostro spazio
abbiamo pubblicato
un volantino intitolato Caution: Alternative Space (Attenzione: Spazio
alternativo):
“Per la seconda stagione Group Material diventa un’organizzazione molto
diversa con
nuovi soci e nuove tattiche. Abbiamo imparato che la nozione di spazio
alternativo non è
solo politicamente falsa ed esteticamente ingenua, ma può anche
essere diabolica. È
impossibile creare un’arte radicale e innovativa se questo lavoro è
ancorato a
un’ubicazione speciale della galleria. L’arte può avere il contenuto
più politico e la forma
più giusta ma se la cosa resta soltanto appesa diventa muta
a meno che la sua intenzione
di diffusione assuma anche un significato politico. Se una visione
più aperta e democratica
dell’arte è il nostro progetto, allora non possiamo proprio
contare sull’approvazione del
vincitore da lucenti stanze bianche e dalle riproduzioni a colori del
brillante mondo dell’arte.
Fornire e promuovere un’estetica del vissuto di un’estesamente “non-arte”
pubblica, questa
è la nostra meta, la nostra contraddizione, la nostra energia”.
Così fu liberatorio a quel punto non dover avere uno spazio,
e definire noi stessi come un
gruppo indipendente che potesse funzionare in modi e spazi diversi
attraverso tutta la città.
Questo ci ha aperto la possibilità di lavorare sul luogo (site
specifically) ed in rapporto con
varie istituzioni ed uffici burocratici.
Uno dei primi progetti che facevamo in un spazio pubblico o spazio all’aperto
è stato
chiamato Da Zi Baos o The Democracy Wall (il muro della democrazia).
“Da Zi Bao” è il
nome cinese per un poster con delle scritte di grandi dimensioni. La
nostra superficiale
comprensione dei movimenti del muro della democrazia in Cina è
che è una forma
tradizionale di dialogo sociale scritto viene realizzato in pubbliche
piazze. La catena di
eventi è quello che qualcuno o qualche gruppo monta dei manifesti
di commenti sulla
politica pubblica o su qualche specifico problema su un muro sulla
strada. Dopodiché
un’altra persona viene e ne mette un altro accanto a quello e così
via. Quello che ne
risultava era una panoramica di opinioni, che qualche volta ha influenzato
la politica. Nel
1976 dopo la morte di Mao, Deng è stato riabilitato nel partito
e dal 1980 ha consolidato il
suo potere e ha cancellato quattro libertà dalla Costituzione
del 1978: parlare a voce alta
liberamente; esprimere pubblicamente e completamente le proprie opinioni;
tenere
dibattiti; potersi esprimere con questi grandi poster — la tradizionale
forma di protesta
politica. Abbiamo ritagliato il concetto e il modulo del Da Zi Baos
e realizzato un tipo di
versione costruttiva. Pensavamo a quello tempo, nel 1982, quali fossero
i modi con cui
veniva strumentalizzata e manipolata dai mezzi di comunicazione di
massa l’opinione
pubblica negli Stati Uniti e come opinioni e punti di vista siano ridotti
a un sì o un no, senza
complessità o area grigia intermedia, cicliche repliche di pensieri
riduttivi. Il sistema di
raccolta delle dichiarazioni che si potevano vedere appese sui muri
coinvolgeva persone
intervistate in strada presso Union Square, dove più tardi sarebbero
stati appesi i
manifesti, su alcuni problemi sociali che erano attinenti alla stessa
Union Square oltre che
ad alcuni problemi di attualità. Abbiamo alternato le asserzione
di singoli individui (scritte
nero su giallo) con quelle di gruppi organizzati (nero su rosso) che
lavoravano sugli stessi
problemi. Così in un certo senso The Democracy Wall non
è così dissimile da alcune
nostre mostre realizzate in spazi chiusi perché l’intera struttura
funzionava come un forum o
un modello di una possibile forma di democrazia. La prima dichiarazione
era di Group
Material: “Anche se è facile e divertente, siamo stanchi di
essere spettatori. Vogliamo fare
qualche cosa, vogliamo creare la nostra cultura invece di comprarla
soltanto”.
Contrapponendola con un’asserzione di una casalinga: “I fondi statali
per le arti dovrebbe
dipendere dalle reali intenzioni, a cosa serve. Se quest’arte era basata
sull’aiutare altre
persone o su qualche cosa che io posso capire”. Due altro affermazioni
erano sui
sindacati. Un impiegato diceva: “I sindacati aiutano la società,
ma non nel mio ufficio”. E il
sindacato Home Health Care Workers ha scritto: “Questi sono tempi duri
per stare in piedi
da soli. Anche se la gente è pagata per il suo lavoro, l’atteggiamento
dei padroni nei
confronti dei servi rimane lo stesso.”
Voglio indicare che quello era un progetto veramente poco costoso da
realizzare (circa
200 dollari) perché li abbiamo fatti a mano. Abbiamo appeso
i manifesti di notte
illegalmente, e sono rimasti per circa cinque settimane prima che fossero
coperti e/o
distrutti. Fino ad allora Group Material si era autofinanziato, questo
significa che i membri
del gruppo hanno messo insieme i loro soldi per realizzare eventi e
progetti. Al quel tempo
abbiamo cominciato a ottenere il sostegno del National Endowment for
the Arts (Fondo
nazionale per il sostegno delle arti).
Queste prossime diapositive sono di un progetto dell’artista John Fekner
che lavorava in
questo stesso periodo. La serie di mascherine fatte appositamente per
gli spazi pubblici
dove sarebbero apparse le scritte è stata chiamata Queensites.
Parlando a proposito della motivazioni di questa pratica lui ha detto
che il lavoro era inteso
a: “Indicare le aree nelle comunità che hanno un bisogno per
costruire, decostruire, o
ricostruire. Segnalare i problemi riguardanti il paesaggio fisico di
ciascuna strutture o
atmosfera in quella area per identificarla come danneggiata o pericolosa.
Ottenere personale sanitario per agire più velocemente per liberarne
i detriti”.
E in un’intervista con Peter Fend del 1980: “I miei segni indicano
direttamente l’ambiente
della vita di ciascuno e la chiamata per un più grande riconoscimento
di un’esperienza
attuale. I cartelloni pubblicitari ci consentono un riconoscimento
di cosa si trova al negozio
o al termine di un giro in aeroplano. Mi oppongo all’idea della pubblicità
della vendita di un
prodotto o di un luogo senza considerare le immediate conseguenze fisiche
che subisce il
corpo di ciascuno, attraverso le sostanza inquinanti o la povertà”.
Questa immagine è dove Fekner aveva riprodotto la parola “Decay”
(decadimento) sul lato
di un edificio nel South Bronx. Ronald Reagan era là fuori per
partecipare alla campagna
presidenziale del 1980. Il luogo è stato usato come un fondale
da Reagan per una
conferenza stampa — si è impossessato del lavoro per scopi politici,
ma alla fine fallì il suo
scopo perché ha fatto molte dichiarazioni e promesse alla gente
del South Bronx che
avrebbe ripulito la zona, e andò via tra i fischi dei presenti.
Ma penso che questo sia un
interessante esempio della sovrapposizione fra cultura visiva e mezzi
di comunicazione di
massa. Un esempio di un segno, un lavoro artistico, realizzato in uno
spazio pubblico che
essendo adatto al suo scopo è critico. Questo The Remains of
Industry (I rifiuti
dell’industria) è un esempio di come uscisse di notte con delle
mascherine scrivendo su
qualche cosa che sarebbe dovuto essere distrutto ma in effetti non
lo era, ed allora
sarebbe stato risanato più rapidamente perché era stato
marcato in quel modo .
Questo è un altro progetto di Group Material chiamato Subculture
e realizzato nel 1983.
Abbiamo affittato gli spazi pubblicitari sulle vetture della metropolitana.
In questo caso
Group Material ha agito come un imprenditore perché abbiamo
fatto un contratto con le
autorità della metropolitana per lo spazio ed abbiamo invitato
103 artisti a fare a trenta
pezzi ciascuno da mettere in quegli spazi. Le autorità ci avevano
detto che non potevamo
fare nulla che avesse un contenuto politico o sfumature religiose e
questo ha precluso circa
il novanta per cento di quello che volevamo fare perché sapevamo
che la maggior parte
degli artisti volevano fare qualche cosa con un contenuto politico
o sociale. Ma dato che
erano i primi anni Ottanta, ed eravamo prima delle guerre culturali,
gli artisti non erano
ancora visti come simbolicamente pericolosi, così veramente
non c’era sorveglianza su
quello che è stato installato perché, in fin dei conti,
anche se ci hanno avvertiti, portavamo i
manifesti e loro li affiggevano. E a loro piaceva questo lavoro così
non c’era nessun
problema.
Le condizioni per gli artisti che lavorano in una sfera pubblica, dove
devono negoziare con
gli uffici burocratici, è molto difficile in termini di contenuti
i quali vengono regolarmente
esaminati. C’è un controllo molto restrittivo ed alcuni artisti
si sono rivolti anche alla Corte
Suprema per combattere in questo modo il loro diritto alla libertà
di parola. Questo è uno
dei pezzi più riusciti di Subculture. È stato fatto da
una donna chiamata Vanalynne Green
che realizzava delle performance e lavorava allo stesso tempo anche
come segretaria a
Wall Street. Ha fotografato delle tazze di caffè e al centro
di una di queste tazze ha
sovrapposto la storia di come ogni mattina il suo capo le chiedeva
di portargli una tazza di
caffè e avrebbe sorriso quando gliela avrebbe portata, ricordando
e gustando il fatto che
aveva versato il caffè in una tazza sporca. Nel mese di settembre
c’era uno lavoro su ogni
vettura della metropolitana.
Questo progetto è un’esposizione di Group Material in uno spazio
chiuso che ho incluso
qui perché è una riflessione critica sulla cultura americana,
cos’è questa nozione
monolitica del pubblico americano che è comunemente sostenuta?
È stata chiamata
Americana, fatta al Whitney Museum nella Biennale del 1985, ed era
la prima volta che
Group Material era stato invitato da una cosiddetta istituzione o museo
per fare
un’esposizione. Tradizionalmente la Biennale del Whitney Museum è
un esame di quello
che gli amministratori ritengono importante o significativo nell’arte
americana degli ultimi
due anni. Vado ad incorniciare questo episodio in modo cinico, ma la
nostra visione della
Biennale era che c’era un punto di vista molto ristretto che informava
il processo di
selezione, creando una sorta di grande passerella di ciò che
stava passando nelle gallerie
e di quello che veniva venduto più facilmente, e non aveva necessariamente
molto
collegamento con quello che accadeva, in scala più grande, nella
società. Così dato che i
parametri o la cornice dell’esposizione era la Biennale, abbiamo pensato
di fare un
modello della nostra propria biennale o quello che per noi era importante
ma omesso del
Whitney Museum, e che includeva non solo alcuni artisti ma anche elementi
della cultura
della massa o cosiddetta cultura bassa. Cercavamo anche di creare delle
connessioni tra
le scelte estetiche della gente che fa acquisti, per esempio nell’acquistare
una lavatrice o
un particolare tipo di cereali, e le scelte, in un certo senso basate
sul gusto, che i curatori
del Whitney fanno quando acquistano, in una scala più grande,
per la collezione del museo.
Americana affronta anche l’idea del Whitney come un museo nazionale
— è addirittura
chiamato Whitney Museum for American Art — e con ciò definisce
la loro idea di cosa è
l’arte americana, ed abbiamo voluto prendere posizione contro l’esclusiva
e sbiancata
immagine di arte americana e aprirla a una più aperta alle donne,
ad artisti di colore così
come alle tematiche politiche che erano escluse. L’idea era di creare
una versione meno
elitaria di cultura americana e una temporanea e simbolica rimozione
di alcuni dei confini
tra cultura alta e bassa, interrogandosi alla fine su cosa sia il valore.
Abbiamo chiamato questo progetto del 1988 Insert (Inserto). Di nuovo
agivamo come un
imprenditore affittando questo spazio dopodiché girando agli
artisti il compito di fornire il
contenuto. In questo caso lo spazio della pubblicità era in
un quotidiano — l’inserto della
domenica del New York Times tirato in 90.000 copia che, in teoria,
raggiunge 150.000
lettori. Abbiamo invitato 10 artisti a fare ciascuno una pagina: Mike
Glier, Jenny Holzer,
Barbara Kruger, Carrie Mae Weems, Felix Gonzalez-Torres (che subito
dopo diviene parte
di Group Material), Nancy Spero, Nancy Linn, Hans Haacke, Richard Prince,
Louise
Lawler. Avevamo progettato originalmente Insert per il Daily
News che è più locale meno
intellettuale che il New York Times. Avevamo negoziato con il Daily
News per circa un anno
ma senza mai firmare un contratto. E quando finalmente siamo andati
da loro con il
progetto dell’intervento che avremmo voluto produrre, l’hanno
rifiutato con la motivazione
che “questo non è arte è un editoriale”. Così
portammo il progetto al New York Times e
abbiamo lavorato con il “direttore dell’accettazione della pubblicità”
che era preoccupato
che il pezzo di Carrie Mae Weems potesse essere frainteso dai lettori
interpretandolo
come razzista, senza sapere che era stato fatto da un’artista afro-americana,
ma alla fine
accettò il progetto.
Quando Group Material ha fatto progetti come Americana al Whitney o
come Inserts c’è
spesso una zona di compromesso. Dal nostro punto di vista è
stato utile negoziare a quel
tempo. Certamente non siamo interessati nella diffusione del contenuto
o del significato del
nostro lavoro, ma siamo interessati a lavorare, almeno temporaneamente,
con e all’interno
di queste istituzioni e senza autoemarginarsi. Così per esempio
col Whitney, in un certo
senso ci usavano per adempiere una certa funzione, avere cura di certi
problemi sociali, e
viceversa noi usavamo questo come una piattaforma su cui posare una
diversa serie di
problemi sociali.
Questo è un progetto che Group Material ha organizzato con molte
altre organizzazioni.
Abbiamo lavorato con Randolph Street Gallery che è uno spazio
alternativo di Chicago e
con sei organizzazioni di comunità sparse in tutta la città.
Ci sono diversi livelli di
collaborazione che sono presenti in questo progetto. Group Material
è di per se stesso un
gruppo non-gerarchico, noi non usiamo un modello corporativo che percorre
una linea di
diverse competenze ma lavoriamo insieme e come gruppo ci prendiamo
la responsabilità
di ogni aspetto del lavoro. E allo stesso modo c’è una collaborazione
o dialogo, in termini
di partecipazione nei vari progetti, con gli artisti e non-artisti
con cui lavoriamo. Nel caso di
questo progetto chiamato Your Message Here (metti qui il tuo messaggio)
abbiamo
collaborato dall’inizio con sette altre istituzioni o organizzazioni
nel progettare insieme,
chiamando artisti e non-artisti a mettere qui il loro messaggio ,
selezionando il
materiale, ed infine realizzando i manifesti. Specialmente nei quartieri
più poveri di
Chicago c’è il predominio, nei cartelloni di pubblicità,
di sigarette e tabacco. L’idea era
sostituire qualcuna di quelle pubblicità con altre comunicazioni,
altre immagini e altri
argomenti per un periodo di tre mesi. Avevamo quaranta cartelloni pubblicitari
che ci aveva
donato la Gannett Outdoor Advertising sui quali potevamo esporre qualunque
cosa
avessimo voluto. Abbiamo esposto la richiesta alla gente, tramite queste
sei
organizzazioni comunitarie, affinché proponessero quello che
avrebbero voluto vedere sui
cartelloni dei loro quartieri. Non era esattamente un concorso ma abbiamo
fatto una
selezione delle circa 140 proposte che abbiamo ricevuto per riempire
i quaranta spazi a
nostra disposizione. Abbiamo terminato con uno spettro molto ampio
di approcci artistici
ai problemi sociali d’attualità a cui la gente pensava nei dintorni
di Chicago. Un altro livello
di collaborazione che si è concretizzato in questo progetto
è che c’era un gran numero di
persone che non erano artisti ma che avrebbero collaborato con grafici
o artisti per
realizzare i propri progetti. Uno di questi stava di fronte a un liceo,
ed è stato fatto da Act-
Up di Chicago. Lo hanno voluto mettere vicino a un liceo perché
parlava dei problemi che
non sono discussi dagli studenti o, comunque, non sono affrontati a
scuola, come per
esempio la sessualità. Questo lavoro afferma: “nessun umano
è illegale.” Si può vedere
che c’è molta varietà in termini di mezzi usati per realizzare
i propri cartelloni. Questo è
stato fatto da un’organizzazione di senza casa, la Chicago/Gary Union
of the Homeless:
“possiamo non avere casa, ma abbiamo dei nomi e anche noi viviamo qui”.
Così con un
progetto come questo — dove avevamo veramente intenzione di incorporare
nuove
immagini nella rappresentazioni visuali della città — che si
può efficacemente e
simbolicamente arrivare a una democrazia culturale. “La guerra della
droga è una guerra
sulla gente. Il vero nemico è la disperazione in un sistema
morto”, firmato Vito Greco.
Questo è un pezzo di Martina Lopez. Le è stato chiesto
cosa le sarebbe piaciuto vedere su
un cartellone pubblicitario e lei ha detto che le piacerebbe vedere
le immagini della gente
che viveva là, amici e famiglia, così le ha raccolte
e ha lavorato con un grafico per
realizzare l’immagine finale. Amo questo pezzo e in un certo senso
mi ricorda il progetto
The People’s Choice. A questo punto Group Material era composto da
Doug Ashford (che
si è unito a noi nel 1982), Felix Gonzalez-Torres (1987), Karen
Ramspacher (1989) e da
me.
Nel 1982 The Public Art Found ha cominciato un programma chiamato Message
to the
Public (Messaggio al Pubblico) su un tabellone luminoso a Times Square.
Vi mostrerò un
video dei vari progetti che sono stati realizzati e vi leggerò
alcuni estratti dai dieci anni di
storia di questo programma. Il comunicato stampa di The Public Art
Found descrive il
programma: “Il 5 gennaio 1982, The Public Art Found ha annunciato l’inizio
del suo
programma Message to the Public. A partire dal 15 gennaio il tabellone
luminoso posto sul
vecchio edificio dell’Allied Chemical, al numero 1 di Times Square,
verrà animato da un
gigantesco computer che trasmetterà trenta secondi di messaggi
artistici ad un milione e
mezzo di potenziali osservatori giornalieri a Times Square. Progetti
recenti nella zona di
Times Square, specialmente i grandi murali di Riccardo Haus ed Alex
Katz nella mostra
Times Square Show di Collaborative Group mostrano chiaramente come
l’arte fosse in
grado di migliorare e di rivitalizzare i problematici centri urbani.
Message to the Public è un
classico esempio di come l’obiettivo principale di The Public Art Found
possa conciliare
l’espressione individuale di un’artista con le aspettative del pubblico”.
Il quadro qui a destra è di Nancy Spero ed è un lavoro
progettato per Times Square che è
stato censurato. Ellen Lubell ha descritto le politiche di censura
nel suo articolo
“Spectacolor Short Circuit” nel Village Voice del 10 febbraio 1987:
“Nella tarda estate scorsa i messaggi femministi di Nancy Spero furono
annullati dopo che
era già iniziata la produzione, e alla fine di novembre il lavoro
della video artista Dara
Birnbaum fu rifiutato prima che potesse essere mostrato, come da programma,
durante le
festività di Natale. In entrambi i casi erano state seguite
le normali procedure ed in
entrambi i casi il proprietario del tabellone luminoso, George Stonebelly,
le fermò
freddamente.”