In un paese relativamente nuovo e periferico, senza un passato organizzato e strutturato, lo sforzo costante di costruzione e ricostruzione storica è anch’esso un lavoro sull’attualità. Quando scoprimmo che la storia dell’arte era finita, non potemmo che dispiacercene e trovare la situazione scomoda perché non avevamo ancora cominciato quello che ci dicevano essere già finito. Il mio discorso seguirà così un percorso coerente con la nostra necessità storica o forse soltanto con il mio modo di concepire la storia. In Brasile dobbiamo fare come Proust: dare significato al tempo perduto e alle immagini che nel tempo si sono formate.
(*) "La crisi dell’arte come scienza europea" è la formula concisa che descrive una situazione che dura — mi sembra — ormai da 50 anni, senza trovare soluzione. Questa crisi ha dato origine ad una nuova civiltà dell’immagine tuttora in via di sviluppo. A volte mi domando se la realtà stessa non sia stata sostituita dalla sua immagine, sotto forma di ciò che chiamano simulacro. Circa 70 anni fa Walter Benjamin ha scritto un famoso saggio dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nel quale affermava che la riproduzione tecnica (fotografia e cinema) distruggevano "l’aura" dell’opera, colpendo la sua unicità e minacciando il valore di culto dell’originale. Allo stesso tempo però era proprio l’esistenza dell’originale a permettere la riproduzione. Benjamin non è vissuto abbastanza per vedere le estreme conseguenze di questo fenomeno, del quale è stato uno dei primi osservatori. Non è più possibile immaginare un originale che non sia stato riprodotto. Oltre ad avere minacciato il valore culturale dell’opera, la riproduzione è diventata la garanzia dell’esistenza stessa dell’opera, infatti oggi nessun’opera può esistere senza la sua riproduzione. Con il progredire della cultura dell’immagine, la situazione si è capovolta: è la riproduzione a sancire l’originale. Oggi, sono sempre più numerosi i casi in cui le riproduzioni non si riferiscono ad alcun originale. In questo modo la civiltà dell’immagine sembra offrire una curiosa conclusione al mito della caverna platonica: sostituiamo la realtà con un mondo di immagini create da noi stessi. Costruiamo con la più sofisticata tecnologia la nostra stessa caverna, non più avvolta in ombre ma incessantemente illuminata da immagini. Recentemente abbiamo assistito grazie alla televisione ad una manifestazione di estrema violenza distruttiva, la guerra del Golfo. In un altro testo Benjamin sostiene che davanti all’orrore della I Guerra Mondiale gli uomini sono tornati in silenzio. Cosa si può dire o raccontare, allora, di una guerra fatta praticamente a distanza tramite le immagini?
La "Crisi dell’arte come scienza europea" non è stata un fenomeno limitato all’Europa anzi ha colpito in particolar modo noi, i "non-europei" o meglio i "para-europei" modificando il nostro quadro di riferimento che era orientato dalla norma "Universale europea". In un paese periferico, né "fuori" né "dentro" ma situato in un luogo instabile, precario, questa crisi ha modificato il quadro tradizionale che ha dato poi origine alla nostra cultura. Con il trasferimento, dopo la Seconda Guerra Mondiale, del potere culturale dall’Europa agli Stati Uniti, inizia una civiltà dell’immagine su grande scala. Ci eravamo a stento adattati alle trasformazioni moderne ottenute, iniziavamo ad acquisire familiarità con i nuovi idiomi e i nuovi strumenti visuali che hanno sostituito i linguaggi tradizionali, quando improvvisamente l’ordine culturale, visuale ed egemonico cambiava di nuovo. Impotenti e senza scelta assistevamo alla sostituzione della tradizione europea, alla quale eravamo legati fin dai tempi della colonizzazione, da parte di un capitalismo nord-americano accelerato. Scompariva così definitivamente la speranza ancora viva dai tempi coloniali di un compromesso tra una radicale trasformazione economica e l’ambiente tropicale letargico della dominazione patriarcale. Il Brasile credeva di progettarsi per il futuro ma ancora rimanevano nelle prime immagini moderne prodotte le tracce di un passato arcaico. Queste immagini degli anni 20 mostrano un Brasile che è la reinterpretazione di un ambiente tropicale immaginato da moderni indigeni cubisti, non più quelli dei secoli XVI e XVII ma quelli del vertiginoso XX secolo, divoratori critici della cultura del colonizzatore, come proponevano i manifesti modernisti degli anni ’20.
Noi brasiliani sembravamo naturalmente destinati alla modernità, o meglio, la modernità era per noi una necessità. Le conquiste moderne avrebbero dovuto salvarci anche sul piano culturale dalla fatalità intrinseca nel nostro passato coloniale, schiavista e statico.
Le avanguardie storiche con le loro concezioni e contraddizioni offrivano una prima risposta ad un mondo dove l’immagine avrebbe dominato; inoltre hanno contribuito alla nascita di una modernità in circostanze avverse. Le avanguardie si sono rese conto che un nuovo fattore stava per perturbare il mondo: l’instabilità. Tutto era diventato irrimediabilmente instabile: conoscenza, comunicazione, consumo, produzione: l’io stesso dell’uomo era "destabilizzato".
Nelle società tradizionali, l’uomo abituato all’immobilità è ancora più vulnerabile, meno adattabile e più suscettibile all’instabilità che va oltre i suoi limiti sensoriali abituali assumendo un aspetto quasi sovrannaturale ma allo stesso tempo seducente e minaccioso. Con la predominanza degli aspetti instabili della vita nasce il gusto del provvisorio, dell’incostante: niente può più essere stabile, permanente o eterno. In un certo qual modo i traumi e lo choc sensoriale prodotto dall’instabilità hanno preparato l’apparato sensoriale ad una cultura in cui l’immagine avrebbe predominato. L’immagine moderna si costituiva allora come la problematica strutturazione visuale dell’instabilità.
Le posizioni delle avanguardie storiche avevano il vantaggio di essere radicali, anche e principalmente nelle loro contraddizioni e incoerenze. Ma la nostra realtà culturale era abbastanza diversa dall’ambiente europeo dove le avanguardie si manifestavano in modo distruttivo o negativo. Il nostro impulso moderno è prima costruttivo o ricostruttivo che distruttivo, prima positivo che negativo. Il passato stesso era qualcosa da costruire e comprendere. In Brasile tutto doveva essere ancora costruito, incessantemente. Tutto sembra essere provvisorio, instabile, intermittente. Sia nelle avanguardie europee (Futurismo) che nel Modernismo brasiliano esiste l’elemento dello scandalo. Nelle società culturalmente arretrate e conservatrici lo scandalo ha un valore culturale che non può essere disprezzato. Si può dire che lo scandalo è il risultato traumatico di un’immagine che non ancora istituzionalizzata o stabilizzata, è lo stadio muscolare, un momento pre-visuale dell’immagine, con conseguenze ancora provvisorie. Lo scandalo oggi ha perso il suo valore culturale: il dominio dell’instabilità annunciato dalle avanguardie all’inizio del secolo sembra essersi compiuto, irreversibilmente, su scala planetaria. L’esperienza dello choc, dello scandalo intimo, che era il modello del "flaneur" baudelairiano, nella grande città moderna dell’inizio del secolo si è trasformato nella contemplazione inerte delle ombre nella nuova caverna platonica costruita dalla civiltà dell’immagine.
La modernità brasiliana è tardiva e diventa effettiva soltanto a partire dagli anni 50. A quell’epoca ci siamo liberati definitivamente dagli arcaismi e dalle ultime tracce dell’inerzia coloniale, allineandoci con le forze trasformatrici moderne. Il paese si industrializzava velocemente, il processo di urbanizzazione si accelerava, imponendo la realtà delle grandi città e la fine della tradizione rurale del paese. In questo contesto il "costruttivismo" si rivela decisivo. In un Brasile che cambiava faccia, era naturale l’attrazione verso un pensiero che portava in sé non soltanto i presupposti della razionalità ma anche la volontà di estenderli sul piano sociale. In Brasile, il programma costruttivo europeo ha dovuto fare i conti con un ambiente e una sensibilità particolari ed è stato portato avanti con coerenza e perseveranza. Se è vero che l’arte rivela l’essenza del popolo che l’ha prodotta, allora l’arte brasiliana nella sua perseveranza costrutiva, mostra il nostro desiderio più intimo e autentico: quello di essere organizzati, coerenti e razionali. Un’arte con queste caratteristiche potrebbe rispecchiare la nostra vera immagine.
Tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70, al limite estremo del progetto costruttivo brasiliano, troviamo i lavori di Elio Oiticica e Lygia Clark che sono stati battezzati dal critico Mario Pedrosa "esercizio sperimentale di libertà". L’arte contemporanea brasiliana nasce così come sperimentalismo liberatorio. Sperimentalismo su due versanti: sia sulla "crisi dell’arte come scienza europea", ovvero crisi dell’universalità dell’arte, sia sulla crisi stessa vissuta in un contesto periferico, complesso e singolare. Le ultime manifestazioni di origine costruttiva avvenivano insieme a timidi tentativi locali di instaurare un’arte Pop. In una cultura pre-industriale priva di segni socialmente riconoscibili e altamente persuasivi, la strategia Pop era strutturalmente problematica, risultando così in immagini che non potevano che essere pudiche, timide, immagini di un kitsch domestico e provinciale. La scelta duchampiana del ready-made che in America è stata fatta propria dagli artisti Pop, ossia l’utilizzo di immagini della società di consumo e quindi tipicamente ripetitive, era invece impossibile nel nostro contesto sociale. I tentativi brasiliani in questo senso sono limitati dall’impossibilità di trovare i segni e le immagini prodotte da una società di massa. Gli artisti brasiliani cercavano i propri segni nel grottesco della recente società urbana brasiliana: i suoi sogni, le sue delusioni, le sue ansie, la sua ingiustizia e la sua miseria. In questo modo permaneva una carica affettiva, un inevitabile sentimentalismo: niente di paragonabile al cinismo radicale e all’indifferenza delle immagini Pop che annunciavano invece un nuovo stadio della civiltà dell’immagine. Credo che l’arte contemporanea brasiliana risponda alla crisi del costruttivismo e all’impossibilità di una Pop Art concependo non un progetto di riforma dell’ambiente sociale né un’ortodossia formale, ma piuttosto ciò che proponevano con il "neoconcretismo" Elio Oiticica e Lygia Clark ovvero un pensiero in espansione, una forma di agire sociale, una struttura libertaria. La loro azione era anche di tipo duchampiano, puntuale, strategica, rigorosa, un’azione che adeguava un approccio critico ad un ambiente resistente e indifferente. Percepiamo nei fulminei e precisi interventi duchampiani la presenza di un agire che non conclude l’opera. Il Duchamp costruttore di una mitologia fu anch’esso decisivo, nel bene o nel male. In una società dove lo statuto dell’arte è ancora rarefatto e i segni artistici scompaiono senza lasciare tracce, è l’artista che molte volte deve costruirsi una sua storia su misura, stabilendo punti di riferimento per un dialogo produttivo, senza generare deformazioni facendo della mitologia un mito personale. Questa modalità brasiliana di organizzare la cultura in modo soggettivo nasce dall’oggettiva rarefazione e fluidità della cultura locale: il "Brasile diarrea" di cui parlava Oiticica. L’arte contemporanea brasiliana è un insieme visionario, coerente e rigoroso, flessibile, manipolatore tanto dei gesti insignificanti del quotidiano quanto delle grandi strutture sociali. Dico visionaria non perché anticipi una nuova realtà ma perché vive intensamente un’esperienza che avvicina gli elementi di realtà lontane ma le cui possibilità sono già presenti. Sarebbe un errore cercare in questi lavori contemporanei immagini illustrative e superficiali o semplicemente locali. Sono lavori che cercano le forze, le tensioni, i rapporti che stanno sotto la superficie. È per questo motivo che il tema locale non è rintracciabile in alcuna rappresentazione, forma o immagine e si trova invece nel processo stesso di costituzione del lavoro. Questo tema locale è la lotta costante per l’esistenza stessa dell’arte in un ambiente avverso. Da questa lotta nascevano opere necessariamente sfuggevoli alla comprensione, fatte con materiali improbabili, quasi impossibili. Queste opere potevano essere tutto o niente o le due cose allo stesso tempo. In Brasile come ovunque gli artisti cercavano di mantenere un’autonomia nell’ambito artistico e per fare ciò
dovevano staccarsi radicalmente dalle immagini dell’universo dei Media, assumendo così il rischio di una permissività dove tutto è possibile compresi il banale e il gratuito. Gli artisti brasiliani hanno percepito che la reazione alle avanguardie dell’inizio del secolo, il confronto tra coscienze, non era più possibile in un mondo contaminato dalla mancanza di pudore e dalla promiscuità culturale che dominano dall’esterno tutte le altre culture, in un mondo dove la cultura individuale appare soltanto come segno inautentico e falsato della multiculturalità.
Oggi la figura dell’artista sembra trasformata e in Brasile come altrove questo si percepisce chiaramente. La nuova civiltà dell’immagine ha assegnato un ruolo all’artista. Come aveva previsto Argan è raro trovare oggi la figura tipica dell’artista intellettuale, quello che ricercava il nuovo ad ogni costo e che comprendeva il senso di questa ricerca. L’artista di questi tempi, detti post-moderni, senza distinzione di origine o nazionalità, mi sembra si sia ridotto ad un operatore tecnico dell’immagine. Come il suo equivalente nella sfera economica che opera in un mondo globalizzato economicamente, questo artista opera in diversi luoghi allo stesso tempo senza però appartenere a nessuno di essi, cerca di trovare connessioni e rapporti tra le immagini, negando loro, però, un valore cognitivo e attribuendovi invece il coefficiente di persuasione tipico dei Media. Senza compromettersi effettivamente con nessuna immagine, abdica alla sua responsabilità culturale e alla possibilità di creare o trasformare. E se utilizza mezzi tecnici tradizionali, lo fa spesso per il prestigio culturale che questi mezzi mantengono, prestigio però impotente davanti alla voracità delle immagini del mondo di oggi, dove quotidianamente circolano immagini senza storia, senza origine, senza identità, incessantemente. Questo fenomeno si verifica in tutte le culture senza eccezioni. L’arte che ha sempre costituito un luogo privilegiato nel sistema visuale, all’inizio di una nuova civiltà dell’immagine si trova in svantaggio rispetto alla complessità di questa civiltà dell’immagine che esiste ormai da qualche decennio. Conosco poche immagini del mondo moderno comparabili a quelle descritte da Jopseph Conrad nel libro Cuore delle tenebre. L’autore descrive il viaggio di un giovane inglese che risale il Congo per arrivare nel cuore dell’Africa:
"La terra non sembrava avere nulla di terrestre. Noi siamo abituati a guardare l’immagine incatenata di un mostro vinto, ma lì - lì - si poteva guardare una cosa mostruosa e libera. Non aveva nulla di terrestre, e gli uomini erano... No, non erano inumani. Beh, sapete, ciò che era il peggio - questo sospetto che non fossero inumani. Affiorava lentamente. Essi urlavano e saltavano, e giravano, e facevano delle smorfie orribili; ma ciò che dava il brivido era proprio il pensiero della loro umanità - uguale alla vostra - il pensiero della vostra remota parentela con quel tumulto selvaggio e appassionato. Sgradevole. Sì, era una cosa abbastanza sgradevole; ma se eravate abbastanza uomini dovevate convenire con voi stessi che c’era in voi una sia pur debolissima traccia di rispondenza alla terribile franchezza di quel rumore, un vago sospetto dell’esistenza in esso di un significato che voi - pur così lontani dalla notte delle età primordiali - potevate comprendere. E perché no? La mente dell’uomo è capace di qualunque cosa perché in essa c’è qualsiasi cosa, tutto il passato come tutto il futuro. Che cosa c’era là dopo tutto? Gioia, timore, tristezza, devozione, coraggio, furore - chi può dirlo? - ma verità - verità spogliata dal manto del tempo. Lasciate che lo sciocco guardi a bocca aperta e frema - l’uomo sa, e può stare a guardare senza battere ciglio. Ma egli deve essere almeno altrettanto uomo di quelli sulla riva. Deve affrontare tale verità con la propria vera sostanza - con la propria forza innata."
Lì nel cuore dell’Africa il giovane inglese aveva trovato un uomo che conosceva la verità. Credo che quando sarà conclusa la costruzione della caverna platonica a cui ho fatto riferimento all’inizio, forse non ci resterà altro che ripetere le parole di Kurtz, l’uomo che ha conosciuto la verità nel cuore delle tenebre: "Orrore, orrore".
Paulo Venancio Filho
(*) Titolo del Capitolo VII del libro "Storia dell’arte moderna" di Giulio Carlo Argan.
Nota del traduttore: il brano in portoghese tratto dal libro "Cuore di tenebre" è stato riportato nella traduzione di Ugo Mursia.
Traduzione di Carla Vendrami e Davide Fabbri