Buongiorno. Mi dispiace di non essere in grado di parlarvi in italiano.
Leggo l’italiano, fino
a un certo punto, ma anche se ho lavorato a mostre a Roma molti anni
fa e, più di recente,
a Venezia, non sono capace di parlarlo. Questa è la mia prima
visita a Milano.
Dopo avere lavorato per circa trent’anni è molto difficile per
me fare una selezione dei
lavori da presentare qui. Ho deciso di parlare di circa 10 opere degli
ultimi 8 anni. Le ho
scelte sperando che potessero essere di un certo interesse e forse
anche di una certa
importanza per la situazione qui.
Conoscete di sicuro il termine “site-specific”, che indica qualcosa
di specificamente legato
a un luogo. Mi piace sempre sottolineare che questo tipo di specificità,
caratteristico di
molte mie opere, non si limita alle condizioni architettoniche, o a
condizioni fisiche di altro
tipo, nelle quali vengo invitato a lavorare e a esporre. Almeno altrettanto
importante per me
è il contesto sociale e politico. Anzi, arriverei addirittura
ad affermare che, oltre all’uso
tradizionale che un artista fa del bronzo, delle tele, dei colori,
ecc., io uso come mio
materiale anche il contesto sociale e politico.
Vorrei darne alcuni esempi. Comincio con una cartolina illustrata,
una cartolina come
quelle che conoscete da molte città e che ne illustrano varie
vedute. In questo caso si tratta
di una cartolina della città di Graz, nell’Austria meridionale.
Vorrei richiamare la vostra
attenzione sull’immagine al centro, in fondo. Mostra una delle più
importanti piazze nel
centro della città. Relativamente piccola, come potete vedere,
in cima alla colonna dietro la
fontana, vi è una statua della Vergine Maria in bilico su una
mezzaluna. È una colonna della
vittoria. È stata eretta a Graz nel xviii secolo per celebrare
la vittoria sui Turchi (la
mezzaluna rappresenta i Turchi). Nel 1988, nell’ambito del festival
artistico e culturale
annuale denominato Autunno Stiriano, sono stato invitato a Graz insieme
ad altri 15 artisti.
Quell’anno, gli austriaci commemoravano il 50 anniversario dell’annessione
del paese da
parte di Hitler. Il curatore della sezione arti visive dell’Autunno
Stiriano — presentavano
anche spettacoli teatrali, eventi cinematografici, musicali ecc. —
ha chiesto agli artisti
invitati di realizzare una installazione temporanea, nei luoghi pubblici
in cui i nazisti
avevano avuto una presenza di primo piano, come per esempio le piazze
in cui si erano
tenuti raduni nazisti, il municipio, l’edificio della sede centrale
della Gestapo, ecc.
Come gli altri artisti, sono andato a Graz per famigliarizzarmi con
la storia della città. Nella
biblioteca dell’università ho esaminato i giornali e le pubblicazioni
del 1938. Ho trovato un
opuscolo con il titolo: “Graz: la città della ribellione del
popolo”.
Si trattava del titolo onorario che Hitler aveva conferito alla città,
perché Graz era stata la
prima importante roccaforte nazista in Austria. Nell’opuscolo ho trovato
fotografie come
questa (diapositiva di austriaci in fila lungo una strada, con il braccio
alzato nel saluto
hitleriano). La maggior parte degli austriaci, a quei tempi, non si
considerava vittima di
un’annessione, ma festeggiava l’unione del proprio paese con la Germania
nazista .
La fotografia dell’opuscolo mostra la Herrengasse, la principale via
degli acquisti di Graz,
interamente adornata di bandiere naziste, lungo tutto il percorso fino
alla colonna con la
Vergine Maria.
E ho trovato anche un’altra fotografia, nell’opuscolo; è stata
quella che mi ha colpito di più
perché mostrava la colonna con la Vergine Maria sepolta sotto
un obelisco rosso
completamente ricoperto di insegne naziste. Era stato eretto per celebrare
la vittoria dei
nazisti nell’anniversario di un putsch fallito a Vienna nel 1934. Pensavo
che, al fine di
portare nuovamente alla memoria alcune delle enormità accadute
a Graz 50 anni fa, si
sarebbe dovuto ricostruire l’obelisco. Quando ho fatto la mia proposta,
pensavo che
sarebbe stata la fine del mio coinvolgimento nella manifestazione di
Graz.
Con mia grande sorpresa, mi ero sbagliato. Qui vedete la ricostruzione,
nel 1988. Ai piedi
della colonna, su uno sfondo nero, ho aggiunto qualcosa nei tipici
caratteri tipografici
Fraktura, i preferiti dai nazisti. Si tratta di un bilancio, per così
dire, del loro slogan “E infine
siete stati vittoriosi”, posto sull’obelisco del 1938. Elenca gli sconfitti
della provincia
austriaca di Steiermark (Stiria), della quale Graz è la capitale:
300 zingari uccisi, 2.500
ebrei uccisi, 8.000 prigionieri politici uccisi o morti in prigione,
9.000 civili uccisi durante la
guerra, 12.000 dispersi e 27.900 soldati uccisi.
Ci attendevamo qualche problema, e quindi l’opera veniva sorvegliata
ogni notte. Ma un
singolo guardiano evidentemente non era sufficiente. Nel momento in
cui, una volta, si era
messo dall’altra parte dell’obelisco e non poteva vedere, qualcuno
era venuto e aveva
buttato una bomba molotov. Il calore è stato così forte
che la povera Vergine si è fusa. Io mi
aspettavo che la polizia avrebbe messo in opera dei tentativi frettolosi
di prendere
l’incendiario, per poi dimenticare la cosa in fretta. Anche in questo
caso mi attendeva una
sorpresa. Nel giro di breve tempo, la polizia aveva arrestato l’incendiario,
il suo aiutante e
l’istigatore dell’attentato. Vennero messi sotto processo, condannati
e mandati in prigione
per 1 e 2 anni rispettivamente. Quello che è interessante è
che non sono stati giudicati per
danni alle proprietà, ma per motivi politici. Immediatamente
dopo l’attentato incendiario, la
gente di Graz è uscita in strada per esprimere il proprio senso
di offesa. I cittadini hanno
lasciato fiori sul posto e organizzato dei turni di sorveglianza silenziosi.
Volevano
chiaramente mostrare quali erano i loro sentimenti rispetto a quanto
era accaduto.
Il lavoro che viene è forse più spensierato. Nella seconda
metà degli anni 80, così come
l’Europa, anche New York è stata inondata delle citazioni del
“Presidente” Baudrillard.
Questo pezzo è un mio commento. L’ho chiamato Baudrichard’s
Ecstasy . Come
potete vedere c’è un asse da stiro che regge un orinatoio, entrambi
un chiaro riferimento a
Duchamp. L’orinatoio è dorato. Quello di Duchamp, ovviamente,
non lo era. E c’è un
secchio da pompiere appeso da un lato dell’asse da stiro. L’acqua del
secchio viene
sparata attraverso un tubo di gomma fino a fuoriuscire dalla parte
superiore dell’orinatoio,
per finire quindi nel buco sul suo fondo. Poi scorre di nuovo nel secchio.
Nel titolo ho
contratto i nomi “Baudrillard” e “Richard”. “Richard si riferisce alla
“R” nello pseudonimo “R.
Mutt” usato da Duchamp. In francese “Richard” significa anche “quattrini”.
L’“estasi” del
titolo si riferisce al titolo di un saggio di Baudrillard, L’estasi
della comunicazione. Come
potete vedere qui, l’orgasmo di Baudrillard, per così dire,
non consiste in nulla. È sterile.
Passiamo ora a Berlino. Questa è una carta del centro della
città nel 1990. Vedete la riga
che va da sinistra a destra. Si tratta della demarcazione del muro
e della cosiddetta fascia
della morte che divideva la città. Per 28 anni, mine, cani e
guardie di confine hanno
impedito ai tedeschi dell’Est di passare all’Ovest. Nel 1990, ho fatto
parte del gruppo di
circa una dozzina di artisti invitati a partecipare a un’esposizione
a Berlino. Ci è stato
chiesto di creare un’installazione temporanea in uno spazio pubblico,
con una presenza sia
nella parte orientale che in quella occidentale della città,
che, a quei tempi, non era ancora
stata unita. Durante la mia esplorazione del sito, tra le altre cose,
ho vagato anche lungo
quella che una volta era la fascia della morte — le mine ormai erano
state eliminate.
Lì ho trovato questi due conigli. Sullo sfondo vedete il muro,
ancora intatto. I conigli
sembrano guardarsi l’un l’altro con un certo sospetto e una certa trepidazione.
Uno di loro è
chiaramente meglio nutrito dell’altro. Nel punto in cui li ho fotografati,
era stata scattata, 25
anni prima, questa foto (diapositiva di una donna tra le rovine). Sono
sicuro che
riconoscerete questo signore (diapositiva di Hitler). Potete senz’altro
vedere anche che si
trova in una limousine di marca Mercedes, mentre saluta i suoi ammiratori.
Si tratta della copertina di un libro pubblicato dalla Columbia University
Press a New York
sulla storia della Mercedes Benz con — non sotto — i nazisti.
Ho trovato questa fotografia negli archivi dell’esercito della Germania
Est, dove venivano
mantenute tutte le documentazioni delle torri di guardia. Si tratta
della torre che era stata
costruita nel punto in cui avevo fotografato i conigli e in cui era
stata scattata la foto delle
rovine nel 1945. Questa torre di guardia risale al 1963.
Qui vedete la pianta architettonica della generazione successiva di
torri di guardia tra l’Est
e l’Ovest.
E questa è una foto presa da una pubblicazione delle guardie
di frontiera della Germania
Est. A scadenze periodiche fotografavano l’intero confine. Sull’immagine
si vede per intero
l’estensione delle fortificazioni, il muro stesso, il campo minato,
la strada per le pattuglie di
sorveglianza, il sentiero per i cani, le luci e, sull’estrema a destra,
una torre di guardia del
tipo che vi ho appena mostrato sulla pianta architettonica.
Questa è la copertina di un numero della rivista tedesca Der
Spiegel del 1988, con in
copertina un servizio sulla Mercedes, o Daimler-Benz, come viene ufficialmente
chiamata
l’azienda, il maggiore produttore di armi nella Germania di oggi.
Qualche anno dopo, nella stessa rivista e in altri periodici, la Daimler-Benz
ha pubblicato
una serie di pubblicità su due pagine che esaltano i suoi autoveicoli.
Ognuna di queste
pubblicità si basava sulla citazione di un personaggio della
cultura universalmente noto. In
questo esempio, per la promozione dei suoi camion, la Mercedes usa
una citazione
dall’Amleto di Shakespeare: “La prontezza è tutto”. E in quest’altro,
“il soggetto è la linea”.
Anche Goethe viene messo all’opera: “L’arte rimarrà sempre arte”.
In Germania, la Mercedes è uno dei maggiori sponsor di esposizioni
artistiche. Tra le altre
cose, l’azienda ha commissionato ad Andy Warhol dei ritratti delle
sue auto dall’inizio, nel
xix secolo, fino a oggi. Warhol ha accettato. Questa è la copertina
e questa è una pagina
del catalogo dei suoi ritratti d’auto.
Nel 1990, la Potsdamer Platz, il vecchio centro di Berlino, aveva questo
aspetto, era
un’area vuota e desolata che stava a cavalcioni sul confine tra Berlino
Est e Berlino Ovest.
Alcuni mesi dopo l’apertura, il governo di Berlino ha venduto un importante
tratto di questo
appezzamento di primissimo piano alla Daimler-Benz, per una frazione
del suo valore di
mercato stimato. La gente di Berlino era furiosa. La vendita era venuta
prima di ogni
discussione sul futuro del centro della città. Il prezzo era
evidentemente così basso che la
Commissione Europea a Bruxelles ha ordinato alla Mercedes di pagare
una tariffa
aggiuntiva. Hanno stabilito che questo accordo di svendita equivaleva
alla fornitura di un
sussidio da parte del governo e pertanto era in conflitto con le norme
contro la concorrenza
sleale.
Questa fotografia mostra la porzione del mio progetto che è
stata collocata a Berlino
Ovest. È un’immagine dell’Europa Center, un’imponente torre
per uffici, centro
commerciale nel centro degli affari della metà occidentale della
città. Come avviene per
molti dei più alti edifici non religiosi delle città
della Germania Ovest, un’enorme stella della
Mercedes ruota in cima all’Europa Center. Questa costellazione svolgeva
per me il ruolo di
un “ready-made” .
E qui siamo tornati al punto in cui ho fotografato i conigli. Si tratta
della torre di guardia che
avete visto prima sulla fotografia della fascia della morte. Su ogni
lato della torre ho
collocato uno degli slogan pubblicitari della Mercedes: “La prontezza
è tutto”, e “L’arte
rimarrà sempre arte”. Come la stella della Mercedes sull’Europa
Center, anche questa
stella ruota. Di notte brilla e vi indica la strada.
Ecco un progetto che tratta di qualcosa che ha a che fare con l’Italia,
e che riguarda
un’esposizione a New York, alla John Weber Gallery nel 1994. Nella
piccola anticamera
della galleria ho installato un’opera intitolata “Dyeing for Benetton”
(gioco di parole tra “to
die” = morire e “to dye” = tingere, colorare — n.d.t). Forse vi ricordate
un manifesto
pubblicitario di Benetton dei primi mesi del 1994. Era stato esposto
a New York e in molti
paesi europei. Secondo quanto veniva detto, mostrava i pantaloni di
fatica e la camicia
insanguinata di un croato ucciso vicino a Mostar, nella ex-Jugoslavia.
In realtà, il padre del
soldato morto ha negato questa affermazione alla TV tedesca. Ha detto
che non erano gli
indumenti di suo figlio. Nella mia installazione, il poster copre la
porta dell’ascensore e
quella dell’uscita di emergenza. Quando si entrava o si usciva dalla
galleria, si doveva
passare attraverso il poster .
La striscia gialla che ho aggiunto parla dei criteri con cui Benetton
conduce i propri affari.
Cita Luciano Benetton, il capo dell’azienda: “Naturalmente, abbiamo
spostato gran parte
della nostra produzione in Paesi con salari bassi”. Un concetto che
ho elaborato con le mie
parole: “Una strategia di subappalto intensivo e di lavoro a cottimo
da parte di donne non
sindacalizzate frutta $125 milioni di utili (1992)”. Come forse molti
di voi sanno, Benetton
produce molto poco in proprio. La maggior parte del lavoro viene assegnato
a piccole
imprese, qui in Italia e in Egitto, India, Turchia, Messico e altri
paesi in cui la legislazione
sul lavoro è debole e i salari sono bassi. Quando a Oliviero
Toscani, la mente che ha
architettato la campagna di Benetton, è stato chiesto se Benetton
avesse dato contributi
per le cause che diceva di sostenere, la sua risposta è stata:
“Le donazioni vengono date
solo da coloro che si sentono colpevoli. Noi non ci sentiamo colpevoli,
e quindi non diamo
denaro”.
Di fronte alla porta dell’ascensore ho messo alcuni brevi passi da
un’intervista con Luciano
Benetton, pubblicata da Der Spiegel. Der Spiegel chiede: “Come sarà
la sua prossima
campagna? Più sangue?”, Luciano Benetton risponde: “No, presenteremo
la nostra scuola
d’arte”. In effetti, di recente ho visto una pubblicità di Fabrica,
la “scuola d’arte” di Benetton
in Veneto. E qui c’è un ritratto di Luciano Benetton. In fondo
al manifesto, vicino al gradino
della porta dell’uscita di emergenza, si vede l’indicazione di Olivero
Toscani come autore.
Sembra che per anni egli si sia sentito frustrato per non essere riconosciuto
come artista.
Con l’aiuto del suo padrone ha allestito egocentriche mostre in tutta
una serie di luoghi
artistici del mondo che avevano bisogno di soldi e desideravano apparire
all’ultimo grido.
Nel 1993, con mia grande sorpresa, mi è stato chiesto di
fare da portabandiera della
Germania a Venezia. In tedesco, come in inglese, si dice che un artista
“rappresenta” il suo
paese alla Biennale. Io ho deciso di rappresentare la Germania in un
altro senso del
termine. Nel 1937, il padiglione tedesco a Venezia era stato snellito,
per così dire, in
considerazione del nuovo look del regime di Hitler. All’entrata del
padiglione, ho posto una
fotografia della visita di Hitler al padiglione del 1934, durante il
suo primo viaggio all’estero
successivo alla presa del potere a Berlino. Si era recato a Venezia
per fare visita al suo
amico, il Duce. La comparsa di Hitler a Venezia coincideva con la Biennale.
Essendo stato
un pittore egli stesso, non voleva perdersi una visita al padiglione
tedesco. Qui lo vediamo
con il catalogo sotto il braccio, in mezzo a un gruppo di pittori appropriatamente
selezionati, insieme ai suoi amici italiani in camicia nera.
Sopra l’entrata del padiglione, ho trovato il gancio con il quale l’emblema
nazista con la
svastica era stato posizionato nel 1937. L’ho utilizzato per esporre
l’attuale simbolo della
Germania, il marco tedesco. Una volta che i visitatori erano passati
intorno all’immagine di
Hitler, vedevano l’intero padiglione, vuoto, con il pavimento di marmo
rotto. Era il marmo
che aveva sostituito il pavimento originale in parquet del padiglione
nel 1937. Quelli di voi
che lo hanno visto nel 1993 probabilmente si ricordano il suono delle
mattonelle che si
infrangevano sotto i piedi della gente. “GERMANIA” nell’abside riproduce
l’identificazione
dell’edificio e i caratteri tipografici fascisti della facciata del
padiglione.
Ora passiamo a qualcosa di molto diverso. Il titolo di questa opera
è Broken R.M. (“R. M.
rotto...”). Se pronunciate l’abbrevazione in inglese, suona come qualcosa
di simile a
“broken arm”, cioè braccio rotto. In tedesco, “arm” significa
“povero” (Duchamp ha passato
un po’ di tempo a Monaco). “R.M.”, come ho già ricordato in
precedenza, si riferisce anche
a “R. Mutt”. Chi di voi ha familiarità con l’opera di Duchamp,
si ricorda forse di un suo
“ready-made” di una pala da neve, dal titolo “In anticipo del
braccio rotto”. Nella mia
versione, in effetti, il manico è rotto e la pala è dorata.
La placca di smalto sulla parete si
riferisce all’oggetto di Duchamp “Eau et gaz à tous les étages”.
Ho cambiato il testo in “Art
& Argent à tous les étages”. Il pezzo è del
1986, l’anno in cui è stato raggiunto il picco
dell’inflazione di “ready-made” nel mondo dell’arte di New York.
Qui c’è una pubblicità Philip Morris su due pagine, tratta
dal New York Times, per la mostra
di Picasso e Braque che la società ha sponsorizzato nel 1989
presso il Museum of Modern
Art di New York. L’esposizione includeva anche un collage che aveva
questo aspetto, con
l’eccezione che non incorporava ritagli di giornali degli ultimi anni
80, ma ritagli che
Picasso aveva selezionato nel 1912 . In questo caso particolare,
parlano dei motivi
che hanno spinto a sponsorizzare una mostra fotografica della fotografa
nera Moneta
Sleet: “Per ottenere una maggiore visibilità della Philip Morris
nella comunità nera,
interagendo con gli elettori e i funzionari pubblici”. In fondo al
collage ho messo un altro
brano da un documento interno della Philip Morris, una lista dei recipienti
delle varie
somme in denaro, anch’esse riportate in dettaglio, spese in sponsorizzazioni.
Parla del
supporto di Philip Morris per il Jesse Helms Center di Wingate, nel
North Carolina. Nel
1990, l’anno in cui ho realizzato questa opera, la Philip Morris aveva
versato 200.000
dollari a questa istituzione, creata per propagare i valori di Jesse
Helms, dal quale il
Centro ha derivato il proprio nome. Helms è un senatore repubblicano,
noto sia per i suoi
atteggiamenti razzisti, che per la sua ostilità verso l’arte
contemporanea. Ha appoggiato il
Generale Pinochet in Cile ed era amico della cricca politica che in
El Salvador stava dietro
agli squadroni della morte. È contro la libertà di aborto
per le donne e fa tutto quello che
può per togliere ai gay e alle lesbiche le già limitate
libertà civili di cui godono. Nel 1990 è
riuscito a fare accettare dal Congresso una legge che ha reso i criteri
politici e, in effetti,
religiosi più conservatori, parte delle linee guida che il governo
degli Stati Uniti deve
seguire nel fornire assistenza finanziaria agli artisti e alle istituzioni
artistiche.
La Philip Morris è uno dei principali finanziatori di Jesse
Helms. Come senatore di uno
stato coltivatore di tabacco, ci si può fidare che sia un energico
sostenitore dell’industria
del tabacco. Per darvi un esempio, è riuscito a rompere le barriere
commerciali contro
l’importazione di sigarette americane in Asia, fatto di cui ha beneficiato,
in particolare, la
Philip Morris. E, come queste società, fa tutto il possibile
per evitare che si diffondano le
notizie che parlano della nocività del fumo per la salute. Non
molto tempo fa, la
Commissione Europea ha pubblicato un rapporto secondo il quale in Europa
ogni anno
500.000 persone muoiono per malattie legate al fumo. La settimana scorsa,
sulla prima
pagina del New York Times, ho trovato un articolo nel quale si riferiva
che ora vi sono prove
scientifiche, non solo statistiche, del fatto che il fumo causa il
cancro ai polmoni. 16 stati
degli Stati Uniti, inclusa la città di New York, hanno perseguito
l’industria del tabacco e, in
particolare, la Philip Morris, la più grande società
produttrice di sigarette del mondo,
affinché restituisse i soldi che essi spendono per pagare i
costi medici di persone che
soffrono di malattie causate dal fumo. Due anni fa, nel Consiglio di
New York City è stata
discussa una proposta per limitare il fumo nei luoghi pubblici. La
Philip Morris ha la sua
sede centrale a New York. La società ha fatto intendere che
avrebbe lasciato la città e che
le istituzioni che in passato avevano ricevuto sponsorizzazioni non
avrebbero più goduto di
tale supporto da parte della Philip Morris, se la legge fosse stata
approvata. In realtà, è
stata approvata. La Philip Morris rimane a New York e continua a sponsorizzare
le
esposizioni artistiche. Lo fa anche in Europa. Il cowboy ha bisogno
di una buona immagine
ora più che mai.
Negli ultimi anni 80, per un intero anno, la Philip Morris ha sponsorizzato
la Bill of Rights,
uno dei principali elementi della costituzione americana. Ha acquistato
il diritto di farlo
dagli archivi nazionali, per $600.000. Il budget della società
per la propria campagna,
invece, ammontava a $30 milioni. Nella strategia di relazioni pubbliche
perseguita dalla
Philip Morris, il fumo è associato con la libertà di
fumare. Ovviamente, la libertà dei non
fumatori di non essere esposti al fumo passivo non viene nemmeno menzionata.
Come per
il fumo diretto, anche per il fumo indiretto è stato scientificamente
provato il legame con
gravi danni per la salute.
Qui c’è un’immagine della mia scatola di sigarette Helmsboro
. Jesse Helms è un
politico che sta cercando di vanificare quella stessa libertà
di parola che la Philip Morris
pretende di appoggiare. Posso dare una testimonianza di quanto sia
grande l’amore
dell’azienda per la libertà di parola. Quando l’annuncio della
mia mostra Helmsboro
Country a New York è, per un incidente, atterrata sulla scrivania
del loro avvocato, la John
Weber Gallery ha ricevuto una lettera dalla Philip Morris nella quale
la si minacciava di una
causa legale, nel caso in cui l’immagine di Helmsboro, da me realizzata,
fosse apparsa
nella mostra. Né John Weber né io ci siamo sentiti intimiditi
come loro avevano invece
sperato.
Le sigarette che spuntano dalla scatola sono avvolte nella “Bill of
Rights”. Su un lato della
scatola si può leggere: “George Weissman. Presidente. Comitato
Esecutivo. Philip Morris.
Avvertenza: Chiariamo una cosa. Il nostro fondamentale motivo di interesse
per l’arte è il
nostro interesse. Vi sono vantaggi immediati e pragmatici che possiamo
derivare come
entità impenditoriali”. Sull’altro lato, ancora nella forma
di “Avvertenza”, viene riportata una
citazione del Senatore Helms, tratta dagli archivi del Congresso.
Helms dice: “Frank Saunders, che rivestiva la carica di Vicepresidente
per gli Affari
Culturali della Philip Morris Co., ha affermato davanti al Senato e
alla Camera, nel 1981,
quanto cito: “Poche imprese hanno il senso dell’avventura e pochi sono
preparati a
cacciare soldi per forme di arte creativa speculativa: ma quando riceve
il timbro di
approvazione della NEA, quest’arte ha buone possibilità di essere
ammessa nella stanza
del Consiglio di Amministrazione”. Helms prosegue con le proprie parole:
“Ciò vuol dire
che gli artisti possono ottenere i soldi delle aziende se possono ottenere
un marchio di
rispettabilità, anche se immeritata, dalla NEA (Fondo Nazionale
per le Arti, l’ente del
Governo americano che concede finanziamenti agli artisti e alle istituzioni
artistiche). Ed è
tutto qui. È una questione di risucchiare soldi dal contribuente
per finanziare la pornografia
di Robert Mapplethorpe che è morto di AIDS e ha passato gli
ultimi anni della sua vita
promuovendo l’omosessualità”.
Quando è diventato noto, attraverso la mia opera, che la Philip
Morris sponsorizzava non
solo l’arte, ma anche Jesse Helms, ACT-UP, un gruppo di attivisti gay,
ha chiesto il
boicottaggio internazionale delle sigarette Marlboro e della birra
Miller. Miller fa parte
dell’impero di Philip Morris nel settore dei generi di largo consumo
ed è una delle maggiori
marche di birra degli Stati Uniti. Ho visto perfino adesivi su distributori
automatici di
sigarette, a Berlino, nei quali si chiedeva di boicottare le sigarette
Philip Morris.
Recentemente, Philip Morris ha sponsorizzato un’esposizione di arte
concettuale al
Museum of Contemporary Art di Los Angeles. Il museo non aveva avvisato
gli artisti che
l’azienda produttrice di tabacco era lo sponsor della mostra. Abbiamo
scoperto — io ero
uno degli artisti che esponevano — attraverso un invito per l’apertura,
che, in realtà,
stavamo facendo pubbliche relazioni per Philip Morris. Un certo numero
di noi ha chiesto
che denunce dello sponsor venissero incollate di fianco alle nostre
opere esposte. Tra
coloro che hanno protestato vi erano degli artisti molto noti. Uno
di loro, Sol LeWitt, ha in
seguito rifiutato di partecipare a un’importante mostra sulla storia
dell’arte astratta presso il
Guggenheim Museum perché, ancora una volta, la Philip Morris
era lo sponsor. Oltre alle
opere passate, a LeWitt era stata commissionata anche la realizzazione
di una nuova
opera per l’esibizione. La mostra ha aperto senza di lui.
Questa è una foto che ho scattato a Venezia, quando preparavo
la mia esposizione presso
il padiglione tedesco. Nelle sale dell’Università ho scoperto
un poster che annunciava il
Premio Philip Morris per il marketing 1993. Sono rimasto particolarmente
affascinato dallo
slogan che Philip Morris ha usato in Italia, come viene riportato anche
su questo poster:
Philip Morris, la cultura dei tempi moderni.
Ho anche questo souvenir da Venezia, una foto delle hostess Philip
Morris all’entrata della
Biennale nel 1993. Quell’anno il padiglione americano era stato sponsorizzato
dalla Philip
Morris; due anni dopo l’azienda era tra i numerosi sponsor del padiglione
tedesco.
Lasciate che ora vi mostri qualcosa di molto diverso. Questa estate
(1996) ho realizzato
un’esposizione utilizzando la collezione del museo Boymans van Beuningen
di Rotterdam.
Per cambiare, ho fatto da curatore. L’esposizione includeva molte centinaia
di opere.
Ovviamente non ve ne posso mostrare così tante, qui. Ma vorrei
farvi vedere qualche
esempio della giustapposizione delle opere da me realizzata. L’esposizione
aveva il titolo
Viewing matters: upstairs. In inglese ha un doppio significato. Si
può porre l’accento sulla
necessità di “viewing”, che significa guardare, osservare, e
sulla sua importanza
nell’affrontare le opere d’arte. Ci si può tuttavia riferire
agli oggetti, cioè “matters”. Tra gli
altri riferimenti, “upstairs” allude al fatto che la mostra era allestita
al secondo piano del
museo, e implica il fatto che ogni volta che si prendono le opere per
esporle al di fuori dei
sotterranei in cui vengono conservate, le si porta “di sopra”. “Upstairs”
indica il piano
nobile. La mia intenzione era in effetti quella di svuotare lo spazio
di deposito, e di
reinstallare, negli spazi di esposizione, le pareti scorrevoli sulle
quali i dipinti vengono
conservati quando non vengono visti. Qui le vedete riempite, fianco
a fianco.
Complessivamente, c’erano sei pareti, ognuna coperta su entrambe i
lati da dipinti, opere
fotografiche e rilievi. Come avviene nei sotterranei di deposito, li
ho appesi insieme senza
alcuna considerazione di qualità, periodo o nome degli artisti,
ma applicando
esclusivamente i criteri di risparmio degli spazi contigui.
Nel corridoio centrale, ho appeso ritratti di artisti, i produttori,
da una parte, e immagini che
parlano dei consumatori, dei fruitori delle loro opere, come collezionisti,
musei, case d’asta
ecc., dall’altra. Sul carrello elevatore al centro, vedete un busto
in bronzo del signor van
Beuningen, uno dei due signori da cui il museo ha preso il nome. Dirigeva
il porto di
Rotterdam. Tutto il carbone dal bacino della Ruhr tedesca destinato
alle esportazioni
all’estero passava attraverso il porto di Rotterdam, e lui ne era il
responsabile. Non solo
prima della guerra e dell’occupazione dell’Olanda da parte dei tedeschi,
ma anche durante
l’occupazione egli ha avuto il monopolio delle spedizioni di carbone
dalla Germania. Oltre
a collezionare arte per se stesso, egli ha donato molte opere al museo.
Durante
l’occupazione ha collaborato con i tedeschi e ha venduto molte opere
ai nazisti per il
museo che Hitler prevedeva di aprire a Linz, in Austria. Sono ancora
conservate oggi in
Russia come bottino di guerra.
Sulla parete dietro van Beuningen, vedete un bel dipinto di Bartholomeus
van der Helst, un
pittore olandese del xvii secolo. Si tratta di un ritratto di Daniel
Bernard, che viene
identificato dai documenti che si piegano sul bordo del tavolo al quale
siede, come uno dei
principali azionisti della Compagnia delle Indie Orientali olandese.
Si tratta della società
che è all’origine della ricchezza dell’Olanda nel xvii secolo
e che è servita come base per le
colonie olandesi.
A fianco del dipinto si trovano due pannelli di Marcel Broodthaers
intitolati Museum-Museu.
Si tratta di fotografie filtrate in seta di barre d’oro con sottotitoli;
sul pannello di sinistra i
sottotitoli sono i nomi di artisti famosi, sulla destra, cose che vengono
scambiate sul
mercato dei futures, come oro, rame, zucchero ecc., ma anche cannoni
e sangue. Nella
fascia inferiore di ogni pannello i sottotitoli si riferiscono ai vari
tipi di autenticità e falsità.
Su entrambi i lati di questi pannelli ho appeso dipinti del xvii secolo
che ritraggono la borsa
di Amsterdam, la prima borsa del mondo.
Di fronte al signor van Beuningen, dall’altra parte del corridoio,
si trova un’opera di
Bertrand Lavier, che, se non mi sbaglio, attualmente ha una mostra
al Castello di Rivoli. Si
tratta di una colonna greca che fa da piedistallo per un barile di
petrolio. Oggi il porto di
Rotterdam ha ormai poco a che fare con il carbone, che in passato era
una delle principali
fonti di energia. Oggi Rotterdam è il più grande porto
petrolifero del mondo.
Ecco qui un altro confronto: la Piccola ballerina di Degas di fronte
a un uomo che cammina
di Rodin; sullo sfondo, Il bacio di Andy Warhol. Notate che la ragazza
di 14 anni è pronta a
picchiare l’uomo gigante, che non ha né braccia, né testa,
né pene.
La piccola scultura in ceramica di quelle che sembrano tre figure che
si tengono a un pene
è opera dell’artista olandese Mendes da Costa. È nascosta
dietro Prière de toucher di
Marcel Duchamp. L’oggetto in ceramica di fronte al Duchamp è
un salvadanaio a forma di
seno femminile. E qui ho messo fianco a fianco il profilo di una donna
anziana, di
Hieronimus Bosch, e L.H.O.O.O. di Duchamp.
Dietro a queste coppie incongrue, si trova questa tazza con piattino
in porcellana, un’opera
olandese del xviii secolo. Il museo l’ha intitolata piamente — o sarcasticamente
— La
fanciulla del latte. Potrebbe anche essere intitolata L.H.O.O.O. È
la mia ultima diapositiva.
Sarò lieto di rispondere alle domande.
Domande
Vorrei chiedere al signor Hans Haacke come considera la sponsorizzazione
dell’arte,
perché in qualche modo ci deve essere qualcuno che finanzia
una mostra.
Ovviamente, lungo tutta la storia, le arti hanno ricevuto appoggio
in un modo o nell’altro. In
Europa a ciò provvedevano le autorità religiose o secolari:
la Chiesa, i re e i principi, e la
nobiltà; nel caso dell’Olanda, i ricchi borghesi. La conseguenza
è che gli artisti non
seguivano solo il loro programma, ma anche quello di coloro che commissionavano
loro le
opere e che le collezionavano. In linea di principio, anche se non
sempre nella pratica, tutto
ciò è cambiato con la Rivoluzione Francese e le rivoluzioni
che la hanno seguita negli altri
paesi europei. Le arti ricevevano in vari gradi il supporto della nuova
cittadinanza. In realtà,
in molti paesi europei, lo stato, come rappresentante della cittadinanza,
ha da allora
cominciato a costruire grandi musei e ha cominciato a commissionare
opere d’arti e a
prendersi cura delle collezioni che erano di proprietà dei vecchi
poteri, mettendo insieme
per conto proprio delle notevoli collezioni. Naturalmente ci sono anche
i collezionisti privati.
La sponsorizzazione dell’arte è in origine un fenomeno americano.
Uno sponsor non è un
mecenate. Dà dei soldi nell’ambito di una precisa strategia
di business. Il futuro delle
grandi aziende dipende sempre più dalla loro immagine pubblica.
Ancora oggi, l’arte gode
dell’aura del buono, del vero e del bello. È quindi molto azzeccato
associare il nome di
un’azienda, in particolare di un’azienda che ha problemi di pubbliche
relazioni, o i cui
prodotti sono essenzialmente indistinguibili da quelli dei suoi concorrenti,
con questa triade
del buono, del vero e del bello. Solo l’arte non polemica può
servire a questo scopo.
Sconvolgere le cose, per esempio mandare in frantumi il pavimento di
un padiglione
nazionale, non è adatto. Il denaro delle aziende viene selettivamente
investito nelle opere e
negli eventi artistici che risultano acritici e promettono di essere
popolari.
Ormai si vedono sempre più solo selezioni fatte in base a tali
criteri aziendali. Gli artisti,
come le istituzioni artistiche e il pubblico, cominciano a credere
che questo sia il solo tipo
di arte che valga la pena di fare e di vedere. Per gli artisti che
non voglio agire come agenti
delle pubbliche relazioni delle aziende sta diventando sempre più
difficile esporre. Le
istituzioni artistiche europee sono ancora finanziate in misura prossima
al 100% con le
entrate fiscali, cioè con i nostri soldi. In realtà,
queste istituzioni pubbliche, le nostre
istituzioni, vengono trasformate in istituzioni che promuovono interessi
imprenditoriali
privati che, in molti casi, non sono compatibili con il bene pubblico.
Tuttavia, continuiamo a
pagare il conto. Prendete l’esempio della Philip Morris. La Philip
Morris fa quello che il
Ministero della Sanità degli Stati Uniti definisce “un prodotto
che è mortale se utilizzato nel
modo in cui è stato realizzato per essere usato”. Perché
le nostre tasse dovrebbero
pagare per mantenere delle istituzioni il cui ruolo è quello
di lobby che promuovono gli
interessi di chi realizza prodotti cancerogeni?