Una cosa che ha destato il mio interesse quando ho ricevuto l’invito
a tenere questa
conferenza è che la serie si intitola
La Generazione delle Immagini, poiché ho lavorato con le immagini
da vent’anni, ma negli
ultimi due ho smesso di usarle. In questo momento sto attraversando
una fase molto
pessimistica nei confronti del potere delle immagini. Ritengo che oggi
non si possa aver
fiducia nell’immagine, non si possa più credere all’immagine.
Ce ne sono troppe. Io le
temo.
Vi mostrerò quindi alcuni progetti a partire dal 1986; cinque
o sei progetti pubblici che
intervengono nel tessuto urbano e collegano la città con il
cuore dell’istituzione - in questo
caso con il museo. E concluderò con il mio lavoro più
recente. Infine ritengo che il contesto
sia tutto, quindi per la maggior parte dei progetti inizierò
mostrando alcune diapositive del
contesto e spiegando alcuni dettagli precedenti al progetto stesso,
in modo da ridare un
significato ad ogni cosa.
Rushes (Fretta/Corsa all’oro)
Questa è una miniera aurifera nel centro dell’Amazzonia in Brasile.
Lo scavo che vedete
qui è stato fatto con le mani di chi ci ha lavorato. Lo scavo
è stato fatto senza una sola
macchina. Quelli che vedete sono i tubi che portano l’acqua al fondo
della miniera. Il
governo brasiliano ha deciso di non invitare una multinazionale a lavorare,
sebbene
sapesse che procedendo in questo modo probabilmente si spreca il 60%
dell’oro. Ma così
saranno almeno in 100.000 ad avere un lavoro. Ho trascorso qui alcuni
giorni; sono arrivato
senza un copione preciso e ho prima chiacchierato con la gente, poi
dopo qualche giorno
ho cominciato a scattare delle foto. Solo una volta che sono diventato
invisibile comincio a
scattare le foto. Ciò che vi mostro ora non è esattamente
la mia opera, è il materiale di
documentazione prima di realizzare il progetto vero e proprio. Metà
del mio lavoro è simile
a quello del fotoreporter che va in una località e scatta delle
fotografie raccogliendo
informazioni. Ma queste immagini non sono mai vendute come fotografie
e non vengono
mai stampate nelle riviste o sui giornali, né mostrate come
foto, appese alla parete. In
effetti, se scatto migliaia di fotografie è proprio perché
non sono un fotografo. Penso di
rispettare l’immagine a tal punto che spero sempre, quando faccio cinquemila
scatti, che
almeno uno o due siano buoni.
Questa fotografia mi piace moltissimo per il modo in cui il soggetto
mi guarda, e per il
buco nella sua maglietta in corrispondenza del cuore. Ma è proprio
lo sguardo, il modo in
cui guarda il fotografo, guarda me, guarda voi, che mi interessa. Quello
sguardo dice:
“Sono forte, magari il mio aspetto è di un miserabile, ma sono
forte”.
Questa è l’ultima parte dell’intero processo, qui il minatore
cerca l’oro. Ed ecco l’oro, che
poi deve vendere al governo brasiliano, che glielo pagherà al
prezzo di mercato, detraendo
però una commissione.
Questa è una stazione della metropolitana di New York City:
ho affittato l’intera stazione
della metropolitana e ho esposto ottantuno manifesti della miniera
d’oro. In questa stazione
alcuni convogli si fermano ma altri no, quindi in qualche caso volevo
esprimere la nozione
di movimento che viene dall’immagine stessa. E ogni sei o sette spazi
ho inserito il prezzo
dell’oro nei vari mercati nel mondo. Questa linea della metropolitana
va dalla zona
residenziale di New York City a Wall Street, che è una delle
borse principali del mondo.
Volevo quindi collegare il lavoro di questi minatori nel centro dell’Amazzonia,
in Brasile,
con la realtà della gente che va a lavorare a Wall Street. Ho
creato dei collegamenti tra le
immagini e la stazione della metropolitana. Dove c’era un portarifiuti,
per esempio, ho
collocato immagini di rifiuti. Ho usato un linguaggio cinematografico.
Qualche volta ho
usato delle inversioni, o delle ripetizioni. E ho cercato di infrangere
tutte le regole della
pubblicità: per esempio mettevo un piccolo manifesto sopra a
uno grande. E ho controllato
anche la qualità delle immagini togliendo tutti i gialli, i
rossi e i blu, così le immagini sono
diventate color porpora, per eliminare ogni possibile lettura esotica
delle immagini. Poiché
la stazione è molto lunga, non ho raccontato una storia, ma
ho cercato di raccontare varie
storie in spezzoni diversi, perché i passeggeri possono scendere
dal treno in qualsiasi
punto della stazione. A New York vige una legge che proibisce a chi
fa pubblicità di
acquistare un intero spazio solo per sé, quindi mi hanno dato
degli spazi per i manifesti,
ma gli orologi sono rimasti appannaggio delle sigarette Marlboro.
Talvolta facevo il gesto poetico di ripetere l’immagine cambiando il
colore.
Fondamentalmente con questo progetto volevo creare un parallelo tra
la vita della gente
che sta a New York e lavora nella metropolitana, che ha la connotazione
di essere un luogo
pericoloso, con un’altra situazione che si verifica in un altro paese,
e mostrare che questi
collegamenti sono veri ed esistono realmente.
A Logo for America (Un logo per l’America)
Si tratta di un progetto a Times Square, a New York, che utilizza un’insegna
denominata
Spectacolor, posta sotto l’insegna della Minolta. Il mio progetto consiste
in un film che dura
un minuto e che è stato presentato ogni sei minuti, ventiquattro
ore al giorno, per un mese.
Comincia con la cartina degli Stati Uniti. Il progetto è collegato
al fatto che io sono nato in
Cile e quando sono arrivato a New York mi sono reso conto che tutti
dicono sempre
“America”, ma dicendo “America” si riferiscono agli Stati Uniti e non
a tutto il continente.
Quindi questa immagine resta visibile per sette secondi e dice “Questa
non è l’America”.
Ed è stato calcolato che in un mese l’hanno vista un milione
di persone. Poi compare la
bandiera degli Stati Uniti e la scritta “Questa non è la bandiera
americana”. Poi la parola
“America” riempie lo schermo e la lettera “R” al centro si riempie,
le due parti, il
semicerchio e il triangolo ruotano lentamente verso sinistra diventando
l’America, il
continente. Resta così per altri sette secondi e la parola “America”
scompare
completamente dallo schermo. Poi le parti tornano al centro dello schermo
come un unico
continente che comincia a girare. In questo modo il nord diventa sud
e il sud diventa nord e
l’asse è l’America Centrale. E la parola “America” va su e giù
da sinistra a destra. Poi si
ferma tutto per altri sette secondi sulla parola “America”.
L’avvenimento è stato citato in quasi tutti i quotidiani e i
periodici e molti programmi
televisivi ne hanno riferito; in un programma radiofonico trasmesso
in tutti gli Stati Uniti
(National Public Radio) il giornalista che è uscito per il servizio
ha intervistato la gente per
la strada chiedendo il parere sul progetto e la metà degli interpellati
ha detto “È contro la
legge, come può fare una cosa del genere?”
Museum
Questa è la capitale degli Stati Uniti, Washington, e la strada
principale è chiamata The
Mall, e da un lato c’è il Campidoglio dove ha sede il Senato.
All’altra estremità del Mall c’è
il Monumento a Washington. Questo viale, The Mall, è fiancheggiato
da edifici molto
importanti. Uno di essi è questo museo, il Museo Hirschhorn.
Sono stato invitato a tenere
una mostra e nell’analizzare il museo mi sono reso conto subito che
aveva una struttura da
bunker. È anche circondato da pareti molto alte, con telecamere
per la sorveglianza; si
tratta di una struttura molto, molto pesante. Questo museo risponde
all’idea che la maggior
parte delle persone ha della cultura negli Stati Uniti, ossia che la
cultura e l’arte devono
essere conservate in un luogo assolutamente sicuro, completamente isolato
dal resto del
mondo.
Questa immagine mostra che cosa stava succedendo a Washington quando
ho
cominciato a lavorare per la mia mostra. Era una celebrazione del ritorno
dei cosiddetti
eroi, dopo la cosiddetta Guerra del Golfo. La Guerra del Golfo è
il nome che è stato dato a
quell’orrore avvenuto in Iraq, un vero e proprio massacro. Le stime
parlano di 100.000 civili
uccisi senza che se ne sapesse nulla, e come ricorderete, tutto quello
che la stampa ci
mostrava erano dei video game. Ancora una volta qui vediamo la facciata
del museo verso
The Mall. Il museo ha un’unica finestra e questa è la stanza
dove volevo realizzare il mio
progetto, perché è il solo spazio in ci posso collegare
il mio lavoro con il mondo esterno.
Questo è ciò che si vede dalla finestra del museo: l’Archivio
di Stato — qui è custodita la
costituzione — il Ministero della giustizia e l’edificio sede dell’FBI.
Per prima cosa ho
dipinto tutta la finestra di vernice grigia lasciando solo sei piccole
aperture quadrate che
danno verso l’esterno. L’idea era di chiudere ancora di più
questa unica finestra in modo
da mettere meglio a fuoco la presentazione. Sotto ogni apertura ho
collocato un piccolo
specchio e davanti a ogni specchio ho previsto un visore luminoso con
un testo sul lato
anteriore e un’immagine su quello posteriore. Vedendo la stanza da
una certa distanza
notate solo la parola “MUSEUM”. Ho usato un carattere molto classico
con la “U” che
sembra una “V”. Avvicinandoci al locale cominciamo a guardare la finestra
e vediamo il
riflesso dell’immagine nello specchio. Nella prima guardiamo fuori
verso l’edificio della FBI
e all’interno vediamo un’immagine di una vittima della cosiddetta Guerra
del Golfo. E così
di seguito con altre aperture: fuori l’Archivio di Stato, dentro un’altra
vittima.
Ho contattato 37 agenzie fotografiche alla ricerca di immagini di vittime
della Guerra del
Golfo. Sono riuscito a trovarne solo qualcuna. Quindi in questo progetto
volevo collegare
l’esterno che è stato testimone di questa oscena celebrazione
di un massacro, con una
realtà ben diversa all’interno.
The Aesthetic Resistance (L’estetica della resistenza)
Questo è un museo di Berlino, chiamato Museo di Pergamo. Il Museo
di Pergamo è stato
costruito appositamente per ospitare questo altare, chiamato Altare
di Pergamo. E il fregio
attorno all’altare è stato eretto di fronte, tutt’attorno al
museo. Pertanto la ricostruzione è
assolutamente falsa perché in origine il fregio faceva parte
dell’altare e non si trovava di
fronte ad esso. Il governo turco reclama questo altare ormai da vent’anni,
perché gli
appartiene. Queste sono finestre di fronte all’altare.
Ho vissuto un anno a Berlino in quel periodo e mi sono reso conto di
una grossa
contraddizione: da un lato c’era molto razzismo contro gli immigrati,
per lo più immigrati
turchi, e nello stesso tempo mi aveva molto colpito la scoperta di
un museo costruito
appositamente per venerare un elemento della cultura turca. Ho creato
un’installazione con
insegne al neon e quattordici nomi di località dove nell’anno
precedente si erano verificati
attacchi contro gli stranieri. Era la prima volta che consentivano
a un artista di utilizzare i
gradini dell’altare. A Mölln, per esempio, una donna turca era
morta con le due figlie a
causa di un incendio appiccato dagli skinhead. A Rostock un gruppo
di skinhead aveva
attaccato un centro di soccorso e raccolta per rifugiati, e c’è
voluta una settimana prima
che la polizia finalmente intervenisse. Era quindi una specie di memoriale
delle vittime di
questo razzismo. Ho utilizzato anche le finestre su questa parete:
ho collocato fotografie in
bianco e nero dei dettagli del fregio e dei dettagli di violenza viva
e reale perpetrata fuori
dal museo. Così, per esempio, qui c’è un dettaglio di
un gruppo di skinhead che si
riconoscono per il modo in cui sono vestiti, per i pesanti stivali
neri; poi ho messo tutto
questo all’ingresso del museo. Qui c’è un’immagine di violenza
sul fregio, questo è un
piede sopra una faccia — il dettaglio è preso dal fregio. Questo
progetto è stato oggetto di
grande attenzione da parte dei mezzi di comunicazione tedeschi e queste
parole sono
diventate il segno di qualche cosa di molto importante mentre le immagini
sono state
pubblicate da tutti i quotidiani. Ecco il caso di un progetto pubblico
in uno spazio pubblico
in cui il lavoro circola attraverso i media.
Europa
Questo è un museo di Stoccarda. Mi hanno assegnato due spazi
ma ho lasciato il primo
completamente buio, come una specie di anticamera per raggiungere il
secondo locale.
Questo pezzo si chiama Europa e riguarda la guerra in Bosnia e l’indifferenza
dell’Europa
verso le sofferenze della Bosnia. L’ho fatto in Germania perché
concordo con una scuola di
pensiero secondo la quale, in parte, la colpa dell’inizio di questa
guerra ricade sulla
Germania, per il suo precoce riconoscimento della Croazia. Come vedete
ci sono sei
piccoli visori con immagini del fuoco davanti e immagini dall’altro
lato che si riflettono in
trenta specchi. Queste immagini di incendio danno l’idea della pulizia
etnica, ma sono
anche molto belle e affascinanti perché voglio che la gente
venga più vicino in modo da
trovarsi di fronte all’orrore. E poi spostandoci davanti agli specchi
ci troviamo faccia a
faccia con i riflessi che arrivano dall’altro lato dei visori. Dobbiamo
impegnarci fisicamente
per vedere, altrimenti non ci riusciamo. E le immagini che vediamo
sono sempre invertite,
frammentarie, parziali. Non possiamo comprendere la realtà nel
suo insieme e nella sua
complessità. Ecco le mani di un uomo che ha appena sepolto il
fratello e mostra alla
macchina fotografica le mani vuote. Come esempio del funzionamento
dello specchio,
ecco quello che vedete guardando l’immagine da qui (occhi) e spostandovi
invece verso
destra, per vedere questo (tutto il viso). Oppure qui vediamo questo
(mani) e avvicinandoci,
vediamo questo (facce). Ecco queste due donne molto anziane che cercano
di aiutarsi a
vicenda per attraversare una strada completamente distrutta. Come potete
vedere ho
utilizzato immagini di mani, mani tremanti, mani vuote, mani come segno
di solidarietà che
non è mai arrivata dal resto dell’Europa.
Contemporaneamente a questa installazione all’interno, ho realizzato
un progetto pubblico
all’esterno. Questo è un manifesto di dieci metri che dice:
“Le immagini hanno una
religione che anticipa i tempi, esse seppelliscono la storia”. Ci sono
anche cinque
bandiere della Comunità Europea, a mezz’asta in segno di lutto.
In Germania quando il
lutto è molto importante si appende un telo nero ai lati della
bandiera. Data la grande
visibilità del progetto pubblico centinaia di persone hanno
chiesto al museo chi fosse
morto. E la segreteria del museo rispondeva: “Trecentomila persone
in Bosnia”.
One Million Finnish Passport (Un milione di passaporti finlandesi)
I tre paesi scandinavi Svezia, Norvegia e Danimarca sono i più
generosi nell’aiuto ai paesi
in via di sviluppo. Ogni anno sono sempre i tre primi donatori nella
classifica per i
programmi sociali e di aiuto. Negli ultimi dieci anni hanno accolto
un milione di rifugiati che
sono diventati cittadini di questi paesi. Ma questo progetto si svolge
a Helsinki, Finlandia,
al Museo di Arte Contemporanea. Mi ha colpito scoprire che la Finlandia
è completamente
diversa dagli altri paesi scandinavi. I finlandesi hanno quella che
definiscono una “politica a
immigrazione zero”. Per ironia nell’anno in cui ho presentato questa
mostra la Finlandia
stava richiedendo di entrare nella comunità europea, così
ho ideato questo progetto
denominato “Un milione di passaporti finlandesi”. Come vedete i passaporti
sono dietro un
vetro di sicurezza perché le autorità hanno preteso che
la gente non potesse accedervi.
L’installazione misura circa dieci metri per dieci per ottanta centimetri
di altezza. E perché
un milione? Ho calcolato che in ogni paese europeo il venti per cento
circa della
popolazione è composto da stranieri o persone di origine straniera.
La Finlandia ha cinque
milioni di abitanti, quindi il venti per cento sarebbe un milione.
Come forse saprete la
Finlandia è un paese molto ricco con un territorio vastissimo.
Con la mia proposta volevo
porre i seguenti quesiti: chi saranno il prossimo milione di cittadini
finlandesi, ora che
stanno per entrare a far parte della comunità europea? Vogliono
restare isolani e isolati,
oppure vogliono accogliere sul loro territorio facce nuove, idee nuove,
colori nuovi?
L’illuminazione è stata studiata in modo tale per cui ci si
vede riflessi leggermente nel
vetro, così si vedono i passaporti attraverso la propria immagine.
Questa immagine mi
piace moltissimo, è una specie di mare dell’identità
in attesa di essere colmato. L’eco
sulla stampa è stata notevole e le reazioni non sono mancate.
La reazione più
sconvolgente è stata quella di alcune persone che sono tornate
al museo con i loro
passaporti e li hanno gettati al di là del vetro in segno di
solidarietà.
Camara Lucida (Camera chiara)
Questa è Catia, a Caracas, Venezuela, e questo è un nuovo
museo che era in costruzione
quando sono stato invitato a realizzare un progetto per la sua inaugurazione.
Questo
museo si trova a Catia, la zona più povera della città
di Caracas, una zona urbana priva di
istituzioni e strutture culturali. Tutte le case che vedete sono state
costruite dagli abitanti,
con le loro mani.
Hanno cominciato a costruire il museo in un parco e nel parco, accanto
al museo in
costruzione, c’era già un edificio sinistro che ospitava un
carcere, una delle peggiori
prigioni dell’America Latina. La comunità locale ha chiesto
per vent’anni al governo di
Caracas di demolire il carcere perché, tra le altre ragioni
ovvie, i prigionieri gettano oggetti
e urlano frasi oscene ai bambini nel parco. Ma invece di eliminare
il carcere, hanno deciso
di costruire un museo nel parco. Questa è una zona molto popolare
e poverissima. La
maggior parte delle attività commerciali si svolge quotidianamente
nelle strade. Sono stato
invitato a realizzare un progetto speciale per l’inaugurazione del
museo, un museo che era
rifiutato in blocco dalla comunità di Catia. Avrebbero preferito
un complesso sportivo. Ho
creato un progetto denominato Camara Lucida (Camera chiara) in omaggio
a Roland
Bathes e in omaggio alla lucidità della gente di Catia che ha
accettato di partecipare.
Questo è il primo giorno del progetto. Sono qui per parlare
con un gruppo di madri della
comunità di Catia e per spiegare il mio progetto. Abbiamo organizzato
un gruppetto di sei
persone per aiutarmi a distribuire agli abitanti di Catia mille apparecchi
fotografici usa e
getta. Siamo stati in trentasette istituzioni locali diverse, ospedali,
scuole, ecc., per
distribuire le macchine fotografiche e spiegare il progetto. Abbiamo
invitato la gente di
Catia a fotografare la loro comunità, gli amici, i genitori,
la scuola, in assoluta libertà.
Abbiamo chiesto che restituissero l’apparecchio fotografico, una volta
terminato il lavoro,
consegnandolo presso un piccolo ufficio allestito allo scopo, non proprio
nel museo ma
accanto, per la resistenza registrata nei confronti del museo stesso.
Questo è il giorno dell’inaugurazione. Mi è stato assegnato
tutto il secondo piano. Questa
immagine è di Rosa Morillo. Una volta restituito l’apparecchio
fotografico abbiamo lasciato
loro dieci giorni di tempo per tornare e scegliere le stampe, ma al
momento del ritiro delle
stampe abbiamo chiesto loro di sceglierne una che avrebbero voluto
vedere esposta
all’inaugurazione del museo. Volevo aprire la mostra con questa immagine
che suggerisce
un nuovo schema di riferimento. Vediamo poi una seconda immagine e
passiamo al
secondo piano. Arrivati al secondo piano la prima cosa che si vede
sono i nomi di tutti
partecipanti, e sulle due pareti laterali vediamo Catia. Quando abbiamo
distribuito i mille
apparecchi fotografici ci aspettavamo di vederne tornare forse un centinaio
e io ho
pensato che se ne avessi visti tornare un centinaio avrei fatto la
mostra. Ma su mille
macchine fotografiche ne sono state restituite settecentocinquanta.
Qualche settimana
dopo soltanto quattrocentosette persone sono tornate per scegliere
la loro immagine
migliore. Così la mostra si è inaugurata con quattrocentosette
fotografie scattate e scelte
dalla gente di Catia.
Non sono riuscito a resistere alla tentazione di fare anch’io qualche
cosa e ho creato
questa scultura con le carcasse delle macchine fotografiche e la scultura
è stata
denominata The Eyes of Catia (Gli occhi di Catia). Abbiamo dedicato
una parete alla
spiegazione del progetto per il pubblico e ai ringraziamenti alle istituzioni
che ci hanno
aiutato nella realizzazione. Abbiamo anche messo in mostra gli apparecchi
fotografici con
le relative etichette.
Non avevamo fondi a sufficienza per far stampare tutte le fotografie
nello stesso formato
così ho utilizzato quattro formati diversi da 150, 100, 30 e
20 centimetri. Io ho solo
progettato una sorta di griglia per inserire tutte le immagini che
però sono tutte disposte
casualmente, senza che io avessi fatto una selezione tra le buone e
le meno buone. Ogni
immagine è incorniciata con il vetro e completata dal nome del
partecipante. L’idea del
progetto era di offrire alla comunità l’occasione per conquistare
questo spazio, per
appropriarsi delle pareti di questa istituzione che veniva loro imposta.
Dopo la mostra la
comunità ha potuto far entrare due suoi membri nel consiglio
dell’istituzione. Come vedete
sono appese in modo casuale quindi qualche volta ci sono ritratti bellissimi
e poi magari
l’immagine di una montagna di rifiuti in una strada di Catia. Ora vi
mostro alcuni primi piani
di qualche immagine ripresa direttamente dalla gente di Catia, poi
leggerò i loro nomi.
Victor Herrera. La Prigione di Oswaldo Yanez. Questa è la carenza
di servizi a Catia di
Jimmy Alcides. I problemi dei senza tetto di Vicki Carrasquez. Catia
è la sola zona della
città in cui ci sono dei senza tetto. Questo è Ronald
Rosada che si è costruito una piccola
struttura sopra il letto. Queste sono di Franca Capobianco, Douglas
Yerxis, Jose Riva,
Domingo Gonzales.
All’inaugurazione cercavo le persone che avevano partecipato e le ho
fotografate accanto
al loro lavoro. Questa è una mamma con il figlio e il figlio
è ritratto qui con la maglietta
azzurra. Quest’altro bambino ha fotografato la sorella con in mano
un macchina fotografica.
La ragazza che vedete qui non ha scattato la foto ma era nella fotografia
e voleva posare
per me così eccola qui. Quest’ultima immagine è di Alejandro
Chivdathe, ed è una delle
mie preferite. Lo si vede mentre tira un pallone da calcio al fotografo,
un pallone che è il
simbolo del centro sportivo che avrebbero preferito avere, quindi lo
fa con rabbia ma nello
stesso tempo il suo gesto è completamente impotente.
Real Pictures (Immagini vere)
Questo è il lavoro più recente che ho realizzato e in
questo progetto ho concentrato le mie
forze degli ultimi due anni: riguarda il genocidio in Rwanda.
Questo è il testo proiettato sullo schermo all’ingresso del
museo: “Genocidio: atti
commessi nell’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo
nazionale, etnico, razziale
o religioso”. “Se il genocidio è una possibilità reale
del futuro, allora nessun popolo della
terra può sentirsi ragionevolmente certo di continuare ad esistere
senza l’aiuto e la
protezione delle leggi internazionali”. Hannah Arendt. “Il 6 aprile
1994 l’aereo che
trasportava il presidente rwandese Juvénal Habyarimana fu abbattuto
sopra Kigali. Nelle
dieci settimane che seguirono quello che accadde fu un genocidio. Si
ritiene che almeno
un milione di persone sia stato ucciso. Altri due milioni hanno cercato
rifugio in Zaire,
Burundi, Tanzania e Uganda. Altri 2 milioni circa sono stati dispersi
in varie zone del
Rwanda. Il mondo ha finto di non vedere le uccisioni perpetrate sistematicamente.
Infatti la
prima reazione delle Nazioni Unite ai massacri fu di approvare la Risoluzione
912 il 21
aprile, riducendo il contingente delle forze dell’ONU da 2500 a 270
unità. Quando furono
inviate truppe di paracadutisti francesi e belgi l’intento era solo
quello di permettere
l’evacuazione di tutti gli stranieri senza ulteriori traumi. La ragione
principale per cui la
comunità internazionale non intervenne subito fu dovuta alla
non volontà da parte europea e
americana di impegnarsi in modo massiccio in un’area priva di interesse
strategico.
L’attenzione dei mezzi di comunicazione fu infine catturata dall’esodo
di massa verso i
campi per rifugiati. Escludendo opportunamente discorsi di genocidio,
Washington e il
resto del mondo promisero di reagire di fronte al disastro umanitario
dei campi. Colera e
dissenteria si portarono via decine di migliaia di profughi, ma era
solo una frazione del
presunto numero di vittime del genocidio: un milione di individui.
Alfredo Jaar ha visitato Rwanda, Zaire e Uganda nell’estate del 1994.
Questa mostra è il
risultato del suo viaggio”. “Le immagini hanno una religione che anticipa
i tempi, esse
seppelliscono la storia”. Vicenc Altaio.
Questa mostra presenta più di cinquecentocinquanta fotografie
ma sono tutte incasellate in
scatole nere da archivio fotografico. Era uno spazio molto buio, quasi
religioso, con un
gran silenzio. Con queste scatole, usate come modulo, ho creato questi
monumenti quasi a
farne un memoriale per il popolo del Rwanda. La logica che sta dietro
a questo lavoro è la
seguente: penso che siamo bombardati da troppe immagini, non le vediamo
più. I mezzi di
comunicazione ci danno l’impressione di essere presenti ma quando spegniamo
il
televisore o chiudiamo il giornale ci resta un incredibile senso di
assenza. Qui allora ho
voluto lavorare al contrario, volevo cominciare con un’assenza nella
speranza di provocare
una presenza. La logica del discorso era: dimentichiamo tutto per un
secondo e
ricominciamo da zero. Cominciamo dall’inizio e pensiamo al significato
di una vita e di una
morte. La logica era che venivamo bombardati da immagini del Rwanda
ma ovviamente
non le vedevamo perché non abbiamo fatto nulla. Allora ho pensato
che rinchiudendole
dentro alcune scatole magari si vedranno meglio. Leggerò un
esempio: “Chiesa di
Ntarama, Nyamata, Rwanda, lunedì 29 agosto 1994. Queste fotografie
mostrano Benjamin
Musisi, 50 anni, rannicchiato nel vano di ingresso della chiesa tra
corpi sparsi, buttati a
terra nella luce forte del giorno. 400 uomini, donne e bambini Tutsi
che erano venuti qui a
cercare rifugio sono stati massacrati durante la messa domenicale.
Benjamin guarda
diritto verso l’obiettivo come se volesse registrare quello che l’apparecchio
fotografico
aveva visto. Ha chiesto di essere fotografato in mezzo ai morti. Voleva
dimostrare ai suoi
amici a Kampala, in Uganda, che le atrocità erano vere e che
aveva visto le conseguenze”.
Qualche volta alla fine di una sequenza, come in questo caso, vado
in una direzione più
soggettiva, e quasi poetica come: “Scattata cinque secondi dopo questa
immagine mostra
un bel cielo azzurro, uno scorcio delle cime degli alberi e una nuvola
bianca perfetta
sospesa sopra la chiesa. Il fetore della morte è lento a svanire”.
Accanto alla mostra
avevamo una saletta dove mostravamo che cosa aveva fatto la stampa
con queste
informazioni. C’erano libri sull’Africa, pubblicazioni delle ONG a
disposizione di chi ne
volesse prendere una copia, per aiutare il lavoro delle ONG in Rwanda,
e c’erano molte
riviste. Abbiamo offerto una spazio aperto ai commenti sulla mostra.
Questa è solo la
prima settimana. Ecco alcune riviste: Africa Report: “Rwanda: Troppo
poco? Troppo
tardi?” Altra rivista: Media Critic. Articolo di copertina: “Mancato
massacro”. The New York
Times Magazine con un servizio di Sebastiao Salgado: “Il killer della
tenda accanto” e
come sottotitolo “L’orrore surreale dei rifugiati in Rwanda”. Non è
surreale. Ecco vari
resoconti di Amnesty International e di altre organizzazioni per la
tutela dei diritti umani.
Questo progetto, intitolato Immagini vere è il progetto cui
facevo riferimento quando dissi
che mi aveva interessato il titolo La Generazione delle Immagini, perché
qui, come avete
visto, ho un problema reale con le immagini. E dopo questo progetto
sono rimasto fermo
per un anno, ero arrivato a un punto di svolta, perché per vent’anni
sono andato in vari
luoghi e ho fotografato cose e ho mostrato immagini con il mio lavoro,
ma ora ho
cominciato a nasconderle.
The Eyes of Gutete Emerita (Gli occhi di Gutete Emerita)
Vi mostrerò ora il mio ultimo progetto, sempre relativo al Rwanda.
Dovete attraversare
l’atrio e poi girare a sinistra per arrivare nello spazio a mia disposizione.
Questa è una
parete nera con una riga di testo bianco lunga 8 metri. Il testo è
dentro la parete ed è
illuminato: la luce passa attraverso il testo. Così la gente
entra e cammina per otto metri
molto lentamente in modo da leggere ed entra in un’altro locale. Il
testo recita: “Per cinque
mesi nel 1994 più di un milione di rwandesi, per lo più
membri della minoranza Tutsi, sono
stati sistematicamente trucidati mentre la comunità internazionale
ha chiuso gli occhi
davanti al genocidio. Le uccisioni erano in gran parte opera di milizie
Hutu, armate e
addestrate dai militari Hutu. A seguito di questo genocidio milioni
di Tutsi e di Hutu sono
fuggiti in Zaire, Burundi, Tanzania e Uganda. Molti restano ancora
nei campi per i rifugiati,
nel timore di nuove violenze che li attendono al rientro a casa. Una
domenica mattina in una
chiesa di Ntarama, 400 Tutsi, uomini, donne e bambini sono stati ammazzati
da uno
squadrone della morte Hutu. Gutete Emerita, 30 anni, stava assistendo
alla messa con la
famiglia quando è iniziato il massacro. Le hanno ucciso davanti
agli occhi a colpi di
machete il marito, Tito Kahinamura, 40 anni, e due figli, Muhoza di
10 anni e Matirigari di 7.
In qualche modo Gutete è riuscita a fuggire con la figlia Marie
Louise Unumararunga di 12
anni. Sono rimaste nascoste in una palude vicina per 3 settimane uscendo
solo di notte in
cerca di cibo. Gutete è tornata alla chiesa nella boscaglia
perché non aveva altro posto
dove andare. Quando parla della famiglia che ha perduto indica con
i gesti i cadaveri per
terra, che si decompongono al sole dell’Africa. Ricordo i suoi occhi,
gli occhi di Gutete
Emerita”. Così la gente deve camminare lungo la parete, legge
il testo e poi passa nella
stanza accanto. Questo è un tavolo luminoso di 6 metri per 6
metri, su cui si trovano un
milione di diapositive. Un milione perché cercavo una metafora
del milione di morti, e
questa mi sembra una fossa comune. Quando vi avvicinate al tavolo luminoso
vi rendete
conto che è sempre la stessa immagine ripetuta un milione di
volte. L’immagine mostra gli
occhi di Gutete Emerita. Si può prendere una diapositiva e guardarla
con una lente come
si vede qui. Mi interessano gli occhi del pubblico a un centimetro
dagli occhi di Gutete
Emerita. Voglio far capire qui che i suoi occhi hanno fatto da telecamera
in grado di
vedere qualche cosa che non potevamo vedere. Il punto è: Come
superare il vuoto tra i
nostri occhi e i suoi?
Per la serie di presentazioni alla conferenza La Generazione delle
Immagini vorrei
concludere con questi occhi, gli occhi di Gutete Emerita. Molte grazie.
Domande del pubblico:
Vorrei sapere come trova degli sponsor o come finanzia il suo lavoro?
All’inizio della mia carriera ho accettato tutti i sussidi e le borse
di studio possibili. Poi, una
volta raggiunto un certo livello come artista, le istituzioni hanno
cominciato a invitarmi e a
commissionarmi nuovi lavori. In questo senso mi sento veramente un
privilegiato perché
sono libero e talvolta ho anche i fondi necessari per svolgere il mio
lavoro. Devo dire che le
istituzioni non sono monolitiche, e qualche volta al loro interno si
riesce a trovare qualcuno,
una persona, che crede in te, e che vuole aiutarti a fare il tuo lavoro.
Lei è originario del Cile e ha lavorato per anni negli Stati
Uniti. Non intende tornare in Cile
e realizzare progetti nel suo paese?
Nei primi cinque anni dopo aver lasciato il Cile ho realizzato molti
progetti sul Cile e contro
la dittatura. Per questo motivo sono stato censurato nel mio paese
fino alla fine della
dittatura. Per esempio quando ero qui nella sezione Aperto della Biennale
di Venezia
nessuno in Cile ha pubblicato nulla in proposito, nemmeno perché
ero il primo e solo cileno
e latino-americano. Lo stesso è accaduto per Documenta l’anno
dopo, quando ero ancora
una volta il primo cileno e latino-americano presente con un proprio
progetto. Ma ora le
cose sono cambiate e abbiamo in programma una grande retrospettiva
del mio lavoro da
realizzare nei prossimi due anni.
Quali sono i confini tra intervento sociale e arte?
Citerò una frase di Jean-Luc Godard, regista che ammiro molto.
Disse: “Forse è vero che
dobbiamo scegliere tra etica ed estetica. Ma è anche vero che
qualunque cosa si scelga si
trova sempre l’altra alla fine del percorso. Perché la definizione
della condizione umana è e
la messinscena stessa”. Non vedo alcuna differenza tra etica ed estetica,
credo che tutto
ciò che facciamo è politica. Il termine “arte politica”
è stato usato come un’etichetta per
emarginare un piccolo gruppo di artisti che hanno qualche cosa da dire
contro il sistema.
Di norma rifiuto sempre di partecipare quando mi dicono che si tratta
di una mostra di
artisti cosiddetti politici. Mi sono sempre sentito eccezionalmente
privilegiato come
persona, perché come artista la società mi ha dato il
tempo per riflettere sulla società, per
porre dei quesiti e magari anche per cercare la risposta. Ma al privilegio
si accompagna la
responsabilità. E io penso che oggi il mondo della cultura sia
l’ultimo spazio rimasto aperto
per fare questo genere di cose. Non soltanto nelle arti visive, ma
nel cinema, nel teatro,
nella letteratura, nella danza, nella musica.
Quali sono i suoi rapporti con il Terzo Mondo?
Io rifiuto l’espressione “terzo mondo”: il mondo è uno. In altri
termini: Siamo società
differenti e queste società hanno un diverso livello di sviluppo,
in differenti aree di sviluppo.
Per esempio gli Stati Uniti sono al primo posto nel mondo nella tecnologia
dei computer.
Noi possiamo affermare che in quello specifico settore gli Stati Uniti
sono più progrediti,
diciamo, dell’Irlanda. Ma in un altro campo, per esempio la musica,
a mio avviso, i paesi
africani come il Senegal o il Mali producono musica molto più
creativa, molto più
stimolante della maggior parte della musica che oggi si fa nel resto
del mondo. Possiamo
allora dire che la musica del Mali o del Senegal oggi è molto
più sviluppata che, diciamo,
la musica italiana. Nel mio lavoro cerco di colmare i divari esistenti
tra i diversi mondi che
sembrano molto lontani ma che sono invece profondamente legati. Cerco
di costruire un
ponte, di creare dei legami, di metterli in luce. Ma il più
delle volte non ci riesco, per questo
continuo a lavorare.