Credo che il mio lavoro non sia molto conosciuto in Italia, preferisco quindi fare una rapida carrellata attraverso alcuni interventi che si ritengo significativi, cercando cosi' di privilegiare un'idea complessiva della sua traiettoria. Una "agopuntura" su alcuni dei punti significativi. Faro' una distinzione che si basa sullo spazio usato: da una parte quello “protetto” del sistema dell’arte
(le gallerie, i musei,
ecc.); dall’altra quello “pubblico”, non definito, come può
essere una strada, la televisione...
Degli spazi comunque più duri e diretti.
Questo percorso non potrà che essere veloce per cui in qualche
maniera sarà riduttivo
rispetto ai progetti descritti.
Hoy: Proyecto a través de Latinoamérica
Vorrei partire da Hoy: Proyecto a través de Latinoamérica,
realizzato tra la fine del 1975 e
l’inizio del 1976.
Attraverso un percorso ho cercato di stabilire un rapporto tra me e
le culture e le città in cui
facevo le “azioni”.
Le città erano: Buenos Aires, San Paolo, Caracas e Mexico D.F.
Da un parte l’azione consisteva nella mia presenza fisica, con una
proiezione sul petto e un
microfono che mi amplificava la respirazione — elementi base sull’idea
di esistenza —;
dall’altra parte c’erano una serie di giornali della città in
cui mi trovavo e che
rappresentavano lo spettro della stampa locale. Il pubblico stava in
mezzo. Sono partito da
Hoy: Proyecto a través de Latinoamérica perché
al suo interno ci sono due elementi su cui
è basato gran parte del mio lavoro: l’informazione personale,
in questo caso rappresentata
dalla presenza fisica, e l’informazione pubblica costituita dai media
(i giornali, la
televisione, il sistema di comunicazione), in questo caso la stampa.
Media Eyes
Media Eyes è un intervento del 1981 che ho realizzato a Cambridge
in Massachusetts in
collaborazione con la fotografa Anne Bray. Abbiamo utilizzato un cartellone
pubblicitario
situato in una strada molto frequentata. Su di esso abbiamo messo la
domanda: “What are
we looking at?” (Che cosa stiamo guardando?). Di giorno si vedeva il
primo piano di una
persona con degli occhiali; la sera all’interno degli occhiali proiettavamo
delle immagini
(due carousel paralleli di 80 diapositive che venivano lasciate per
circa 20 secondi
ciascuna). Le immagini erano dettagli di foto pubblicitarie che evidenziavano
come questo
sia un sistema frammentario.
haute CULTURE
haute CULTURE è un progetto che ho realizzato per la prima volta
a Montpellier nel 1983,
al Musée Fabre (specializzato in pittura e scultura del XVIII
e XIX secolo) e al centro
commerciale Poligone (uno spazio intrinsecamente generico, sia sotto
l’aspetto
commerciale che sotto quello architettonico). Sul manifesto per questo
progetto — che è
stato affisso per la città — ho affiancato le immagini dei due
luoghi creando così una
relazione tra due spazi che generalmente non vengono associati tra
di loro.
Nel museo il dispositivo consisteva in un’altalena con un monitor su
ciascuno dei lati: in uno
c’erano delle immagini molto rapide, quasi violente, di una scala mobile
del centro
commerciale, mentre nell’altro scorrevano in un percorso molto lento
quindici cornici di
altrettanti quadri della collezione del museo. Nel centro commerciale
il dispositivo era lo
stesso ma la posizione dei monitor era opposta: se nel museo il monitor
con le immagini
del centro commerciale era in alto, nel centro commerciale era in basso,
rovesciando la
relazione convenzionale tra le due istituzione. Volevo creare un contrasto
tra il metallo della
scala mobile e l’oro o l’argento delle cornici, tra la velocità
e il rallentamento, il rumore e il
silenzio. Ho voluto, insomma, mettere insieme due spazi che la gente
di solito non mette in
relazione, ma, allo stesso tempo, con queste altalene ho anche voluto
parlare e mettere in
discussione i concetti di cultura popolare e di cultura alta e dei
loro valori mutevoli. Credo
che museo e centro commerciale si configurino come due ambienti simbolici
di tutte le
città e che siano luoghi molto rappresentativi dello spazio
in cui viviamo, nonostante siano
molto marcati dal tempo in cui i sono stati costruiti. Ho realizzato
una versione differente di
questo lavoro in un centro commerciale di Los Angeles e all’ICA (Institute
of Contemporary
Art) di Boston. In questo caso l’altalena invece di essere statica
era munita di un
meccanismo che le dava movimento: in 30 minuti faceva un ciclo.
Era un modo di affrontare la diversità della situazione tra
Europa e Stati Uniti in rapporto
alla velocità. È evidente che c’era una certa ironia
nel fatto che negli Stati Uniti, e
specialmente a Los Angeles, non ci si muove più a piedi, per
cui tanto valeva che il Museo
fosse quello di Boston e che per arrivarci ci volesse l’aereo.
Exposición
Voglio ritornare ora in uno spazio “protetto”. Exposición è
un progetto dell’85 che ho
realizzato alla galleria Fernando Vijande di Madrid, costituito da
nove tableaux. Il primo era
realizzato con la luce emessa da un proiettore a 16 mm. Il secondo
era una serie di 8
incisioni in bianco, presentata in maniera sistematica e convenzionale.
Poi c’era una serie
di 15 disegni, anche loro bianchi. Un trittico astratto, bianco. Un
cartellone pubblicitario
senza pubblicità. Una serie di 12 fotografie le cui cornici
e passpartout inquadravano
porzioni del muro sottolineando il valore di scambio della galleria.
Una proiezione di
diapositive (il cui rumore assieme a quello del proiettore del film
costituiva la colonna
sonora della mostra) e infine una cornice del XIX secolo. Ciascuno
di questi tableaux
aveva una forma specifica di illuminazione. Era il grado zero della
rappresentazione e
dell’informazione. Quello che mi interessava di più era la semplice
presentazione
dell’immagine, quello che significa una mostra, e quello che significa
uno spazio
espositivo. In retrospettiva questo progetto è l’inizio di una
serie di lavori che esplorano gli
usi e i valori degli spazi in relazione all’architettura e ai media.
Dopo un’opera come Exposición dovevo cambiare registro perché
non si poteva fare un
lavoro altrettanto nudo e scarno. Per questo c’è voluto del
tempo.
Quarto do fundo
Ho realizzato Quarto do fundo (letteralmente: magazzino) durante un
periodo in cui ho dato
lezioni all’Università di San Paolo in Brasile. Entrando nell’edificio
della galleria Luisa
Strina c’era un monitor sulla scala su cui si vedevano delle immagini
riprese, da una
telecamera a circuito chiuso, negli spazi privati della galleria: il
magazzino e l’ufficio del
direttore. La galleria era vuota, mentre una luce accesa enfatizzava
i due spazi privati.
Volevo presentare lo spazio che normalmente non è accessibile
al pubblico, il luogo di
decisione, di “potere”, all’interno di uno spazio culturale.
The Board Room
The Board Room continua la serie di lavori che esplorano l’uso e la
funzione
dell’architettura, ed è una metafora sull’idea della sala del
consiglio, uno spazio consueto
all’interno della situazione istituzionale e corporativa. Anche uno
spazio segreto e
misterioso di decisione: non si sa esattamente cosa possa succedere
in The Board Room,
tra quella tavola e le 13 sedie. Uno spazio oscuro, tenebroso, con
un tappeto rosso e 13
ritratti di leader religiosi che si sono serviti dei media. Ciascun
ritratto, con una cornice
tradizionale, aveva un monitor al posto della bocca e in quel video
scorrevano le immagini
con i loro discorsi registrati. Le relazioni di queste personalità
rappresentavano lo spettro
religioso in Nord America: la necessità di credere, con l’aiuto
dei media, si trasformava in
un gran business.
Stadium
Proseguendo nell’analisi degli elementi mediatici credo che lo stadio
sia un elemento
molto importante nella cultura urbana. Se il museo è il simbolo
della cultura alta così lo
stadio può essere preso a simbolo della cultura popolare. Storicamente
ha una funzione
che in Italia è molto conosciuta dato che questa tipologia di
edifici nasce con la cultura
greca e romana. Ho utilizzato una serie di immagini di stadi dall’antichità
ai nostri giorni. La
sua trasformazione nel tempo è evidente, anche se la forma rimane
più o meno la stessa.
Ho cercato di sottolineare come lo stadio fosse un luogo di spettacolo,
sport, ma anche di
come la religione e la politica avessero la loro importanza. Questo
“contenitore” offre
spettacolo ed è uno strumento di controllo: il pubblico è
allo stesso tempo consumatore e
prodotto. L’installazione era costituita da un colonnato ellittico
al cui interno (in cui non si
poteva accedere ma che si poteva osservare dall’esterno), su una superficie
di sabbia,
c’era una proiezione video che ruotava, con delle immagini di archivio
del pubblico. Ai
quattro angoli esterni del colonnato si proiettavano delle diapositive
organizzate secondo
quattro principi: attività, arredamento, simboli, architettura.
Un collage di suoni di attività di
stadi attraverso la storia era la colonna sonora che, più tardi,
è stata registrata su
un’edizione in compact disk. Stadium è un lavoro che mantiene
intatta la struttura ma che
varia alcuni elementi a seconda del contesto. Una delle sue rielaborazioni
l’ho presentata a
Berlino nel 1993. Lì ho chiaramente enfatizzato il ruolo che
il suo stadio ha incarnato negli
anni Trenta, sottolineandone l’utilizzazione che ne ha fatto il nazismo
durante le olimpiadi.
Come in haute CULTURE il poster era un elemento integrante del progetto,
così in Stadium
IX ho realizzato un supplemento domenicale all’interno del quotidiano
Der Tagesspiegel
che sostituiva il catalogo. Io stesso l’ho disegnato graficamente,
rielaborando il design del
giornale. La gente trovava questo inserto che parlava dello stadio
dal punto di vista
culturale, sociologico, politico e critico; non mi interessava quindi
produrre un’informazione
strettamente legata all’aspetto artistico.
Words: The Press Conference Room
Proseguendo nel tragitto delle installazioni di “media architecture”,
(architettura mediatica)
iniziato con Exposicion, un altro degli spazi definiti dall’uso che
ho analizzato è quello delle
sale per le conferenze stampa. In Words: The Press Conference Room
(La sala della
conferenza stampa) si enfatizzano il podio e i microfoni che appaiono
come punto centrale.
L’assenza dell’oratore è sottolineata da uno spot luminoso.
I leader appaiono invece in una
televisione dall’altra parte della stanza, opposta al podio. I due
elementi (podio e
televisione) sono collegati da un tappeto fatto di prime pagine di
giornali. La colonna
sonora è realizzata con discorsi di personaggi pubblici che
all’inizio si sentono
chiaramente ma, poco a poco, diventano incomprensibili distruggendosi
a vicenda. Questa
trasformazione è simile alla deformazione del suono e dei suoi
significati che avviene in
una arena pubblica, politica. Ho fatto alcune varianti di questa
installazione e, a seconda
dello spazio e del contesto, cambiavano principalmente giornali e discorsi.
The Limousine Project
Un altro lavoro che continua ad approfondire l’idea di “media architecture”
è The Limousine
Project. Si tratta di un progetto nello spazio pubblico che definisco
come “city specific”
(letteralmente: specifico alla città, in questo caso New York).
Ho usato una limousine come
elemento emblematico di una metropoli come New York dove questa automobile
rappresenta uno status symbol, e ne ho cercato di cambiare il senso.
Questa macchina
girava per la città con delle immagini proiettate sui finestrini.
Immagini dell’industria del
consumo, sottolineate da parole critiche. Voglio ricordare che normalmente
le limousine
hanno vetri scuri che non lasciano intravedere chi c’è dentro,
lasciando l’identità dei
passeggeri avvolta nel mistero. Uno spazio privato e segreto. La limousine
ha girato per la
città per sei settimane, passando dal Palazzo dell’ONU (lo spazio
politico), a Wall Street
(lo spazio economico), a zone di club e night (lo spazio dello spettacolo).
Beetween The Frames: The Forum
Con Beetween The Frames: The Forum si ritorna in uno spazio protetto.
Si tratta di una
costruzione divisa in sette stanze, illuminate con sette colori diversi,
ciascuna un capitolo
che rappresenta un elemento del sistema dell’arte: i mercanti, le gallerie,
i collezionisti, i
musei, i critici, i media e finalmente un epilogo in cui alcuni artisti
esprimono le proprie
opinioni sul sistema stesso. Lo spazio centrale ribalta il concetto
di “panopticum”, infatti è il
pubblico che si trova in una posizione di controllo. In ogni stanza
c’era un video con delle
interviste a vari protagonisti del settore (galleristi, direttori di
museo, collezionisti, ecc.).
Queste interviste erano intervallate da un elemento metaforico “open
visuals”, correlato con
il ruolo rappresentato: ad esempio alle immagini dei critici si alternavano
delle onde del
mare, ai collezionisti la borsa di Tokyo, ai media un ascensore nella
città di Colombus in
Ohio, alla galleria un treno programmato senza conducente a Vancouver.
Questo è un
lavoro sui ruoli e l’importanza del mercato che ho realizzato in dieci
anni e che rappresenta
una situazione specifica agli anni Ottanta.
CEE Project
Ritornando allo spazio pubblico ho realizzato un lavoro sull’idea di
Comunità Europea. Si
tratta di un tappeto con dodici stelle (che rappresentano le dodici
nazioni che la
componevano) al cui interno c’è una moneta per ciascun Paese.
Il tappeto è stato
presentato in uno spazio pubblico (non necessariamente luoghi d’arte)
di ogni Paese della
Comunità Europea e in questo modo assumeva un valore d’artefatto
e anche un valore
d’uso: d’uso perché nella gerarchia dell’arte il tappeto ha
solo un valore come “arte
applicata”, antropologico (non che sia d’accordo con questa gerarchia
ma questa è
l’interpretazione che generalmente le si dà), ma che qui assume
un valore artistico.
Parallelamente l’uso di quest’opera in uno spazio pubblico mette in
questione l’idea di
percezione, uso, comportamento, design e di esposizione e l’idea di
come i simboli
vengano percepiti. Con CEE Project si sottolineava la relazione fra
il concetto di identità
nazionale e di valore economico.
The File Room
The File Room è un progetto abbastanza recente, che ha una vita
parallela su internet, e
che per alcuni aspetti continua l’analisi di “media architecture”.
Questo lavoro è stato
presentato per la prima volta al Cultural Center di Chicago nel 1994
(un’antica biblioteca
pubblica) e parte dalla volontà di mettere in discussione l’idea
di censura culturale. Ho
costruito uno spazio apparentemente repressivo, kafkiano, appartenente
alla burocrazia, al
controllo, con 800 archivi metallici. Otto Macintosh collegati con
internet (e un server)
fornivano l’accesso a un archivio in rete composto da casi di censura
sulla cultura. In
questo modo ho cercato di ribaltare il ruolo di questo spazio fornendo
la possibilità di
accedere ad una informazione alternativa. Questa “finestra” aperta
su internet crea lo
spazio per un dialogo e per lo scambio di idee. L’archivio in se stesso
è tuttora attivo ed
accessibile su internet. Questo progetto è nato da un episodio
personale: una programma
televisivo, commissionatomi dalla TV spagnola, che ho portato a termine
ma che non è
stato mai trasmesso. Sentendomi frustrato per essere stato soggetto
a una forma di
censura ho pensato che fosse importante reagire creando un lavoro che
cercasse di
esorcizzare la mia frustrazione e che desse anche ad altre persone
la possibilità di parlare
di altri episodi di censura. The File Room consiste quindi sia in un
sito su internet che in
una installazione da cui si può accedere al sito. Le pagine
sul world wide web sono
organizzate con una serie di entrate, un search (tasto di ricerca),
delle istruzioni,
un’introduzione, delle definizione di censura e l’archivio dei casi
(organizzato per
geografia, storia, soggetto, media). Si può intervenire su questa
banca dati ed aggiungere
altre informazioni. C’è inoltre un registro delle persone che
visitano il sito (guest book).
Personalmente credo che, mentre prima la censura si manifestava in
forme evidenti ed
esplicite, ora ha preso forme meno chiare e più sottili, dato
che oggi i sistemi di
organizzazione e repressione sociale sono più complessi. Abbiamo
cominciato con 400
casi, da Socrate fino ad oggi. Da lì in avanti il lavoro ha
una vita propria che lo trasforma e
lo cambia. Un altro aspetto che mi sembra interessante è la
messa in discussione dell’idea
d’autore, proprio perché con il tempo questa banca dati si raffina
e assume altre
prospettive. Credo che questo lavoro abbia ragione di esistere proprio
nel suo essere
collettivo.
Sala de Control
È la prima volta che parlo di questo lavoro che ho realizzato
all’interno di un’esposizione
divisa in cinque parti intitolata Present y Futurs. Arquitectura a
les Ciutats, parte di un
congresso internazionale di architettura al CCCB (Centre de Cultura
Contemporania de
Barcelona) di Barcellona. Le cinque sezioni erano: Mutacions, Abitacions,
Fluxus,
Containers, Terrain vague. In ogni sezione c’era un progetto di architettura
e di urbanistica
sulla città in trasformazione. Il mio intervento era all’interno
della sezione Mutacions. Sono
partito da uno spazio archetipo, la stanza di controllo del CCCB, e
l’ho metaforicamente
replicato nell’esposizione. All’interno di questo spazio c’è
un quadrato di nove monitor, tre
dei quali trasmettono delle immagini di tre zone della città
riprese da telecamere situate sul
tetto. Le zone erano il Montjuic, la città olimpica e il Raval
(quest’ultimo il quartiere dove si
trova il CCCB). Queste tre aree rappresentano delle zone di sviluppo,
trasformazione e
“gentrification” della nuova Barcellona. Gli altri tre monitor trasmettevano
immagini interne
ed esterne dell’edificio stesso, una costruzione emblematica, la Casa
de la Caritat,
recentemente ricostruita. Gli ultimi tre monitor trasmettono immagini
della mostra e uno dei
tre trasmetteva esclusivamente immagini dell’installazione stessa.
A queste nove serie di
immagini si aggiungeva un monitor con i commenti di alcuni residenti
delle tre aree
(Montjuic, città olimpica, Raval) che esprimevano la propria
opinione sui luoghi in cui
vivevano e che usavano in prima persona. Uno schermo con una retroproiezione
trasmetteva immagini al rallentatore di esplosioni e distruzione di
edifici, riprese durante le
opere di trasformazione dei tre quartieri. Tutto questo veniva riportato
all’interno della Sala
de Control: il pubblico diventava il “vigilante”. In un certo senso
si tratta di invertire la
situazione di controllo. In una città dove l’architettura è
stata sempre molto importante
l’architetto rappresenta un certo potere: il suo ruolo dovrebbe includere
un aspetto
costruttivo e critico. Penso che quest’ultimo si sia perso in cambio
di valori intrinsecamente
economici e di interessi. Con Sala de control volevo restituire al
cittadino (il pubblico nella
mostra) il controllo della sua città. Volevo che non fosse più
un poliziotto o un militare a
vigilare ma che (all’interno di una mostra di architettura) fosse la
città stessa che si
autovigilasse. La sala di controllo diventava pubblica e la sua funzione
ribaltata.
On Traslation
L’ultimo progetto di cui parlerò è ancora in corso e si
chiama On Traslation. Credo che
viviamo in una civiltà totalmente tradotta non solo verbalmente,
ma in tutti i sistemi di
comunicazione e rappresentazione (includendo le nuove tecnologie e
i media).
On Translation vuole esplorare tutti questi territori diversi. Una
prima presentazione è stata
fatta con On Translation: The Pavilion, a Helsinki nel 1994. Con On
Translation: The Games
ho trasformato lo spazio della galleria in una cabina di traduzione.
Il traduttore è sempre un
personaggio “occulto”: non si vede, è invisibile e mi interessava
rimetterlo al centro, in una
cabina ingrandita con una sua proiezione. Era una specie di omaggio
al traduttore, alla sua
solitudine: il traduttore sembra che non esista invece è un
elemento importante e a volte si
assume delle grandi responsabilità.
Domande del pubblico:
Il tuo lavoro si basa su un discorso aperto, anche in termini spaziali,
ma ho sempre
considerato la galleria o il museo luoghi che per definizione chiedono
dei lavori “conclusi”.
Un risultato insomma. Questo credo sia una limitazione per chi cerca
di fare lasciare
aperte delle porte — anche all’interno delle istituzioni — come hai
fatto con il tuo lavoro.
Riesci a lavorare bene anche con le istituzioni o preferisci lavorare
fuori?
Vedo le due cose come complementari. Credo che lavorando negli spazi
pubblici a volte ci
si possa perdere e qualche volta sento il bisogno di ritornare in uno
spazio “protetto” per
approfondire il lavoro. È un paradosso: il lavoro si vede più
nello spazio pubblico ma non
c’è feed back, nessuno ti dice niente. Metti un video in tv,
fai un intervento sulla strada, la
gente lo vede, ma non ti ritorna indietro né una critica né
un’opinione, mentre in uno spazio
“protetto” si riesce a instaurare un dialogo. A volte un dialogo approfondito.
Per questo
credo che sia necessario continuare ad avere questo doppio binario
su cui muoversi. Per
quanto riguarda l’apertura che sottolineavi nel mio lavoro, credo che
effettivamente sia
molto importante. Una volta, come mio intervento, al Museo Reina Sofia
di Madrid, ho
semplicemente aperto le finestre del museo. Normalmente aprire le finestre
in un museo è
“difficile”; in un primo tempo il direttore si era opposto. Volevo
incorporare nel museo il
suono della strada, la sensazione di freddo che veniva dall’esterno.
Questo lavoro mi
sembra emblematico per affermare che mi interessa molto l’idea di apertura.
Quanta gente visita The File Room e lo rende attivo?
Ho fatto il lavoro ma non vorrei fare la sociologia del lavoro. Così
non so quante persone
abbiano visto la limousine o quanti siano le persone che hanno visto
il mio tappeto della
CEE. Naturalmente si può sapere quanti sono stati gli accessi
di The File Room, ma
veramente non mi interessa, anche perché, in un certo senso,
sarebbe esercitare una
forma di controllo analoga all’uso dello share per la televisione o
dei voti per i politici. Direi
comunque che è un lavoro abbastanza popolare e frequentato.
Ma ti ripeto, non ho mai
voluto sapere esattamente le cifre.
Il primo lavoro che hai mostrato riguardava alcune città sudamericane.
Non credi che ci sia
una contraddizione tra regimi militari, che in quel momento avevano
il potere, e spazio
pubblico, che di fatto non era pubblico?
Questa contraddizione mi sembra emerga ancora di più pensando
all’uso dei giornali (che
naturalmente erano di regime) che tu hai fatto nell’installazione.
Credo che quel lavoro debba essere preso nel suo valore metaforico:
il pubblico si trovava
tra la mia presenza (l’informazione personale) e i media (l’informazione
pubblica). Il
giornale era una forma accessibile e pratica per rappresentare l’universo
dei media; in
quel momento lo spazio pubblico nell’America Latina era uno spazio
“ripreso” perché
aveva un’informazione controllata. In Argentina e nel Brasile la stampa
era diventata
illegale e questi giornali erano rappresentativi dell’intero spettro
ideologico. Mi interessa
cercare di rendere visibile le cose che normalmente sono invisibili,
occulte. Il retro
dell’immagine. Leggere i significati tra le righe.
Nel tuo lavoro affiora sempre una dimensione politica, morale...
...Preferirei dire etica più che morale...
Vorrei sapere se, al di là delle giuste osservazioni spaziali
ed estetiche che hai fatto, nel
tuo lavoro ci sia una connotazione politica (anche pensando alla situazione
politica
spagnola nel momento in cui hai cominciato a lavorare)?
Credo che ci sia un elemento percettivo, quello con cui si guarda il
lavoro, il primo contatto,
poi c’è un elemento di informazione e di riflessione che può
essere differente per ognuno.
Credo che sia importante relazionarsi con le cose e capire come arrivano
attraverso i
sensi. I contenuti sono recepiti in modi differenti per ognuno perché
ognuno ha un differente
sistema di informazione dovuto a un differente background. Comunque
sono evidenti le
preoccupazioni sociali e politiche.
Nell’introduzione si diceva che una delle caratteristiche del suo lavoro
è la fedeltà al
progetto indipendentemente dal media usato. Mi chiedevo se questo avviene
anche con un
media così potente come internet? Non crede che questi media
superino poi qualsiasi
progettualità che le si voglia applicare?
Credo che per usare internet è necessario che i partecipanti
abbiano una certa coscienza:
in The File Room si parlava della censura culturale e per me era importante
non
considerare questo un lavoro finito lasciando aperta la possibilità
dell’interazione.
Considero la partecipazione delle persone fondamentale per il lavoro
stesso. Non penso
che si possa presentare un lavoro sulla censura e poi lasciarlo chiuso.
Dovrei parlare al
plurale di questo progetto perché molte persone vi hanno lavorato
e lo si vede dai
ringraziamenti che appaiono sulle pagine. Credo che i ringraziamenti
alla fine di un lavoro
siano molto importanti, perché spiegano molto della procedura
che ci sta dietro. Per The
File Room la lista dei crediti è molto lunga.
Quando fai un progetto su internet è normale che il lavoro possa
prendere delle dimensioni
che non sono previste. In questo momento sto lavorando su un altro
progetto su internet
sulla traduzione. Questo è un lavoro che è partito proprio
da queste considerazioni che
avevo fatto su The File Room.
Comunque la parte di investigazione, preparazione e progettazione di
un lavoro mi prende
molto tempo: ci sono lavori che ho realizzato dopo dieci anni dalla
loro prima idea. È
evidente che porto avanti più progetti insieme. Spesso lavoro
in una situazione ibrida,
analoga a come lavora un regista per un film o un architetto con il
suo studio, distante dal
classico lavoro solitario dell’artista, per progetti complessi lavoro
con delle altre persone.
Fondamentalmente quello che rivendico è il concetto che sta
alla base del progetto.