A n t o n i   M u n t a d a s

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Credo che il mio lavoro non sia molto conosciuto in Italia, preferisco quindi fare una rapida carrellata attraverso alcuni interventi che si ritengo significativi, cercando cosi' di privilegiare un'idea complessiva della sua traiettoria. Una "agopuntura" su alcuni dei punti significativi. Faro' una distinzione che si basa sullo spazio usato: da una parte quello “protetto” del sistema dell’arte (le gallerie, i musei, ecc.); dall’altra quello “pubblico”, non definito, come può essere una strada, la televisione...
Degli spazi comunque più duri e diretti.
Questo percorso non potrà che essere veloce per cui in qualche maniera sarà riduttivo rispetto ai progetti descritti.

Hoy: Proyecto a través de Latinoamérica

Vorrei partire da Hoy: Proyecto a través de Latinoamérica, realizzato tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976.
Attraverso un percorso ho cercato di stabilire un rapporto tra me e le culture e le città in cui facevo le “azioni”.
Le città erano: Buenos Aires, San Paolo, Caracas e Mexico D.F.
Da un parte l’azione consisteva nella mia presenza fisica, con una proiezione sul petto e un microfono che mi amplificava la respirazione — elementi base sull’idea di esistenza —; dall’altra parte c’erano una serie di giornali della città in cui mi trovavo e che rappresentavano lo spettro della stampa locale. Il pubblico stava in mezzo. Sono partito da Hoy: Proyecto a través de Latinoamérica perché al suo interno ci sono due elementi su cui è basato gran parte del mio lavoro: l’informazione personale, in questo caso rappresentata dalla presenza fisica, e l’informazione pubblica costituita dai media (i giornali, la televisione, il sistema di comunicazione), in questo caso la stampa.

Media Eyes

Media Eyes è un intervento del 1981 che ho realizzato a Cambridge in Massachusetts in collaborazione con la fotografa Anne Bray. Abbiamo utilizzato un cartellone pubblicitario situato in una strada molto frequentata. Su di esso abbiamo messo la domanda: “What are we looking at?” (Che cosa stiamo guardando?). Di giorno si vedeva il primo piano di una persona con degli occhiali; la sera all’interno degli occhiali proiettavamo delle immagini (due carousel paralleli di 80 diapositive che venivano lasciate per circa 20 secondi ciascuna). Le immagini erano dettagli di foto pubblicitarie che evidenziavano come questo sia un sistema frammentario.

haute CULTURE

haute CULTURE è un progetto che ho realizzato per la prima volta a Montpellier nel 1983, al Musée Fabre (specializzato in pittura e scultura del XVIII e XIX secolo) e al centro commerciale Poligone (uno spazio intrinsecamente generico, sia sotto l’aspetto commerciale che sotto quello architettonico). Sul manifesto per questo progetto — che è stato affisso per la città — ho affiancato le immagini dei due luoghi creando così una relazione tra due spazi che generalmente non vengono associati tra di loro.
Nel museo il dispositivo consisteva in un’altalena con un monitor su ciascuno dei lati: in uno c’erano delle immagini molto rapide, quasi violente, di una scala mobile del centro commerciale, mentre nell’altro scorrevano in un percorso molto lento quindici cornici di altrettanti quadri della collezione del museo. Nel centro commerciale il dispositivo era lo stesso ma la posizione dei monitor era opposta: se nel museo il monitor con le immagini del centro commerciale era in alto, nel centro commerciale era in basso, rovesciando la relazione convenzionale tra le due istituzione. Volevo creare un contrasto tra il metallo della scala mobile e l’oro o l’argento delle cornici, tra la velocità e il rallentamento, il rumore e il silenzio. Ho voluto, insomma, mettere insieme due spazi che la gente di solito non mette in relazione, ma, allo stesso tempo, con queste altalene ho anche voluto parlare e mettere in discussione i concetti di cultura popolare e di cultura alta e dei loro valori mutevoli. Credo che museo e centro commerciale si configurino come due ambienti simbolici di tutte le città e che siano luoghi molto rappresentativi dello spazio in cui viviamo, nonostante siano molto marcati dal tempo in cui i sono stati costruiti. Ho realizzato una versione differente di questo lavoro in un centro commerciale di Los Angeles e all’ICA (Institute of Contemporary Art) di Boston. In questo caso l’altalena invece di essere statica era munita di un meccanismo che le dava movimento: in 30 minuti faceva un ciclo.
Era un modo di affrontare la diversità della situazione tra Europa e Stati Uniti in rapporto alla velocità. È evidente che c’era una certa ironia nel fatto che negli Stati Uniti, e specialmente a Los Angeles, non ci si muove più a piedi, per cui tanto valeva che il Museo fosse quello di Boston e che per arrivarci ci volesse l’aereo.

Exposición

Voglio ritornare ora in uno spazio “protetto”. Exposición è un progetto dell’85 che ho realizzato alla galleria Fernando Vijande di Madrid, costituito da nove tableaux. Il primo era realizzato con la luce emessa da un proiettore a 16 mm. Il secondo era una serie di 8 incisioni in bianco, presentata in maniera sistematica e convenzionale.
Poi c’era una serie di 15 disegni, anche loro bianchi. Un trittico astratto, bianco. Un cartellone pubblicitario senza pubblicità. Una serie di 12 fotografie le cui cornici e passpartout inquadravano porzioni del muro sottolineando il valore di scambio della galleria.
Una proiezione di diapositive (il cui rumore assieme a quello del proiettore del film costituiva la colonna sonora della mostra) e infine una cornice del XIX secolo. Ciascuno di questi tableaux aveva una forma specifica di illuminazione. Era il grado zero della rappresentazione e dell’informazione. Quello che mi interessava di più era la semplice presentazione dell’immagine, quello che significa una mostra, e quello che significa uno spazio espositivo. In retrospettiva questo progetto è l’inizio di una serie di lavori che esplorano gli usi e i valori degli spazi in relazione all’architettura e ai media.
Dopo un’opera come Exposición dovevo cambiare registro perché non si poteva fare un lavoro altrettanto nudo e scarno. Per questo c’è voluto del tempo.

Quarto do fundo

Ho realizzato Quarto do fundo (letteralmente: magazzino) durante un periodo in cui ho dato lezioni all’Università di San Paolo in Brasile. Entrando nell’edificio della galleria Luisa Strina c’era un monitor sulla scala su cui si vedevano delle immagini riprese, da una telecamera a circuito chiuso, negli spazi privati della galleria: il magazzino e l’ufficio del direttore. La galleria era vuota, mentre una luce accesa enfatizzava i due spazi privati.
Volevo presentare lo spazio che normalmente non è accessibile al pubblico, il luogo di decisione, di “potere”, all’interno di uno spazio culturale.

The Board Room

The Board Room continua la serie di lavori che esplorano l’uso e la funzione dell’architettura, ed è una metafora sull’idea della sala del consiglio, uno spazio consueto all’interno della situazione istituzionale e corporativa. Anche uno spazio segreto e misterioso di decisione: non si sa esattamente cosa possa succedere in The Board Room, tra quella tavola e le 13 sedie. Uno spazio oscuro, tenebroso, con un tappeto rosso e 13 ritratti di leader religiosi che si sono serviti dei media. Ciascun ritratto, con una cornice tradizionale, aveva un monitor al posto della bocca e in quel video scorrevano le immagini con i loro discorsi registrati. Le relazioni di queste personalità rappresentavano lo spettro religioso in Nord America: la necessità di credere, con l’aiuto dei media, si trasformava in un gran business.

Stadium

Proseguendo nell’analisi degli elementi mediatici credo che lo stadio sia un elemento molto importante nella cultura urbana. Se il museo è il simbolo della cultura alta così lo stadio può essere preso a simbolo della cultura popolare. Storicamente ha una funzione che in Italia è molto conosciuta dato che questa tipologia di edifici nasce con la cultura greca e romana. Ho utilizzato una serie di immagini di stadi dall’antichità ai nostri giorni. La sua trasformazione nel tempo è evidente, anche se la forma rimane più o meno la stessa.
Ho cercato di sottolineare come lo stadio fosse un luogo di spettacolo, sport, ma anche di come la religione e la politica avessero la loro importanza. Questo “contenitore” offre spettacolo ed è uno strumento di controllo: il pubblico è allo stesso tempo consumatore e prodotto. L’installazione era costituita da un colonnato ellittico al cui interno (in cui non si poteva accedere ma che si poteva osservare dall’esterno), su una superficie di sabbia, c’era una proiezione video che ruotava, con delle immagini di archivio del pubblico. Ai quattro angoli esterni del colonnato si proiettavano delle diapositive organizzate secondo quattro principi: attività, arredamento, simboli, architettura.
Un collage di suoni di attività di stadi attraverso la storia era la colonna sonora che, più tardi, è stata registrata su un’edizione in compact disk. Stadium è un lavoro che mantiene intatta la struttura ma che varia alcuni elementi a seconda del contesto. Una delle sue rielaborazioni l’ho presentata a Berlino nel 1993. Lì ho chiaramente enfatizzato il ruolo che il suo stadio ha incarnato negli anni Trenta, sottolineandone l’utilizzazione che ne ha fatto il nazismo durante le olimpiadi.
Come in haute CULTURE il poster era un elemento integrante del progetto, così in Stadium IX ho realizzato un supplemento domenicale all’interno del quotidiano Der Tagesspiegel che sostituiva il catalogo. Io stesso l’ho disegnato graficamente, rielaborando il design del giornale. La gente trovava questo inserto che parlava dello stadio dal punto di vista culturale, sociologico, politico e critico; non mi interessava quindi produrre un’informazione strettamente legata all’aspetto artistico.

Words: The Press Conference Room

Proseguendo nel tragitto delle installazioni di “media architecture”, (architettura mediatica) iniziato con Exposicion, un altro degli spazi definiti dall’uso che ho analizzato è quello delle sale per le conferenze stampa. In Words: The Press Conference Room (La sala della conferenza stampa) si enfatizzano il podio e i microfoni che appaiono come punto centrale.
L’assenza dell’oratore è sottolineata da uno spot luminoso.
I leader appaiono invece in una televisione dall’altra parte della stanza, opposta al podio. I due elementi (podio e televisione) sono collegati da un tappeto fatto di prime pagine di giornali. La colonna sonora è realizzata con discorsi di personaggi pubblici che all’inizio si sentono chiaramente ma, poco a poco, diventano incomprensibili distruggendosi a vicenda. Questa trasformazione è simile alla deformazione del suono e dei suoi significati che avviene in una arena pubblica, politica.  Ho fatto alcune varianti di questa installazione e, a seconda dello spazio e del contesto, cambiavano principalmente giornali e discorsi.
The Limousine Project

Un altro lavoro che continua ad approfondire l’idea di “media architecture” è The Limousine Project. Si tratta di un progetto nello spazio pubblico che definisco come “city specific” (letteralmente: specifico alla città, in questo caso New York).
Ho usato una limousine come elemento emblematico di una metropoli come New York dove questa automobile rappresenta uno status symbol, e ne ho cercato di cambiare il senso.
Questa macchina girava per la città con delle immagini proiettate sui finestrini.
Immagini dell’industria del consumo, sottolineate da parole critiche. Voglio ricordare che normalmente le limousine hanno vetri scuri che non lasciano intravedere chi c’è dentro, lasciando l’identità dei passeggeri avvolta nel mistero. Uno spazio privato e segreto. La limousine ha girato per la città per sei settimane, passando dal Palazzo dell’ONU (lo spazio politico), a Wall Street (lo spazio economico), a zone di club e night (lo spazio dello spettacolo).

Beetween The Frames: The Forum

Con Beetween The Frames: The Forum si ritorna in uno spazio protetto.
Si tratta di una costruzione divisa in sette stanze, illuminate con sette colori diversi, ciascuna un capitolo che rappresenta un elemento del sistema dell’arte: i mercanti, le gallerie, i collezionisti, i musei, i critici, i media e finalmente un epilogo in cui alcuni artisti esprimono le proprie opinioni sul sistema stesso. Lo spazio centrale ribalta il concetto di “panopticum”, infatti è il pubblico che si trova in una posizione di controllo. In ogni stanza c’era un video con delle interviste a vari protagonisti del settore (galleristi, direttori di museo, collezionisti, ecc.).
Queste interviste erano intervallate da un elemento metaforico “open visuals”, correlato con il ruolo rappresentato: ad esempio alle immagini dei critici si alternavano delle onde del mare, ai collezionisti la borsa di Tokyo, ai media un ascensore nella città di Colombus in Ohio, alla galleria un treno programmato senza conducente a Vancouver.
Questo è un lavoro sui ruoli e l’importanza del mercato che ho realizzato in dieci anni e che rappresenta una situazione specifica agli anni Ottanta.

CEE Project

Ritornando allo spazio pubblico ho realizzato un lavoro sull’idea di Comunità Europea. Si tratta di un tappeto con dodici stelle (che rappresentano le dodici nazioni che la componevano) al cui interno c’è una moneta per ciascun Paese.
Il tappeto è stato presentato in uno spazio pubblico (non necessariamente luoghi d’arte) di ogni Paese della Comunità Europea e in questo modo assumeva un valore d’artefatto e anche un valore d’uso: d’uso perché nella gerarchia dell’arte il tappeto ha solo un valore come “arte applicata”, antropologico (non che sia d’accordo con questa gerarchia ma questa è l’interpretazione che generalmente le si dà), ma che qui assume un valore artistico.
Parallelamente l’uso di quest’opera in uno spazio pubblico mette in questione l’idea di percezione, uso, comportamento, design e di esposizione e l’idea di come i simboli vengano percepiti. Con CEE Project si sottolineava la relazione fra il concetto di identità nazionale e di valore economico.

The File Room

The File Room è un progetto abbastanza recente, che ha una vita parallela su internet, e che per alcuni aspetti continua l’analisi di “media architecture”.
Questo lavoro è stato presentato per la prima volta al Cultural Center di Chicago nel 1994 (un’antica biblioteca pubblica) e parte dalla volontà di mettere in discussione l’idea di censura culturale. Ho costruito uno spazio apparentemente repressivo, kafkiano, appartenente alla burocrazia, al controllo, con 800 archivi metallici. Otto Macintosh collegati con internet (e un server) fornivano l’accesso a un archivio in rete composto da casi di censura sulla cultura. In questo modo ho cercato di ribaltare il ruolo di questo spazio fornendo la possibilità di accedere ad una informazione alternativa. Questa “finestra” aperta su internet crea lo spazio per un dialogo e per lo scambio di idee. L’archivio in se stesso è tuttora attivo ed accessibile su internet. Questo progetto è nato da un episodio personale: una programma televisivo, commissionatomi dalla TV spagnola, che ho portato a termine ma che non è stato mai trasmesso. Sentendomi frustrato per essere stato soggetto a una forma di censura ho pensato che fosse importante reagire creando un lavoro che cercasse di esorcizzare la mia frustrazione e che desse anche ad altre persone la possibilità di parlare di altri episodi di censura. The File Room consiste quindi sia in un sito su internet che in una installazione da cui si può accedere al sito. Le pagine sul world wide web sono organizzate con una serie di entrate, un search (tasto di ricerca), delle istruzioni, un’introduzione, delle definizione di censura e l’archivio dei casi (organizzato per geografia, storia, soggetto, media). Si può intervenire su questa banca dati ed aggiungere altre informazioni. C’è inoltre un registro delle persone che visitano il sito (guest book).
Personalmente credo che, mentre prima la censura si manifestava in forme evidenti ed esplicite, ora ha preso forme meno chiare e più sottili, dato che oggi i sistemi di organizzazione e repressione sociale sono più complessi. Abbiamo cominciato con 400 casi, da Socrate fino ad oggi. Da lì in avanti il lavoro ha una vita propria che lo trasforma e lo cambia. Un altro aspetto che mi sembra interessante è la messa in discussione dell’idea d’autore, proprio perché con il tempo questa banca dati si raffina e assume altre prospettive. Credo che questo lavoro abbia ragione di esistere proprio nel suo essere collettivo.

Sala de Control

È la prima volta che parlo di questo lavoro che ho realizzato all’interno di  un’esposizione divisa in cinque parti intitolata Present y Futurs. Arquitectura a les Ciutats, parte di un congresso internazionale di architettura al CCCB (Centre de Cultura Contemporania de Barcelona) di Barcellona. Le cinque sezioni erano: Mutacions, Abitacions, Fluxus, Containers, Terrain vague. In ogni sezione c’era un progetto di architettura e di urbanistica sulla città in trasformazione. Il mio intervento era all’interno della sezione Mutacions. Sono partito da uno spazio archetipo, la stanza di controllo del CCCB, e l’ho metaforicamente replicato nell’esposizione. All’interno di questo spazio c’è un quadrato di nove monitor, tre dei quali trasmettono delle immagini di tre zone della città riprese da telecamere situate sul tetto. Le zone erano il Montjuic, la città olimpica e il Raval (quest’ultimo il quartiere dove si trova il CCCB). Queste tre aree rappresentano delle zone di sviluppo, trasformazione e “gentrification” della nuova Barcellona. Gli altri tre monitor trasmettevano immagini interne ed esterne dell’edificio stesso, una costruzione emblematica, la Casa de la Caritat, recentemente ricostruita. Gli ultimi tre monitor trasmettono immagini della mostra e uno dei tre trasmetteva esclusivamente immagini dell’installazione stessa.
A queste nove serie di immagini si aggiungeva un monitor con i commenti di alcuni residenti delle tre aree (Montjuic, città olimpica, Raval) che esprimevano la propria opinione sui luoghi in cui vivevano e che usavano in prima persona. Uno schermo con una retroproiezione trasmetteva immagini al rallentatore di esplosioni e distruzione di edifici, riprese durante le opere di trasformazione dei tre quartieri. Tutto questo veniva riportato all’interno della Sala de Control: il pubblico diventava il “vigilante”. In un certo senso si tratta di invertire la situazione di controllo. In una città dove l’architettura è stata sempre molto importante l’architetto rappresenta un certo potere: il suo ruolo dovrebbe includere un aspetto costruttivo e critico. Penso che quest’ultimo si sia perso in cambio di valori intrinsecamente economici e di interessi. Con Sala de control volevo restituire al cittadino (il pubblico nella mostra) il controllo della sua città. Volevo che non fosse più un poliziotto o un militare a vigilare ma che (all’interno di una mostra di architettura) fosse la città stessa che si autovigilasse. La sala di controllo diventava pubblica e la sua funzione ribaltata.

On Traslation

L’ultimo progetto di cui parlerò è ancora in corso e si chiama On Traslation. Credo che viviamo in una civiltà totalmente tradotta non solo verbalmente, ma in tutti i sistemi di comunicazione e rappresentazione (includendo le nuove tecnologie e i media).
On Translation vuole esplorare tutti questi territori diversi. Una prima presentazione è stata fatta con On Translation: The Pavilion, a Helsinki nel 1994. Con On Translation: The Games ho trasformato lo spazio della galleria in una cabina di traduzione.
Il traduttore è sempre un personaggio “occulto”: non si vede, è invisibile e mi interessava rimetterlo al centro, in una cabina ingrandita con una sua proiezione. Era una specie di omaggio al traduttore, alla sua solitudine: il traduttore sembra che non esista invece è un elemento importante e a volte si assume delle grandi responsabilità.

Domande del pubblico:

Il tuo lavoro si basa su un discorso aperto, anche in termini spaziali, ma ho sempre considerato la galleria o il museo luoghi che per definizione chiedono dei lavori “conclusi”.
Un risultato insomma. Questo credo sia una limitazione per chi cerca di fare lasciare aperte delle porte — anche all’interno delle istituzioni — come hai fatto con il tuo lavoro.
Riesci a lavorare bene anche con le istituzioni o preferisci lavorare fuori?

Vedo le due cose come complementari. Credo che lavorando negli spazi pubblici a volte ci si possa perdere e qualche volta sento il bisogno di ritornare in uno spazio “protetto” per approfondire il lavoro. È un paradosso: il lavoro si vede più nello spazio pubblico ma non c’è feed back, nessuno ti dice niente. Metti un video in tv, fai un intervento sulla strada, la gente lo vede, ma non ti ritorna indietro né una critica né un’opinione, mentre in uno spazio “protetto” si riesce a instaurare un dialogo. A volte un dialogo approfondito.
Per questo credo che sia necessario continuare ad avere questo doppio binario su cui muoversi. Per quanto riguarda l’apertura che sottolineavi nel mio lavoro, credo che effettivamente sia molto importante. Una volta, come mio intervento, al Museo Reina Sofia di Madrid, ho semplicemente aperto le finestre del museo. Normalmente aprire le finestre in un museo è “difficile”; in un primo tempo il direttore si era opposto. Volevo incorporare nel museo il suono della strada, la sensazione di freddo che veniva dall’esterno.
Questo lavoro mi sembra emblematico per affermare che mi interessa molto l’idea di apertura.

Quanta gente visita The File Room e lo rende attivo?

Ho fatto il lavoro ma non vorrei fare la sociologia del lavoro. Così non so quante persone abbiano visto la limousine o quanti siano le persone che hanno visto il mio tappeto della CEE. Naturalmente si può sapere quanti sono stati gli accessi di The File Room, ma veramente non mi interessa, anche perché, in un certo senso, sarebbe esercitare una forma di controllo analoga all’uso dello share per la televisione o dei voti per i politici. Direi comunque che è un lavoro abbastanza popolare e frequentato.
Ma ti ripeto, non ho mai voluto sapere esattamente le cifre.

Il primo lavoro che hai mostrato riguardava alcune città sudamericane.
Non credi che ci sia una contraddizione tra regimi militari, che in quel momento avevano il potere, e spazio pubblico, che di fatto non era pubblico? Questa contraddizione mi sembra emerga ancora di più pensando all’uso dei giornali (che naturalmente erano di regime) che tu hai fatto nell’installazione.

Credo che quel lavoro debba essere preso nel suo valore metaforico: il pubblico si trovava tra la mia presenza (l’informazione personale) e i media (l’informazione pubblica). Il giornale era una forma accessibile e pratica per rappresentare l’universo dei media; in quel momento lo spazio pubblico nell’America Latina era uno spazio “ripreso” perché aveva un’informazione controllata. In Argentina e nel Brasile la stampa era diventata illegale e questi giornali erano rappresentativi dell’intero spettro ideologico. Mi interessa cercare di rendere visibile le cose che normalmente sono invisibili, occulte. Il retro dell’immagine. Leggere i significati tra le righe.

Nel tuo lavoro affiora sempre una dimensione politica, morale...

...Preferirei dire etica più che morale...

Vorrei sapere se, al di là delle giuste osservazioni spaziali ed estetiche che hai fatto, nel tuo lavoro ci sia una connotazione politica (anche pensando alla situazione politica spagnola nel momento in cui hai cominciato a lavorare)?

Credo che ci sia un elemento percettivo, quello con cui si guarda il lavoro, il primo contatto, poi c’è un elemento di informazione e di riflessione che può essere differente per ognuno.
Credo che sia importante relazionarsi con le cose e capire come arrivano attraverso i sensi. I contenuti sono recepiti in modi differenti per ognuno perché ognuno ha un differente sistema di informazione dovuto a un differente background. Comunque sono evidenti le preoccupazioni sociali e politiche.

Nell’introduzione si diceva che una delle caratteristiche del suo lavoro è la fedeltà al progetto indipendentemente dal media usato. Mi chiedevo se questo avviene anche con un media così potente come internet? Non crede che questi media superino poi qualsiasi progettualità che le si voglia applicare?

Credo che per usare internet è necessario che i partecipanti abbiano una certa coscienza: in The File Room si parlava della censura culturale e per me era importante non considerare questo un lavoro finito lasciando aperta la possibilità dell’interazione.
Considero la partecipazione delle persone fondamentale per il lavoro stesso. Non penso che si possa presentare un lavoro sulla censura e poi lasciarlo chiuso.
Dovrei parlare al plurale di questo progetto perché molte persone vi hanno lavorato e lo si vede dai ringraziamenti che appaiono sulle pagine. Credo che i ringraziamenti alla fine di un lavoro siano molto importanti, perché spiegano molto della procedura che ci sta dietro. Per The File Room la lista dei crediti è molto lunga.
Quando fai un progetto su internet è normale che il lavoro possa prendere delle dimensioni che non sono previste. In questo momento sto lavorando su un altro progetto su internet sulla traduzione. Questo è un lavoro che è partito proprio da queste considerazioni che avevo fatto su The File Room.
Comunque la parte di investigazione, preparazione e progettazione di un lavoro mi prende molto tempo: ci sono lavori che ho realizzato dopo dieci anni dalla loro prima idea. È evidente che porto avanti più progetti insieme. Spesso lavoro in una situazione ibrida, analoga a come lavora un regista per un film o un architetto con il suo studio, distante dal classico lavoro solitario dell’artista, per progetti complessi lavoro con delle altre persone.
Fondamentalmente quello che rivendico è il concetto che sta alla base del progetto.