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a cura di Dario Bonetta



18/03/2005

 
Quarter. Centro Produzione Arte 
 
 
Centralita' del periferico

 
   
Lea Codognato ha intervistato Pietro Gagliano', resident curator di Quarter  
 
   
Pietro Gaglianò in una foto di Simone Simonetti




Marco Bagnoli in una foto di Carlo Valentini




Marco Bagnoli, Terra delle madri, installazione, 2005, courtesy Carlo Fei



 
L'Auto da fe' è una sorta di "abbagliamento" dell'uomo che, come dice Claudio Magris, non inquadra il mondo dall'alto ma ne viene aggredito e travolto sicché è costretto a guardare ogni cosa da una distanza zero in un caos furibondo e deformante. Che ruolo ha, secondo te, Quarter a Firenze?

A Firenze Quarter riempie un vuoto. Sana quella ferita aperta nel cuore di artisti, critici e curatori da almeno trenta anni: la macanza di uno spazio per l'arte contemporanea. Non è l'agognato Meccanotessile ma forse può essere qualcosa di più, perché si propone, da statuto, come centro per la produzione dell'arte: non innesca soltanto un'azione centripeta, che accoglie e importa mostre da altre città, ma è un laboratorio di produzione, anche in grado di esportare il prodotto espositivo. Quarter rappresenta (e il successo che stiamo avendo lo dimostra) una vera e propria piazza dove si accende il confronto, anche in modo violento a volte, grazie alla presenza di mostre di grande livello e di spessore, e grazie al dialogo che scaturisce dagli spazi laterali dove artisti, giovani e non giovani, riescono a lanciare messaggi che raggiungono direttamente il pubblico. È questo il ruolo dell'arte contemporanea, raccontare all'uomo quello che sta vivendo. A Firenze mancava questa voce, quest'area per il dibattito, questo canale della comunicazione.

Il fatto che una struttura come Quarter non sia dentro le mura storiche della città ma che sia fuori, al limite, dentro un quartiere più periferico, accanto ad un centro commerciale come la COOP, è sicuramente uno tra gli aspetti più
importanti.


Io sono un sostenitore della centralità del periferico, in tutti i sensi, sia rispetto ai centri cittadini che alle aree urbane, quindi su scala più ampia.
E Quarter è provvisto di questa centralità, in primo luogo perché non è fagocitato da presenze ingombranti come quelle delle istituzioni museali storiche, e poi riesce a parlare lo stesso linguaggio del contesto in cui è calato. L'arte contemporanea è fatta di velocità ma anche di lentezza, e qui c'è la velocità e la lentezza delle macchine che passano o del traffico rallentato, il disordine, il rumore, il passaggio di merci, le superfici patinate dei prodotti che sono in vendita alla COOP. Quarter ha una permeabilità tale da venire attraversato da tutti questi elementi, da tutti questi dati culturali - e qui intendo cultura nel senso più 'incolto' del termine, cioè orizzontalità ecumenica . Quarter, ancora, è avvantaggiato da una grossa opportunità: quella di trovarsi in un quartiere gestito da un'amministrazione veramente illuminata.

Quarter ha una struttura molto particolare, già abbiamo avuto modo di parlarne, ha una una grande sala centrale che ospita progetti specifici realizzati da artisti, vedi Conservatory di Paolo Parisi e John Duncan, e attualmente Terra della madri di Marco Bagnoli. Tutti gli altri spazi vivi, però, sono stati sfruttati al massimo e questo consente di poter lavorare su progetti apparentemente collaterali all'esposizione principale ma non per questo meno importanti e significativi. E' di nuovo la centralità del periferico? Come resident curator ti stai occupando di portare avanti alcuni di questi progetti all'interno di Quarter...

Sono partito con AUTO DA FE' che è un progetto anomalo. Non è un programma espositivo, ma un passo propedeutico all'attività didattica di Quarter. In che cosa consiste Auto da Fe'? Sono interviste video realizzate da un critico d'arte agli artisti mentre si trovano sul cantiere in cui si sta realizzando la mostra. Il critico intende scomparire dietro l'obbiettivo della videocamera per lasciare l'artista in una sorta di confessionale ad esprimere tutte quelle che sono le incertezze, le aspirazioni e le difficoltà a confrontarsi con dimensioni enormi come quelle della sala centrale, o con un pubblico che è molto meno filtrato rispetto ad altri spazi. Tutte queste cose vengono raccolte con un grande entusiasmo da parte degli artisti che amano mettersi in gioco in questo modo. E il pubblico ha subito individuato le chiavi di lettura proposte. Molti visitatori profani hanno apprezzato l'installazione di questo monitor, collocato in un corridoio di raccordo, e l'hanno trovato molto più educativo, di quanto non siano i testi critici visibili su grandi pannelli. La semplicità dell'eloquio di un artista che dice "ho fatto questo perché ho questa forma di necessità", secondo me, è quanto di più chiaro ci possa essere nel messaggio dell'arte.

E' fondamentale che ci sia proprio la voce dell'artista, oltre al fatto visibile e inequivocabile dell'opera.

Ci muoviamo in una generazione di curatori ed artisti che io chiamo post-dinosauri, con tutto il rispetto per i grandi maestri cui tanto devo, però nessuno dei personaggi attivi attualmente nel mondo della critica, che facciano parte della mia generazione o di poco più anziani, nessuno di noi penserebbe mai di creare una corrente, quindi di forzare, di fare in qualche modo una collazione di intenti. C'è un rapporto molto più democratico tra artista e critico e questo è un aspetto in cui credo profondamente: tanto quanto io sento
creativa la mia azione di critico e sento l'influenza, e il peso delle mie parole, nella creazione dell'artista, altrettanto l'artista mi restituisce tutto quello che è possibile poi veicolare, far passare al pubblico o far passare, in una prospettiva più alta, alla storia.
Si fa tutto assieme, ci sono dei ruoli certo, ma i confini sono meno definiti. In Auto da Fe' c'è il critico che fa il video-creativo (perché questi video sono anche molto divertenti non sono le classiche interviste) e l'artista che fa il critico parlando di se stesso: è la dimostrazione di questa nuova era, se vogliamo, della post-transavanguardia.

Hai intervistato Paolo Parisi e John Duncan, poi Marco Bagnoli. Qual è stato il tuo rapporto con artisti così diversi?

Paolo Parisi è quello che conoscevo meglio, seguivo il suo lavoro da tempo e lo conoscevo personalmente. Nella prospettiva di cui dicevo prima, è quello che ha dato i risultati più soddisfacenti. Con John abbiamo avuto qualche problema di carattere linguistico, lui parla un inglese dell'Arkansas per me incomprensibile, ma ha collaborato con grande entusiasmo. Forse a causa di queste cesure linguistiche, le sue risposte possono essere sembrate un po' più fredde, un po' più accademiche.
Marco Bagnoli, che è un grande artista, ma forse di una generazione precedente a quella cui concettualmente fa capo Paolo e gli artisti con i quali io lavoro abitualmente, è stato al gioco meno degli altri. Questo, alla fine, non è stato
poi così negativo, è venuto fuori un terzo tipo di lavoro in cui la videocamera passava dalla mia mano alla sua, traballando. Il video ricorda il Dogma di Lars Von Trier... Di fatto si è parlato del lavoro sempre con dei punti interrogativi: mentre discorreva, lui che poi è molto autoriale, aveva sempre una sospensione finale come fosse un richiesta di conferme. Ne è venuta fuori, diciamo, una prova d'autore.
Molto più efficaci sono state le interviste ad artisti come Alessandro Casati, o Massimo Barzagli che ne ha fatto un gioco, e Loris Cecchini che ha tirato fuori tutto il suo smalto da divo.

Attraverso queste tue interviste, rispetto a Voyager (lo spazio principale), puoi delineare la differenza di come questi artisti si sono posti nello spazio?

E' un grande volume, disorientante, in cui si rischia di perdersi, l'artista deve avere una grande capacità di dominare lo spazio. Sia Parisi con Conservatory che Bagnoli con Terra delle madri, attraverso soluzioni diverse, hanno saputo usufruire di questa grande possibilità. Ci sono riusciti entrambi perfettamente. L'atteggiamento più creativo in questo senso l'ha avuto Paolo Parisi, non tanto con i Conservatory ( tre monoliti, tre case realizzate con strati di cartone), sviluppo di un lavoro che aveva già maturato e che è cresciuto, che è diventato più d'effetto, d'impatto. Ma la grande svolta di Paolo è stata nell'approccio più tradizionale, quello pittorico: il fatto di portare questa idea di orizzontalità della pittura, della gora lasciata da una goccia d'acquarello, nella verticalità immensa del wall painting. Una goccia che si poggia in verticale e faccia quel tipo di disegno, con quelle dimensioni, quasi due metri di diametro, rasenta l'impossibile, è contro le leggi della fisica.

Queste due installazioni hanno raffigurato due possibilità ma anche due paesaggi diversi.

Quello di Parisi è un paesaggio urbano strettamente contemporaneo con tutte le ansie di questa contemporaneità, dalla claustrofobia all'idea di lontananza, ma anche la rapidità della connessione. Non dimentichiamo che nel progetto di Paolo, dove si è innestato John Duncan con la sua sonorizzazione, i Conservatory erano già connessi vocalmente oltre che visivamente con i tubi, è un'allegoria di plastica e cartone del mondo contemporaneo, potremmo essere in continenti e città diverse da Tokyo a Londra o New York. Ci sono una serie di concetti che ritornano anche di ricaduta di cui forse Paolo non era così consapevole, ma tutto questo ci rende la dimensione di come un artista sia fattivamente calato in una temperie culturale che assorbe e che restituisce in modo mirabile.
Il paesaggio di Marco Bagnoli si sviluppa in un altra dimensione che è quella,secondo me, più diacronica. Bagnoli porta avanti da decenni un percorso che rinnova di volta in volta pur all'interno di una gabbia di riferimenti che lo
identificano. Il suo lavoro è sempre stato portato verso lontananze siderali, verso conoscibilità mistiche, o inconoscibilità altrettanto mistiche, per cui questo paesaggio richiama mondi arcani orientali, all'origine della cultura
occidentale. E' un paesaggio più concettuale, quello di Marco, più criptico meno narrativo.

Tu curi anche un altro progetto all'interno di Quarter che è En plein air.

En plein air è un progetto specificatamente rivolto ad artisti giovani che siano autori di sculture o installazioni di grande impatto. En Plein Air si va a collocare in uno spazio quasi di risulta, un Foyer, un filtro visivo tra l'esterno e l'interno. E' la prima cosa che si vede passando davanti al centro d'arte, le sculture hanno una funzione di spia luminosa che deve chiamare e avvertire:" qui dentro succede qualcosa, gente!" E' un'invito all'incontro e alla connessione tra gli scenari del quartiere, della città, del passante, e quelli altrettanto mobili dell'arte contemporanea. En plein air allude proprio
alla volontà di stare all'aperto, la struttura del Foyer con le vetrate si concilia con queste intenzioni. Forse il modo migliore per guardare le opere di En plein air è proprio quello di guardarle dall'esterno.
C'è un progetto parallelo sviluppato all'interno di En plein air che è quello narrativo di Alessandro Casati, che sta raccontando attraverso le sue tele, riprese da scatti fotografici, la storia di Quarter, una sorta di diario per
immagini.
En plein air nei prossimi mesi si svilupperà realisticamente anche all'esterno, nelle due piazze che circondano Quarter.

Attualmente, nello spazio del Foyer, c'è una scultura di Bagnoli

En plein air ha facoltà di sospendersi nel momento in cui l'installazione dello spazio centrale richiede una superfetazione anche all'esterno, come in quest'occasione e nella prossima, con Enzo Cucchi. Moralmente le sculture degli artisti di Voyager non fanno parte del progetto En plein air.

Qual è il futuro di QUARTER?

Il futuro di Quarter coincide con il suo destino, con la sua vocazione, che è quella della città e della gente. Quarter ha un futuro importantissimo a Firenze su moltissimi piani, da quello storico a quello creativo, a quello più di carattere sociale e operativo, perché l'arte, sintetizza lo spirito dei popoli e ne esalta l'intelletto.

Pietro Gaglianò, classe '75, arriva da mondi afferenti alla critica d'arte ma non specificamente da una formazione come storico dell'arte. Pietrò Gaglianò è un architetto anomalo che ha fatto molto giornalismo d'arte da battaglia con Exibart e poi anche con altre testate, tra le quali Il sole 24 ore, Ateatro, And, Opere. Ha lavorato con artisti e con qualche galleria privata, è autore di alcuni progetti tra cui quello di un piccolo spazio per il dibattito, per gli innesti tra le diverse discipline, Angle, che si trova a Firenze. E' fondamentalmente uno studioso e uno scrittore avventuriero. Come per un regalo inatteso (come dice lui) si è trovato all'improvviso in questa avventura frenetica che è stata Quarter al fianco di Sergio Risaliti come resident curator.

Su Pressrelease:

Terra delle madri: l'installazione di Marco Bagnoli


     
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Firenze: ipotesi utopie sorprese di una Kunsthalle in citta'
Collaborazione non concordata
 
 

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