L'artista pone lo spettatore di fronte ad eventi catastrofici come tornado, cataclismi, diluvi come se volesse porsi nel cuore stesso degli eventi e provocare nel pubblico un incremento di percezione.
a cura di Luigi Meneghelli
“Siamo messi male. Bisogna sbrigarsi, se si vuole vedere ancora qualcosa. Tutto sta scomparendo”. Così scrive P. Handke nei “Colori del giorno”.
E il suo è un grido d'allarme di fronte a un mondo che conosce una inquietante catastrofe ecologica, una profonda infrazione di tutti quelli che sono gli equilibri naturali. Ebbene, la pittura di Chiara Tagliazucchi ci pone di fronte ad eventi catastrofici come tornado, cataclismi, diluvi: ed è come se volesse metterci nel cuore stesso degli eventi e provocare in noi, attraverso la minaccia, un incremento di percezione.
Però l'artista non ha nessuna intenzione di realizzare opere di sentore critico o moralistico, pronta poi a sfoderare l'apologia della redenzione. Lei non mira solo a far vedere, quanto piuttosto a protrarre la visione, ad esibire il motivo in questione oltre il motivo stesso, a spingere l'immagine oltre l'immagine.
Come seguire, del resto, il percorso spettrale, impalpabile, impermanente di un tornado, se non facendo esperienza di un perenne movimento della materia? Se osserviamo le tele della prima sala, le potremmo definire “eoliche” o anche astrali o “astratte”. Il colore, la pittura sono sempre a un limite, a una soglia che li assorbe e li fa sparire nella tela. Non tendono all'esterno, ma stanno in una sorta di tensione che li allarga e li fa risultare sospesi, quasi indecisi fra il ritornare in se stessi e il consumarsi fino all'estremo bagliore.
Nella seconda sala invece è come se si scendesse dal cielo alla terra, dalle onde gonfie e distruttive al cumulo di rovine e di frammenti del mondo. Ma, proprio qui, di fronte all'apocalisse compiuta, Tagliazucchi, alla maniera di T.S. Eliot, pensa alla rovina come resto, come ciò che resta, che dura, che si fa “seme” di un mondo a venire. In fondo anche Walter Benjamin diceva che “bisogna creare storia con gli stessi detriti della storia”.
E' la possibilità estrema: usare le reliquie come la traccia (o il monito?) indelebile di ciò che è stato. Una traccia ancora incandescente, interrogante, come può essere quella del “Bosco” finale, che implode, arretra in se stesso, simile a un paesaggio di Friedrich, sempre indefinito, svanente, in fuga, ma anche fermo come la quinta di una scena che non si saprà mai come (o dove) andrà a finire.
Immagine: Quiete 9, 2010. Olio su tela 20x25 cm
Inaugurazione: venerdì 19 marzo 2010 dalle ore 19.00
Galleria Arte Boccanera Contemporanea
via Milano 128/130, Trento
dal martedì al sabato 11.00-13.00 / 16.00-19.0
Ingresso libero