Hearth. Alla ricerca del "paradigma dell'ovvieta'", l'artista riproduce semplici paesaggi di periferie urbane senza allontanarsi troppo dalla verita'. In esposizione anche ritratti di famiglia ed alcuni interni.
Scorci d’impressionismo metropolitano.
Mauro Falsini non è un artista facile. E non lo è, paradossalmente,
proprio per quell’apparenza di semplicità che – almeno a una prima
occhiata – sembra pervadere il suo lavoro. Ognuno di noi, migliaia di
volte, si è trovato davanti a quegli scorci di città, ingoiato in una
folla anonima e senza volto in corsa verso qualcosa che deve
assolutamente raggiungere. Ognuno ha ben presente nella mente
quell’umanità che anima le periferie metropolitane, trovando un
rifugio sotto muri scrostati il cui unico segno di vita è dato
dall’acido, violento grido dei graffiti che li ricoprono. E poi chi di
noi “addetti ai lavori” non conosce le atmosfere delle fiere d’arte?
Il popolo variopinto che si aggira tra gli stand, i volti resi lividi
e tutti uguali dalle fredde luci artificiali.
Eppure Falsini non è un semplice reporter. L’operazione che compie
davanti al reale è più complessa. Senza allontanarsi troppo dalla
verità si potrebbe paragonare al ready made, alla rivoluzione
scatenata un giorno da un certo Duchamp con una certa ruota di
bicicletta. Perché gli scorci scelti da Falsini non hanno nulla di
emblematico, proprio nulla. Ma non sono nemmeno – banalmente – presi a
caso. L’artista cerca proprio quello scorcio. Quello che rappresenta
il paradigma dell’ovvietà. L’emblema del momento qualunque vissuto
dall’uomo qualunque. Lo sceglie con un’accuratezza quasi maniacale, lo
scandaglia in ogni minutissimo dettaglio, fino a consumarsi gli occhi.
Ora ce l’ha. E’ suo. Ora il momento qualunque passa al vaglio dei suoi
pennelli. Della sua mano (insieme a quel modo tutto particolare di
preparare la tela) che dà all’olio una consistenza lucente,
l’apparenza inquieta e cangiante di una materia instabile, sempre sul
punto di liquefarsi, disfacendo l’immagine. Una pioggia di pennellate
veloci e decise, quasi impressioniste, raccontano il cielo greve,
giallo di polveri sottili, le facciate ingrigite dei palazzi, lo
sfregio incongruente dei pannelli pubblicitari luminosi e le facce
della gente, affaticate, distanti. Quella metropoli è diventata
archetipo della metropoli. Quel momento che non ha nulla di speciale,
dimenticato un attimo dopo da tutti quelli che lo hanno vissuto, è
diventato icona.
Ama la città, Falsini, la pittura di paesaggio del nuovo millennio. E
a volte la ferma in immagini sbieche, pencolanti da un lato, come foto
scattate di fretta che chiunque butterebbe subito via. E’ l’estremo
sberleffo: ecco qui il cuore pulsante della vita contemporanea! Uno
scatto sbagliato. Ma gli piacciono anche gli interni, dove la sua
abilità nell’uso del colore e della luce lo spinge a stravolgere la
realtà fino ai limiti del surreale. I suoi ritratti di famiglia poi –
gruppi di nonni e nipoti con il sorriso rigido e lo sguardo fisso
dentro l’obiettivo – incantano per la spietata resa psicologica. Poche
pennellate, un’ombra sotto gli occhi, il gesto nervoso di una mano e
lo spettatore si trova catapultato lì, in quell’appartamento piccolo-
borghese un po’ polveroso, vagamente claustrofobico, in un’atmosfera
di malinconica allegria, vicinissimo ad un ricordo che riesce a
malapena ad afferrare.
Inaugurazione 22 febbraio ore 18.30
Galleria Previtali
via Lombardini, 14 - Milano
martedi-sabato 16-19,30
Ingresso libero