Cardi Black Box
Milano
corso di Porta Nuova, 38
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WEB
Mario Ybarra Jr. - Giuseppe Pietroniro
dal 23/2/2011 al 25/3/2011
lun - sab 10-19

Segnalato da

Art At Work




 
calendario eventi  :: 




23/2/2011

Mario Ybarra Jr. - Giuseppe Pietroniro

Cardi Black Box, Milano

In 'Wilmington Good', Ybarra presenta opere in cui analizza e ironizza sul suo quartiere d'origine, Wilmington, riflettendone la storia e il paesaggio urbano industriale e soffocante; in mostra sculture, fotografie e una grande opera pittorica. 'Smarginazione' e' il progetto di Pietroniro concepito ad hoc per lo spazio LevelOne della galleria: una mostra minimale strutturata sull'idea di confine e di limite.


comunicato stampa

a cura di Art At Work

Mario Ybarra Jr.
Wilmington Good

Mario Ybarra Jr. è un artista eclettico: performer, disegnatore, scultore, pittore, attivista ed educatore, capace di fondere la cultura di strada con la storia dell’arte per produrre quella che lui ha definito “una forma di arte contemporanea filtrata dalla sua esperienza di Los Angeles come americano d’origine messicana”. Ybarra appartiene infatti a una generazione di artisti d’origine messicana, che giocano e scherzano con gli stereotipi e i pregiudizi legati alla loro identità.

Fonte d’ispirazione continua per le installazioni di Ybarra è la complessa e ricca cultura della California del Sud, in cui un eterogeneo mix di abitanti, di etnie diverse e una storia post-coloniale articolata si fonde con una cultura rap e di strada unica al mondo. Attraverso i suoi interventi site-specific l’artista svela aspetti sconosciuti della storia culturale “latina” (termine usato negli USA per etichettare tutto ciò che riguarda le comunità d’origine Centro e Sud Americane), appropriandosi d’immagini pop e “multiculti”.

A Milano, con Wilmington Good, Ybarra presenta una mostra in cui analizza e ironizza sul suo quartiere d’origine, Wilmington, riflettendone la storia e il paesaggio urbano industriale e soffocante attraverso sculture, fotografie e una grande opera pittorica che rappresenta la visione notturna e onirica di una grande raffineria petrolifera. Il titolo è tratto dal nome di un rivenditore di auto usate, chiuso per fallimento, vicino a casa dell’artista e sembra ironizzare su come non ci sia poi molto di buono (good) in un quartiere intossicato dalle raffinerie, i cui residenti sono occupati quasi interamente nei cantieri portuali.

Ybarra crea un vero e proprio paesaggio tridimensionale con dieci gru di diverse misure e colori disseminate per lo spazio espositivo; grandi giocattoli per bambini, le sculture sembrano portare in vita lo skyline dei cantieri portuali della città. Create con materiale di scarto (pezzi di mobili economici importati dalla China via il porto di Los Angeles), queste gru diventano fragili impalcature, modellini capaci di capovolgere il rapporto tra l’uomo e la macchina. Sullo sfondo, quasi come un orizzonte reale, si estende una veduta notturna di una raffineria mentre, senza sosta, sputa fuoco dalle sue ciminiere. Questa grande opera pittorica, intitolata Smoky City, dallo stile fortemente grafico, rappresenta una mostruosa città futuribile, stile Blade Runner, in cui non c’è traccia d’essere umano.

Gli abitanti di Wilmington compaiono in sei monumentali fotografie su sfondo nero; veri e propri tableau vivant che rappresentano con ironia la storia del conflitto e dell’emancipazione dei lavoratori portuali. Tratte liberamente da uno storico murales dipinto nei primi anni ’70 a Wilmington, queste foto traspongono ai giorni d’oggi i conflitti della comunità latina. Ybarra trasforma la lotta di classe in quella tra gang, mostrando due giovani bendati che lottano con un coltello a serramanico e che poi si stringono la mano in segno di pace. L’aquila, simbolo della libertà americana, che nel murales rompeva le catene che imprigionavano i lavoratori, resta in queste foto prigioniera e intrappolata; similmente la madre dell’artista, impiegata al porto di Los Angeles, il più grande porto cargo degli Stati Uniti, viene ritratta da Ybarra incatenata in un’inesorabile schiavità lavorativa.

Come sempre il lavoro di Ybarra non parla semplicemente della sua esperienza personale d’artista americo-messicano a Los Angeles, ma racconta l’esperienza dell’ ”essere meticci” o le contaminazioni socio-culturali ormai presenti in ogni angolo del mondo.
(Testo a cura di Ilaria Bonacossa - Art At Work)

Mario Ybarra Jr. (Los Angeles, 1973) ha ottenuto un Master in Fine Arts presso l’Università della California, Irvine, nel 2001.

Le sue opere d’arte sembrano paesaggi urbani, che egli considera come forme di ritratti della società contemporanea. Fondatore con Karla Diaz del collettivo artistico “Slanguage”, Ybarra trae continua ispirazione per le sue installazioni multimediali e le sue opere performative dalla complessa e ricca cultura della California del Sud, in cui un eterogeneo mix di abitanti, di etnie diverse e una storia post-coloniale articolata si fondono con una cultura rap e di strada unica al mondo.

Esemplare l’installazione Sweeney Tate, presentata alla Tate Modern di Londra nel 2007, in cui Ybarra ricreò in scala 1:1 un barber-shop, un salone di bellezza per uomini, con tanto di specchi, pavimento a scacchi, poltroncine da barbiere anni ’40, suppellettili varie e decorazioni a strisce bianche, rosse e blu (i classici colori dei barbershop americani), animandolo con una fantomatica gara di haircutting tra barbieri di ogni nazionalità.

Tra le sue mostre più importanti la monografica all’Art Institute di Chicago (2008) e al CCA Wattis Institute for Contemporary Arts a San Francisco (2007), così come la sua partecipazione alla Biennale del Whitney, New York (2008), alla Biennale di Praga 3 (2007), così come il progetto speciale per la Tate Modern (2007) e la mostra alla Serpentine Gallery (2006), entrambe a Londra. Dal 2002 dirige a Wilmington Slanguage, un centro sociale aggregativo ed educativo, uno studio-laboratorio che opera coordinando installazioni e performance, eventi, residenze e workshop per diffondere l’arte a un pubblico di non addetti ai lavori.

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Giuseppe Pietroniro
Smarginazione

La ricerca artistica di Giuseppe Pietroniro (Toronto, 1968. Vive e lavora a Roma) si muove attraverso diversi linguaggi espressivi: dall’installazione alla fotografia, al disegno. Nel suo lavoro l’artista sintetizza, in maniera sottile e consapevole, elementi che provengono da differenti tradizioni, dal minimalismo americano all’arte povera, dagli esperimenti concettuali fino ad una forma di post-moderno tutto italiano. Spesso i suoi lavori nascono da oggetti qualunque, privi di valore, di cui l’artista si appropria, forzando i limiti della percezione della realtà, per aprire riflessioni di carattere esistenziale e psicologico. Sempre centrale alla sua produzione artistica è la riflessione sullo spazio, sul vuoto e su come i luoghi abbiano il potere di trasformare chi li abita o li attraversa.

Smarginazione è un progetto concepito ad hoc per lo spazio LevelOne della Galleria Cardi Black Box: una mostra minimale strutturata sull’idea di confine e di limite in cui Pietroniro indaga come la percezione di ciò che ci circonda sia mediata da come percepiamo i limiti delle cose; l’artista, invece di filosofeggiare sulla natura delle cose e dei loro margini, riesce fisicamente a farci percepire l’idea di confine, di limite attraverso i margini dei lavori in mostra: è come se gli oggetti riuscissero a comunicare direttamente con il nostro inconscio.

Intervista a Giuseppe Pietroniro di Ilaria Bonacossa

IB: La tua mostra Smarginazione si sviluppa in maniera uniforme come un'analisi sull'idea di limite e margine, intesi in maniera fisica, ma anche come riflessione sugli elementi con cui uno scultore si deve confrontare quando concepisce un progetto. Sembra trasudare una sensazione di claustrofobia, un bisogno di confrontarsi con i limiti per cercare di infrangerli o, forse più in linea con il tuo fare artistico, di capovolgerne il significato mettendoli in scacco. Come nasce questo progetto?

GP: L’idea della mostra nasce quasi per caso dalla lettura di Il Sistema degli Oggetti di Jean Baudrillard in cui mi ha affascinato soprattutto la descrizione della relazione progressiva che si instaura tra segni e oggetti messi in relazione in uno spazio, tra i quali si determina un limite, un “margine”. In questa condizione tutti gli oggetti che ci circondano si costituiscono in un coerente sistema di segni che circoscrive e regola le condotte e le ideologie sia del singolo che della società, sia dal punto di vista culturale che sociale. L’idea di lavorare sul confine delle cose è un modo per guardare la società contemporanea in generale, il margine è il luogo in cui due cose si incontrano, la fine della prima dà luogo all’inizio della seconda. Mi rendo conto che faccio sempre più fatica a capire quale sia la realtà e come essa venga manipolata. La mostra mi ha aiutato a lavorare sul confine tra le due per ”smarginare” cioè comprendere meglio, mettere a fuoco la realtà. Tutti gli oggetti hanno una forma che è definita da dei margini: mi interessa dare forma non tanto all’oggetto ma al confine dello stesso.

IB: Con questa mostra, dopo esserti concentrato per alcuni anni sulle fotografie e sulle installazioni, torni alla tua pratica scultorea, ma la mano dell'artista sembra essersi ridotta ad un tocco leggero, non crea nulla di riconoscibile iconograficamente, al contrario, agisce sottolineando gli elementi presenti nella realtà, modificandoli solo in parte, montandoli tra loro, ma senza volerli stravolgere; la mostra così diventa un sussurro...

GP: Il momento della creatività incomincia con il vivere come un pensatore. La prima produzione è il pensare, la seconda il linguaggio. Bisogna esprimere le proprie idee sorte dal pensare, poi produrre e rendere la produzione tattile. Sussurro i dettagli proprio per dargli una voce, quasi per gridarli in silenzio. Essi rappresentano un labile confine sulle simulazioni che la stessa realtà genera, facendo scaturire dai segni riflessioni sull’identità, l’intimità e il reale. Nella leggerezza del dettaglio è implicita la profondità della riflessione.

IB: Spesso i tuoi lavori, penso in particolare alle tue installazioni fotografiche, (in cui fotografavi degli spazi vuoti, istituzioni dedicate all'arte, e poi rifotografavi, all'interno degli spazi, le foto degli spazi stessi, creando un effetto straniante, quasi un fotomontaggio ad occhi aperti, enfatizzando attraverso il vuoto la loro vocazione) lavorano per sottrazione, è quasi come se tu non volessi creare nulla di nuovo, ma esprimerti appropriandoti della realtà che ti circonda. In questo caso, di nuovo, il titolo “Smarginazione” evoca un’attività minima in cui vengono eliminati i margini per rendere ciò che è al centro più evidente, rispecchia il tuo modo di lavorare?

GP: Diciamo che la mia pratica artistica si concentra su una riflessione del contesto in cui vivo per cercare di avere un punto di vista fermo. E' un po’ come quando si realizza un disegno in prospettiva e la cosa più importante per avere una visione corretta è scegliere il punto di vista. Se mi fermo a riflettere, mi rendo conto che tutto intorno a me è portato al limite, basti guardare la società globale in cui viviamo, tutto è accelerato, esasperato, le idee diventano obsolete in un attimo. Ti faccio un esempio: l’ansia di dire qualcosa, di portare nuove idee e di sovrapporre determina un gran chiasso e rende tutto poco chiaro. Bisognerebbe togliere anzichè aggiungere, iniziare a sottrarre per fare chiarezza, riuscire a determinare un punto di vista vergine. Con Smarginazione mi concentro sui margini, su quelle linee che circoscrivono un luogo, un tempo e per estensione una riflessione.

IB: L’opera Segno è la rappresentazione tridimensionale di una linea, tracciata da te, il segno della mano dell'artista che diventa scultura?

GP: Una pianta nasce e cresce cercando una nuova forma, invece cambia solo proporzione e dimensione. Allo stesso modo io cerco nuove forme attraverso le idee delle forme, concedendomi tutti i margini che la mia immaginazione mi concede. Spesso mi capita di lavorare disegnando per poi sostituire il segno della matita con lo scotch per rendere il disegno tridimensionale. Con lo stesso principio di tridimensionalità ho cercato di dare forma ad un segno, di farlo diventare una scultura.

Art At Work é Ilaria Bonacossa, Paola Clerico, Luca Conzato, Ilaria Gianni e Riccardo Ronchi.
www.artatwork.it

Inaugurazione 24 febbraio, ore 19

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Mario Ybarra Jr.
Wilmington Good

Mario Ybarra is a versatile artist: performer, designer, sculptor, painter and activist, capable of merging street culture with art history to produce ”a form of contemporary art filtrated by his Los Angeles experience as an American of Mexican origin.” Ybarra, in fact, belongs to a generation of artists of Mexican origin who play and mock stereotypes and prejudices tied to their identity.

Constant source of inspiration for Ybarra’s installations is the rich and complex culture of South California in which a heterogeneous mix of inhabitants, ethnic groups and an articulated post-colonial history, blend with a unique rap and street culture. Through his interventions, the artist unveils unknown aspects of ”latino” cultural history (term used to tag the communities originating from centre and South America), appropriating pop images as well as multicultural ones. Like the installation Sweeney Tate, presented at Tate Modern in 2007; the re-creation on a 1:1 scale of a barber shop, equipped with mirrors, checked floors, barber armchairs, varied furnishings and white, red and blue striped decorations, which Ybarra animated through a fantastic haircutting challenge amongst barbers of different nationalities.

The exhibition Wilmington Good is structured as an informal portrait of his neighbourhood, Wilmington. The title is taken from a shut down second-hand car dealer close by the artist’s home, and plays with the fact that there is nothing exceedingly good about a place intoxicated by refineries and invaded by dockyards.

Ybarra creates in the exhibition space a three-dimensional landscape in which ten cranes of different sizes and colours are disseminated; the sculptures resemble huge toys for children and seem to bring to life the city’s skyline as seen from the dockyards. Created with discarded materials (parts of cheap furniture imported from China, via the Los Angeles port), these cranes become fragile scaffolds, small-scale models capable of reversing the relationship between man and machine. A large painting becomes the background, offering a night vision of a refinery that ceaselessly discharges smoke from its chimneys. Smoky City represents a monstrous future city, Blade Runner style, in which there is no trace of human being.

The citizens of Wilmington appear in six monumental photographs; these images on a black background are structured like tableau vivant that ironically represent the historical conflicts and the emancipation of dockworkers. Drawn from a famous murales realised in the ‘70’s at Wilmington, these photographs transpose the conflicts of the Latin community to today. Ybarra transforms the class struggle into a gang fight, showing two blindfolded young men that fight with a knife and then make peace, shaking hands. The eagle, symbol of American freedom, which, in the murales brakes the chains freeing the labourers, in the photographs is trapped by the chains; similarly the artist’s mother, working in the Los Angeles dock, the biggest cargo dock of the United States, is depicted as being relentlessly enchained to her job.

This exhibition as a whole can’t be reduced to an autobiographical narrative as it goes beyond national and ethnic specificities, talking, with powerful irony about global issues.

Mario Ybarra Jr. (1973) has completed an MA in Fine Arts at the University of California, Irvine, in 2001. Amongst his most important exhibitions is his solo show at the Art Institute of Chicago (2008) and at the CCA Wattis Institute for Contemporary Arts at San Francisco (2007), as his participation at the Whitney Biennial, New York (2008), at the 3rd Prague Biennial (2007), his special project for the Tate Modern (2007) and the exhibition at the Serpentine Gallery (2006), both in London. Since 2002 Ybarra runs Slanguage at Wilmington, an educational social centre and a studio lab that operates by coordinating installations and performances, events, residences and workshops to extend the knowledge of art to a broader, non-professional public.

Text curated by Ilaria Bonacossa - Art At Work

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Giuseppe Pietroniro
Smarginazione

Giuseppe Pietroniro’s (Toronto, 1968. Lives and works in Roma) artistic research develops through different media: from installations, to photographs, to drawings and sculptures. In his work he manages to merge in a subtle, yet sophisticated manner, different influences from American minimalism, to Arte Povera, from conceptual investigations to a very personal and Italian form of post-modernism. Often his work is born from the re-appropriation of everyday objects, which, of no value in themselves, acquire the power to make us reflect on our existential and psychological condition, forcing our perception of reality. Central to his artistic production is the reflection on space, on emptiness and on environment’s power to transform those who inhabit them.

Smarginazione (Smargination) is a site-specific project for Cardi Black Box’s LevelOne: a minimal show that develops around the idea of border and margin. Pietroniro seems to investigate how our perception of reality and of the objects that constitute our environment is mediated by how we perceive their borders. The artist refrains from a philosophical investigation on the nature of things and their margins, and concentrates instead on making us physically aware of the idea of border, through the margins of the objects presented in the show. These sculptures, speak directly to our unconscious.

Ilaria Bonacossa interviews Giuseppe Pietroniro

IB: Your show Smarginazione develops coherently as an analysis of the concept of margin, not only in a physical sense, but as a reflection on the elements, the limits that a sculptor confronts when he develops a project. It exudes a sense of claustrophobia, the need to engage limits in order to break them, or as often happens in your practice, overturning their meaning to subvert them. Why this project?

GB: The show was inspired by my encounter with Jean Baudrillard’s Le Systeme des objects. I was fascinated by his description of the progressive relationship that develops between signs and objects when they enter in a reciprocal relationship in a given environment, specifically by how they relate as a series of limits, of margins. Thus all the objects that surround us develop a coherent system of signs that influences and regulates, both culturally and socially the attitudes and ideologies of each of us as individual and as social actor. The idea of working on the borders of objects becomes a way of looking at contemporary society, as the margin becomes the locus of the encounter between objects, where one thing ends and the next one begins. I am always more confused about the limits of reality and how they can be manipulated; this shows tries to focus on reality by eliminating the useless margins and contours: all the objects seem to be defined by their limit.

IB: After several years in which your practice developed through photographic installation you focus once again on your original practice as a sculptor, but the touch of the artist’s hand is nearly invisible, just a light sign, that shields from the creation of anything recognizable, but simply underlines elements that already exist in reality by slightly modifying them or mounting them together without the desire of completely transforming them. It is as if this show is whispered…

GP: I believe my creativity develops through my way of living as a thinker. The first step for any form of production is the idea itself, the second step is choosing a language. One needs to express ideas, once they have developed, then make them tactile through the actual production. Whispering details is a way of giving them a voice, as if I were shouting them in silence. They represent the fragile border of the simulations born from reality, which can transform signs into reflections on identity, intimacy and reality itself. The invisibility of a detail hides the complexity of the thoughts that have generated it.

IB: Often your work, I am thinking about your photographic installations, (in which you portrayed empty spaces, art museums and foundations and then shot the photos of the spaces themselves installed where the original photo had been taken, creating a sense of estrangement as if the image was born out of montage) work by subtraction, as if you refused to create anything new, but decided to express yourself by appropriating found images. Here the title “Smarginazione” evokes a minimal action, in which borders and contours are eliminated in order to focus the viewer’s attention on what remains. Do you feel it reflects your way of working?

GP: I try to concentrate my practice on the context in which I live, as a way of gaining a precise point of view. In some ways it’s similar to when you look for a fixed point of view in order to draw something in perspective. When I stop to think about things, I realize that everything around me is pushed to its limits. Think of globalized society, everything is accelerated, exasperated, ideas become obsolete in a second. The constant need and anxiety to say or add something new creates a large background noise and confuses everything. We should have understood that now is the time to stop adding, it’s the moment to eliminate things in order to acquire a fresh and new perspective. Smarginazione allows me to concentrate my reflection on limits, on the lines that mark the borders of places, objects and time.

IB: Segno is the three-dimensional representation of a line, drawn by you, the sign of the artist’s hand that becomes sculpture?

GP: A tree seems to grow changing continuously shape, yet its being transformed only by the changes of its proportions and dimensions. Similarly I look for new forms through ideas of forms, allowing myself all the freedom of the imagination. Often I draw something and then I feel the need to substitute the pencil line with tape as a way of making the drawing three-dimensional. Following the same process I tried to make a sign visible as a specific form, to turn it into a sculpture.

Inaugurazione 24 febbraio, ore 19

Cardi Black Box Gallery
Corso di Porta Nuova 38 - Milano
Orari di apertura: Lunedì - Sabato, 10 - 19
ingresso libero

IN ARCHIVIO [61]
Louise Nevelson
dal 8/10/2014 al 19/12/2014

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