Ex Convento di San Francesco della Scarpa
Lecce
via Giuseppe Palmieri, 6
0832 307415

Carlo Cego
dal 10/3/2011 al 26/3/2011
9-13 e 16-19

Segnalato da

Marinilde Giannandrea




 
calendario eventi  :: 




10/3/2011

Carlo Cego

Ex Convento di San Francesco della Scarpa, Lecce

Questo e' il mio paese. Il Salento rende omaggio al pittore di origini venete, milanese d'adozione, che dal 1980 fino alla sua scomparsa, ha vissuto a lungo a Otranto alla cui luce e umanita' si e' profondamente legato.


comunicato stampa

Il Salento rende omaggio a Carlo Cego, pittore di origini venete, milanese d’adozione, che dal 1980 fino alla sua scomparsa, ha vissuto a lungo a Otranto alla cui luce e umanità si è profondamente legato.

La mostra è la seconda tappa di un percorso espositivo, partito nel mese di settembre da Otranto, organizzato e promosso dalla Fondazione Carlo Cego, dall’Assessorato alla Cultura della Provincia di Lecce e dal Museo Provinciale Sigismondo Castromediano. Si tratta di un’ampia retrospettiva, curata da Michele Afferri storico dell’arte, Marinilde Giannandrea storica dell’arte e giornalista e Paola Iacucci.

Il catalogo è curato da Michele Afferri e Marinilde Giannandrea con i contributi critici di Antonio Cassiano, Direttore del Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce, Francesco Moschini, Docente di Storia dell'Architettura e di Storia dell’Arte presso il Politecnico di Bari, membro dell’Accademia Nazionale di San Luca e Marina Pizzarelli, critica e storica dell’arte. Nel volume è presente una ricca serie di testimonianze di personalità e amici che si sono legati a Carlo Cego durante i suoi lunghi soggiorni salentini e una serie di fotografie realizzate da Caterina Gerardi.

Carlo Cego nasce a Valdagno (Vicenza) il 10 luglio 1939.
Tra il 1947 e il 1966 vive a Roma dove, nel 1962, si diploma in Pittura con Franco Gentilini all’Accademia di Belle Arti e frequenta assiduamente la libreria-galleria Al Ferro di Cavallo luogo d’incontro di artisti, poeti e scrittori.

Tra il 1966 e il 1968 è a Genova dove lavora come scenografo nella fase inaugurale dello spazio sperimentale del Teatro Stabile e nel 1968 Gastone Novelli lo chiama come suo assistente alla cattedra presso il Liceo Artistico di Brera e a Milano rimane fino alla sua scomparsa.
Profondamente e coerentemente legato alla generazione di pittori che hanno creato e continuato la linea astratta della pittura italiana, Cego non ha mai partecipato a gruppi o movimenti ma ha lavorato dentro una linea di ricerca pittorica legata a una dimensione poetica e luministica. Il corpo della sua opera può essere letto all’interno di un «alfabeto e di una sintassi suscettibile d’infinite variazioni» nelle quali il vero soggetto e la ricerca della luce che entra nelle campiture cromatiche e nella densità della materia pittorica.

A partire dal 1980 trascorre lunghi periodi a Otranto, dove dipinge in una piccola casa-atelier conquistato dalla luce meridiana e dalla umanità del Salento e dove partecipa al gruppo di intellettuali e di artisti che in quegli anni soggiornano nella città salentina (Vittorio Matino, Vanni e Alina Scheiwiller, Carlo Berté, Sergio Sermidi, Franco Vaccari, Guido Ballo, Ugo La Pietra, Dadamaino, Umberto Riva, Luisa Castiglioni, Pietro Coletta, Antonio Trotta), protagonisti di una ricca fase di vivacità culturale. In questi anni la sua pittura, improntata fino a quel momento a un geometrismo lirico, abbandona la forma costruita e sviluppa un linguaggio minimale fatto di linee colorate e ampi spazi bianchi che richiamano le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla.

Nel decennio successivo si assiste all’esplosione di un’utopia del colore che si connette con il senso lirico della superficie e con la dimensione reattiva del supporto nelle infinite variazioni cromatiche della materia pittorica. Le opere più recenti sono grandi tele, quasi monocrome, con andamenti per lo più orizzontali che stabiliscono una relazione fra colore e luce e sembrano sospendere i colori nello spazio della tela.
I quadri di Carlo Cego, affermano ancora oggi la dimensione poetica dell’astrazione italiana, «ritrovando valore vivo della pittura come materia assoluta».

Carlo Cego si è spento a Milano il 17 settembre 2003 e ha voluto essere sepolto a Otranto. Sulla sua tomba si legge: Gli piaceva dipingere.
Nella primavera del 2008 la Galleria Civica d’arte contemporanea di Spoleto gli ha dedicato un’importante mostra antologica.

«Fedele per tutta la vita alla qualità della pittura Carlo Cego ha tessuto una storia artistica fatta di permanenze e silenzio. Un percorso che, dagli anni Sessanta romani fino all’apparire di questo secolo, l’ha visto sempre coerentemente legato a una linea astratta, minimale, capace di tessere una storia personale fatta di colore e di luce.

Eppure dentro la pittura di Cego, soprattutto quella che riempie le superfici di tessiture cromatiche e luminose, si avverte costantemente il senso di un orizzonte, l’evocazione di un sedimento naturale. Forse è proprio per questa straordinaria attenzione alle vibrazioni e alle costanti del dato atmosferico che l’artista si lega così profondamente alla luce di Otranto, a un paesaggio inquadrato da una finestra, fatto di una linea tra cielo e mare […].

Prive di titolo, con poche eccezioni (“Notturno a Otranto”, dipinto in un agosto del ’93 con il fondo profondo dei colori di una notte d’estate e d’oriente), le tele degli anni Novanta assumono una sostanziale serialità e forniscono la sensazione che nel plateau dal formato regolare si costruisca una mappatura, immanente e particolare, che relaziona lo sguardo ordinato con l’occhio poetico, lo spazio simmetrico con quello che procede per empatia ed esperienza diretta. Non che la mappatura sia dichiarata, al contrario, ma a ben guardare la dimensione della visione sembra interconnettere quello che i greci chiamavano kairós, il “momento opportuno”, con una cultura del flusso, della fluidità, della trasparenza, fatta d’infinite e mutevoli variazioni […] Le tele dell’ultimo periodo, quello che precede la morte, sono dentro un linguaggio ancora più sintetico, cominciano a esplorare formati più grandi e tessiture ormai sostanzialmente monocrome, nelle quali lo spazio sembra schiacciato dalla luce. Andamenti per lo più orizzontali che stabiliscono una relazione tra trama e colore.» (Marinilde Giannandrea)

«Forse uno dei momenti chiave per la comprensione delle dinamiche sia nel campo della pittura che dell’architettura è l’analisi di alcune convergenze particolari postesi non solo sul piano teorico, ma anche nel vivo della prassi operativa, costruzione teorica e trasmissione didattica: la collaborazione, a partire dal 1967, di Gastone Novelli ed Achille Perilli al corso di Composizione Architettonica di Maurizio Sacripanti alla Facoltà di Architettura di Roma e il dibattito sulla ‘prospettiva’ in particolare e sul disegno in generale. Il disagio dell’artista e dell’architetto si autorappresenta nella figura del labirinto: «ridurre l’informazione visiva al livello dell’immagine e del labirinto» (A. Perilli) come alternativa “classica” al non comunicare. E la figura del labirinto è un elemento ricorrente se non fondativo nelle poetiche sia di Carlo Cego che di un suo grande amico e sodale come Gastone Novelli, che, fin dall’inizio, lo chiamerà come proprio assistente a Milano alla Cattedra di Brera. [...]. Il Labirinto si presenta come creazione umana, dell’artista e dell’inventore, dell’uomo della conoscenza, dell’individuo apollineo, ma al servizio di Dioniso, dell’animale-dio. Minosse è il braccio secolare di questa divinità bestiale. La forma geometrica del Labirinto, con la sua insondabile complessità, inventata da un giuoco bizzarro e perverso dell’intelletto, allude a una perdizione, a un pericolo mortale che insidia l’uomo, quando egli si azzarda ad affrontare il dio-animale. Dioniso fa costruire all’uomo una trappola in cui egli perirà proprio mentre s’illude di attaccare il dio. Più oltre si avrà l’occasione di parlare dell’enigma, che è l’equivalente nella sfera apollinea di quello che il Labirinto è nella sfera dionisiaca: il conflitto uomo-dio, che nella visibilità viene rappresentato simbolicamente dal Labirinto, nella sua trasposizione interiore e astratta trova il suo simbolo nell’enigma. Ma come archetipo, come fenomeno primordiale, il Labirinto non può prefigurare altro che il “logos”, la ragione. Che cos’altro, se non il “logos”, è un prodotto dell’uomo, in cui l’uomo si perde, va in rovina? Il dio ha fatto costruire il Labirinto per piegare l’uomo, per ricondurlo all’animalità». Ma il labirinto, per quella schiera di artisti in formazione alla metà degli anni Sessanta è anche una figura della stabilità e della certezza, per quanto i suoi percorsi possano essere contorti e complessi, ammette un’unica direzione e un’unica soluzione. Il ritrarsi nella disciplina, le ipotesi di rifondazione, spesso astratte, sono alla base di quelle contaminazioni cui facevamo riferimento. […].

Molto spesso l’artista ha cercato di radicarsi nel proprio contesto, con il proprio lavoro, attraverso il ricorso ad elementi che come categorie metastoriche hanno caratterizzato il senso del lavoro artistico in luoghi diversi come Roma prima, Milano poi e infine nella sua amata Otranto almeno dagli anni Ottanta, dando così continuità alle stesse e facendo assumere alla propria ricerca una dimensione da “eterno presente”. Ma nel suo lavoro questi elementi di partenza si trasfigurano sino a diventare larve di una grandezza trascorsa per presentarsi come lacerti, puri frammenti di un mondo nemmeno più vagheggiato perché ormai spogliato da qualsiasi illusorietà consolatoria. Che altro sono allora, nella serie di Otranto, quelle ferite in cui il segno si ispessisce, se non il dichiarare apertamente che non è più nemmeno possibile indagare la profondità della tela, quella spazialità oltre ricercata, certo memore della sondata ricerca di profondità dei tagli di Lucio Fontana, per fermarsi alla più respingente ed antigraziosa apparenza delle cose? Anche il condensarsi del segno, la veduta a distanza ravvicinata quasi si trattasse di una insistita messa a fuoco, se da una parte ricorda l’ossessione del primo piano, dall’altra attiva invece una fuga verso l’altrove, verso i bordi dell’opera, quasi rendendo impossibile la costrizione visiva a rimanere al centro dell’opera stessa.» (Francesco Moschini)

«Da “Parlare con Carlo” – una testimonianza relativa ad una delle numerose conversazioni sull’arte intrattenute con Franco Purini – apprendiamo di alcuni artisti ideali di Cego: Osvaldo Licini e Gastone Novelli che, probabilmente, lo colpiscono per il loro operare nell’ambito dell’astrazione, nella creazione di opere che tendono a distaccarsi dalla “realtà” seguendo criteri compositivi del tutto soggettivi.

Ai precedenti egli aggiunge anche Max Klinger e Gustav Klimt, il cui lavoro d’acchito potrebbe sembrare del tutto avulso dalla sua ricerca artistica, ma rapportando quest’ultima con la tensione alla “geometrizzazione” ed alla “linea” tipiche della produzione “secessionista” ci si rende conto di come il quartetto summenzionato costituisca una sorta di pantheon di riferimento […]. Astrazione quindi, astrazione che diventa il filo conduttore della quasi quarantennale attività artistica di Carlo Cego iniziata a Roma, quando l’amico Gastone Novelli […] lo incoraggia a continuare nell’attività espositiva dopo la prima mostra del 1966 presso la Galleria-libreria “Al Ferro di Cavallo”.

Linearismo, geometria e colore caratterizzano le opere di questi anni; […].
In anni in cui il dibattito critico-artistico verte su ricerche di tipo “oggettuali” e “concettuali” prima e sul ritorno alla pittura figurativa poi, Carlo Cego indaga sul rapporto spazio-luce. I lavori di questo periodo si fondano sulla preparazione di una campitura prevalentemente bianca su cui disporre linee che, variamente posizionate e paragonabili a raggi luminosi, scandiscono lo spazio della tela; […]. Un lavoro ventennale che conduce alla realizzazione di opere quali: “Storie di luce” (1982), “Luce prospettica” (1983), i cui “filamenti cromatici”, in nuce, contengono quell’esplosione coloristica che caratterizzerà le opere degli anni seguenti. Dagli anni Novanta, infatti, Cego è come se avvertisse l’urgenza di tornare al piacere della pittura, di confrontarsi con la materia pittorica; le tele da questo momento, e sino alla sua produzione ultima, tendono prevalentemente al monocromo.

I dipinti adesso, sondando le molteplici variazioni che il colore assume rapportandosi con la luce, seguono una tipologia di organizzazione spaziale che partendo da composizioni in cui geometria e colore sono evidenti ed in equilibrio tra loro […] passa per lavori dove una velatura cromatica lascia intravedere un elemento geometrico evanescente e giunge a quello che potremmo definire un “linearismo ondulato” […].
In questi suoi ultimi lavori, pur rimanendo sottesa un’esigenza costruttiva, la struttura del dipinto diviene più libera ed emozionale e il colore, elemento che campisce tutta la superficie pittorica, è steso «come chiaroscuro, a esempio: rosso nel rosso, in altre parole la scala dal rosso diluito al rosso carico, in tutta la sua estensione o solo parzialmente. E lo stesso col giallo […] lo stesso con l’azzurro […]», citando le parole […] di Paul Klee, altro artista di cui Cego amava parlare e da aggiungere al suo ideale pantheon iniziale.» (Michele Afferri)

Inaugurazione 112 marzo ore 19

Ex Convento di San Francesco della Scarpa
Via Giuseppe Palmieri 6 - Lecce
Orari 9.00-13.00 16.00-19.00
Ingresso libero

IN ARCHIVIO [10]
District 913
dal 19/12/2014 al 29/1/2015

Attiva la tua LINEA DIRETTA con questa sede