Esther Mahlangu
George Lilanga
Seni Camara
Mikidadi Bush
Kivuthi Mbuno
Peter Wanjau
Achille Bonito Oliva
In mostra le opere di 6 artisti, selezionati da Achille Bonito Oliva: Mikidadi Bush, Seni Camara, George Lilanga, Esther Mahlangu, Kivuthi Mbuno e Peter Wanjau. Il titolo nasce dalla storica linea ferroviaria che taglia in senso longitudinale e latitudinale l'Africa e dal desiderio di offrire un'arte 'di attraversamento'.
a cura di Achille Bonito Oliva
Fondazione 107 presenta, in collaborazione con Fondazione Sarenco, "Transafricana" a
cura di Achille Bonito Oliva.
Il titolo nasce dalla storica linea ferroviaria che taglia in senso longitudinale e latitudinale
l’Africa e dal desiderio di offrire un’arte "di attraversamento” così come la linea transafricana
mette in comunicazione popolazioni tra di loro eterogenee.
I 6 artisti africani selezionati, tutti di calibro internazionale, sono:
Esther Mahlangu - South Africa
George Lilanga - Tanzania
Seni Camara - Senegal
Mikidadi Bush - Tanzania
Kivuthi Mbuno - Kenya
Peter Wanjau – Kenya
ognuno di loro vive ed opera nel paese di origine.
Se sul finire degli anni ’70 del secolo scorso la Transavanguardia proponeva modelli di
superamento alla sterilità delle neoavanaguardie ormai consumate su temi iperconcettuali,
all’inizio di questi anni gli artisti di Transafricana propongono modelli alternativi, di recupero
del sentimento del reale, della vita, rifiutando la corsa verso la globalizzazione estetica che
pervade ormai tutta l’arte occidentale.
Come un grande pachiderma addormentato, l’Africa si risveglia da un sonno ancestrale e
irrompe con grande forza ed energia nella storia dell’arte contemporanea internazionale,
rivalutando la magia della vita e la sacralità dell’arte.
Citando Paul Klee, Achille Bonito Oliva afferma che “l’arte non ripete le cose visibili, ma
rende visibile”. Progetto e casualità creativa si intrecciano simultaneamente nell’opera,
portata a bilanciare con la complessità dell’arte l’insufficienza di una realtà schematica e
riduttiva. L’arte procura stordimento e nello stesso tempo conoscenza, una perdita di senso
ed anche un suo accrescimento, tramite il disorientamento di una pratica che, per
definizione, tende a ribaltare la comunicazione sociale, posta normalmente sotto il segno
dello scambio unilaterale ed economico.
Sulla base di questo assioma il curatore ha scelto i 6 artisti provenienti dal continente più
antico, l’Africa, ognuno di loro opera all’interno di una consapevolezza culturale, fortemente
ancorato alle sue radici ed utilizza un linguaggio fatto di segni che lo stesso artista conosce
molto bene e pertanto non cerca di domare, semmai di assecondare secondo procedimenti
che implicano l’idea di progetto e di scelta. Il risultato invece viene lasciato ai suoi esiti liberi,
fuori da qualsiasi attesa o preveggenza. Non è infatti l’artista ad essere preveggente, ma il
linguaggio che cova dentro di sé immagini e risultati inusitati. L’artista conosce la tecnica
della sopraffazione attiva del linguaggio che si basa sullo stordimento dei procedimenti
creativi, abbassamento automatico delle tecniche compositive.
E’ questa la differenza tra arte africana e occidentale.
L’arte africana prima di quella contemporanea occidentale si è affrancata dalle servitù
contenutistiche e cerca sempre il movimento della forma capace di trasfigurare ogni tema e
portare sulla soglia del linguaggio ogni empito e slancio. Il linguaggio diventa il filtro
attraverso cui passano segni, simboli e significati che vengono come vivificati e nello stesso
tempo rielaborati nel passaggio della forma.
L’arte in questo senso trova il valore della spiritualità in se stessa, in quanto trasfigura ogni
dettato visivo in un segno nuovo capace di dare durata e fissità esemplare all’istante e al
transeunte. L’arte è sacra perché realizza il miracolo di dare durata all’impossibile durata
della vita.
L’artista africano è dunque artefice, opera sui materiali depositati dentro la sua coscienza,
nel magma della sua sensibilità che affronta la prova elaborata dell’opera, del risultato
compiuto, il solo capace di garantire e di garantirgli lo statuto demiurgo.
Esther Mahlangu
Nata a Middelburg, Sud Africa nel 1935.
E’ stata scoperta da Jean-Hubert Martin, allora direttore del Centre Pompidou invitandola nel
1989 alla mostra ormai epocale “Magiciens de la Terre”.
L’artista trasferisce i suoi temi pittorici dai muri delle case dei villaggi Ndebele su tele di
grande dimensione o su oggetti di uso quotidiano. Tra le sue opere più significative, la
decorazione della facciata del palazzo BMW insieme ad artisti come Andy Warhol e l’affresco
alla Biennale di Lione con Sol Lewitt.
I suoi dipinti non sono astratti ma puramente decorativi e gli elementi che si trovano
all’interno del dipinto non sono altro che stilizzazioni di motivi presi a prestito dal reale (vedi
per esempio la lametta da barba) che molto spesso raccontano storie di vita del villaggio
Ndebele.
I suoi dipinti sono stati anche trasferiti su oggetti di uso comune quali le auto BMW, la
Fiat500 e le decorazioni sulle code degli aerei della British Airways in occasione dei
Campionati del Mondo di calcio svoltisi in Sud Africa nel 2010 di cui Esther Mahlangu era
testimonial.
George Lilanga
Nato a Masasi, Tanzania nel 1934. Morto a Dar Es Salam, Tanzania nel 2005.
L’artista proviene dalla grande tradizione della scultura Makonde.
Anche lui scoperto da Jean-Hubert Martin è stato protagonista della mostra “Magiciens de
la Terre”.
E’ la felicità, il segreto vero della pittura di Lilanga: una pittura infinitamente ripetitiva che
però non si ripete mai, fatta di stesure piatte e tuttavia mai superficiale, priva di centro e
volta a espandersi illimitatamente in tutte le direzioni. Lilanga racconta la storia della sua
vita trascorsa in un villaggio nel sud della Tanzania, immerso in storie di shetani e stregoni,
di diavoli e di magia. Gli shetani (spiritelli dispettosi e malevoli, più che diabolici presenti
soprattutto intorno a Zanzibar, lungo la costa sud-orientale della Tanzania e del Mozambico)
si confondono e si mescolano con la vita degli umani, Lilanga li dipinge per esorcizzarli.
Seni Camara
Nata a Bigogna, nella Regione della Casamance, Senegal nel 1945.
Seni Camara è una scultrice, plasma la terracotta che successivamente cuoce in forni
all’aperto. Le sue sculture parlano di famiglia, vista attraverso gli occhi di un bambino. E’ una
scultura asessuata, le forme plasmate dei genitori sono unite sopra i fianchi e non sono
presenti organi sessuali. Madre, padre e bambini – i corpi si mescolano in una confusione di
membra. Ognuno si tocca allegramente, ci si abbraccia, ci si stringe, ci si annida. Il tema
predominante di Seni Camara è quello di un amichevole affetto.
Anche lei ha partecipato alla mostra al Centre Pompidour “Magiciens de la Terre”.
Mikidadi Bush
Nato in Tanzania nel 1957.
E’ stato il vincitore della seconda edizione della Biennale di Malindi.
La sua pittura tratta temi antichi, temi eterni come l’ignoto, il magico, il sotterraneo, il
tribale, li tratta con la stessa modernità con cui i grandi artisti occidentali del XX° secolo
hanno trattato la bellezza, il dolore, la morte, il desiderio di eternità.
I temi del quotidiano si intrecciano con la cultura animista in visioni che ci immergono in
atmosfere oniriche e surreali.
Kivuthi Mbuno
Nato in Kenya nel 1947.
Ci sono modi molto diversi per parlare degli animali e di farli parlare: favole, miti, odi,
racconti di caccia, descrizioni scientifiche, metafore, ricordi belli o brutti, proverbi. Ognuno
possiede il proprio bestiario intimo, ma guardatevi bene intorno, sono sempre gli stessi
animali che ricompaiono proprio come nelle favole. Tra le migliaia di specie viventi sulla terra
solo poche popolano la nostra fantasia e la mettono ancora in agitazione, bestie totemiche e
favolose, cariche di storie e di simboli, molto lontane dai cloni odierni.
In Africa, ogni anno, fiumi di turisti invadono parchi e riserve, macchina fotografica in
pugno, e mitragliano le mandrie di bufali, le giraffe, i leoni, le gazzelle, le zebre, gli gnu...
Ricordi che verranno poi classificati negli album, cartoline strappate all’inquietudine dei
tempi: la pace degli animali, il loro mistero senza tempo. Perché è la, in Africa, e soprattutto
nelle grandi pianure del sud del Kenya, che si può ancora toccare con mano l’immaginario
naif della creazione e della vita selvaggia, avvicinarsi senza rischi alle proprie paure e alle
gioie antiche, ritrovare a grandezza naturale e ben vive, i peluche della propria infanzia.
Peter Wanjau
Nato in Kenya nel 1968.
La sua pittura è una “pittura cattiva” dal segno duro, impreciso, dai fondali anonimi: una
forza dove l’idea poetica sovrasta l’esecuzione.
I temi dei suoi dipinti riguardano il sociale, il sesso, la religione, la malattia, la povertà e la
politica, l’aids che attacca il mondo, la follia del calcio, un’attenzione sempre più accentuata
nei confronti di una popolazione che vive le contraddizioni del sesso, della religione e della
povertà.
Peter Wanjau ha partecipato alla Biennale di Venezia di Harald Szeemann nel 2001.
Presentazione mostra
Io sono sempre stato molto interessato al tema dell’identità: basta citare quello che ho già
scritto negli anni ’70 e le mostre che ho curato.
Nel 1981 una delle mostre si intitolava “ Genius Loci “; l’idea era quella che dopo i modelli
forti nordamericani degli anni ’60 e degli anni ’70, con la crisi del concettuale, del
minimalismo, della fotografia e del video, di tutta la tecnologia che accompagnava la ricerca
artistica in quegli anni, c’è un recupero anche tematico dell’identità del soggetto non solo a
proposito di che fare con l’arte, ma chi è che fa l’arte, quindi l’identità, il tema, il destino
dell’artista.
Questo ha significato, automaticamente, la nascita di un multiculturalismo e di un
policentrismo espositivo e di estinzione dopo che per un secolo, dalla prima metà a Parigi e
dalla seconda metà a New York, questi erano stati i due centri di raccolta di opere e di vita
esistenziale.
Il multiculturalismo negli anni ’80 comincia sempre più ad emergere e d’altra parte anche in
quello che io ho fatto, cioè la transavanguardia trova il tema dell’identità, del “Genius Loci”,
la manualità, la memoria storica, l’eccitazione, il nomadismo culturale.
E’ chiaro che partendo dal nomadismo si arriva naturalmente ad intercettare l’arte africana
contemporanea per il fatto che essa è un deposito di spunti, direi anche involontari, di
linguaggi che noi abbiamo scremato in maniera laica.
Picasso e Matisse guardano le statuette africane in un negozio di antiquariato a Parigi e lì
viene fuori l’intuizione della scomposizione, partendo dal totem africano. Solo che mentre il
totem è un elemento apotropaico e magico e non veniva guardato come opera scultorea.
Matisse, Picasso e cubismo ne fanno un recupero di superficie, linguaggio visivo, per non
parlare poi del bricolage e del rapporto che lo stesso Duchamp ha con “ L’objet trouvé “.
E’ chiaro quindi che l’Africa ha vissuto un esproprio da parte dell’occidente e direi che quasi
in buona fede in nome e per conto di una superiorità di civiltà, si riteneva allora giusto
riappropriarsi dell’arte africana per rinsanguare un linguaggio che in occidente era esangue.
L’arte occidentale prima delle avanguardie storiche, prima di questo incontro con le culture
primitive ha avuto un momento di essiccamento, un momento in cui c’era una specie di
conferma di “ un art pompier “, di un’arte formale, di un’arte che girava semplicemente su
sé stessa.
Man mano questo policentrismo ha creato un’arte diffusa, ha creato un gusto composito
all’interno del sistema dell’arte.
Esiste una coesistenza che ci permette oggi di guardare, noi, l’arte africana o di altri
continenti con un occhio non di recupero esotico, perché possiamo affermare che l’esotismo
anche in letteratura (pensate a Pierre Loti) spinge l’occidente coloniale a guardare al viaggio
come un mezzo per spostarsi ed aprirsi verso altre culture che si ha il dovere di conservare,
pena la distruzione.
Poi sapete bene che sono subentrate l’etnologia e l’antropologia che sono i sintomi di un
senso di colpa dell’occidente, cioè riparare con la catalogazione forse anche un’inevitabile
distruzione.
Il confronto riportava l’occidente a vivere una situazione di superiorità e a considerare le
espressioni di queste nazioni come espressioni esotiche.
Non dimentichiamo che l’occidente ha costretto questi popoli alla ripetizione ossessiva di
modelli standard: questa era anche una conferma che degradava anche il puro prodotto
artigianale.
Adesso che non c’è più la superiorità del vivere rispetto alla fotografia e alla pittura, tutti i
linguaggi sono intercambiabili.
Ecco che possiamo quindi guardare anche all’arte africana contemporanea con oggettività e
serenità e percepire come questi artisti africani di oggi hanno una coscienza, una
consapevolezza che prima, quelli che erano considerati degli artisti naif non potevano avere.
Quindi c’è anche un innesto, una ripresa da parte degli artisti africani di suggestioni che
provengono anche dall’occidente, però è chiaro che l’impianto e l’iconografia sono autentici
ed hanno alle spalle una storia che viene da molto lontano.
Intanto c’è da dire che mentre in occidente c’è una spartizione netta tra astrazione e
figurazione, anche per motivi ideologici (non dimentichiamo che in Russia Malevic è costretto
a riprendere a dipingere le “ babe” cioè le contadine, perché l’arte impegnata era figurativa e
doveva descrivere le condizioni del popolo, il cosidetto realismo zdanovista, mentre da noi
era definito neorealismo socialista, di cui l’esempio più noto è quello di Renato Guttuso).
Quindi c’è questa divaricazione, l’engagement da una parte, cioè l’impegno di descrivere la
realtà, e dall’altra parte l’astrazione, la fuga borghese, e il ripiegamento stigmatizzato anche
dal compagno Ercoli che ne fece una stroncatura in nome e per conto di Benedetto Croce.
In occidente c’era questa divaricazione in nome e per conto dell’ideologia.
Oggi a mente sgombra e cuore lucido possiamo vedere come gli artisti africani
contemporanei non hanno avuto bisogno di smaltire questo dibattito: da sempre in loro c’è
questa coesistenza, quello che si chiama eclettismo stilistico, cioè l’idea della narrazione e
della decorazione.
C’è in qualche modo un elemento di ironia molto forte che l’occidente ha conquistato dopo
molte fatiche, visto che prima l’occidente aveva realizzato un’arte di denuncia.
Negli artisti africani contemporanei c’è una coesistenza di natura e cultura, c’è un
atteggiamento ecologico, c’è sostanzialmente un’involontaria suggestione pop nel loro
lavoro, in più un’attenzione per i cartoon.
E’ curioso come è possibile rintracciare in loro una sorta di struttura mentale che
antropologicamente comprende tutti i mondi della produzione visiva, c’è una forte
iconografia onnicomprensiva.
Nel lavoro di questi sei artisti (Mikidadi Bush, Seni Camara, George Lilanga, Esther
Mahlangu, Kivuthi Mbuno, Peter M. Wanjau) è interessante vedere la coesistenza di un
eclettismo astratto e figurativo, fatto di disegni, pittura e scultura, e c’è anche una sorta di
disincanto e di presenze marcate a proposito di identità.
Non a caso Esther Mahlangu ha un linguaggio sostanzialmente di continua conferma, perché
lei è proprio l’artista, la pittrice che sceglie di essere lo spirito della casa. Lei dipinge i muri
delle case non solo all’interno ma anche all’esterno, diventa quindi anche un architetto del
colore. Lei è quindi una figura che è il caso di definire apotropaica e magica.
Insomma questi sei artisti credono nell’arte. Interessante è capire che l’arte africana
contemporanea fa un passaggio, si apre all’atteggiamento più laico a questa coscienza e
capisce che l’arte, come termine, deriva da “ techne “, è artificio e linguaggio.
Quindi oggi io trovo una continuità, nessuna ingenuità tra questi artisti e quello che si
produce in occidente.
Non possiamo parlare qui di una scuola di arte africana contemporanea: questi sono artisti
che hanno una totale libertà, hanno questo slittamento, questa apertura ed intreccio tra
astratto e figurativo, questo nomadismo, questa idea del racconto, l’idea del cartoon, una
visione pop, una capacità di illustrare attraverso le immagini condizioni di vita quotidiana.
Achille Bonito Oliva
(Immagine: Ester Mahlangu, acrilico su tela, 2010)
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Conferenza stampa 16 giugno ore 12.00
sarà presente il curatore Achille Bonito Oliva
Inaugurazione: 16 giugno 2011 alle ore 18.00
Fondazione 107
Via Sansovino 234, Torino
Orari: giovedì – domenica 14.00 – 19.00 (chiusura estiva 1 agosto – 31 agosto) 5 novembre ore 14-22
Ingresso: intero 5 euro, ridotto 3 euro (ragazzi dai 13 ai 18 anni e over 65 anni)
Gratuito bambini (0-12 anni) e possessori di Abbonamento Musei Piemonte