La Nerezza del Nero. Il nero assoluto non esiste, scriveva Vincent van Gogh. Il nero, egli diceva, forma l'infinita varieta' dei grigi. In che modo, allora, distinguere la nerezza del nero? Un convegno a cura di Patrizia Magli e Angela Vettese.
Il nero assoluto non esiste, scriveva Vincent van Gogh a suo fratello. Il nero, egli diceva, forma l’infinita varietà dei grigi, tra loro diversi per tono e per forza. In che modo, allora, distinguere la nerezza del nero secondo una scala di gradazioni all’interno di questa “infinita varietà dei grigi”? Perfino un grigio chiaro può apparire quasi nero o decisamente nero se accostato ad un bianco abbagliante. Nessun colore infatti vive in un regime di solitudine. E tuttavia, anche se lo considerassimo in uno stato di isolamento ideale, come le monocromie radicali in pittura o gli esperimenti di laboratorio, il nero è un complesso di configurazioni variabili. L’esperienza del nero, del nero osservato nelle sue varie manifestazioni e supporti materici, lo configura come un processo, come un’ininterrotta oscillazione tra colore e incolore, tra il buio più impenetrabile, le tenebre, fino all’ombra e alla penombra, quest’ultime invece già creature della luce. Il nero inteso come processo di intensificazione e attenuazione, di scolorimento e trascoloramento, è un divenire attraverso gradualità di transizioni. Ma c’è di più. Come John Cage suggeriva, se i monocromi di Rauschenberg invitavano l’osservatore a fare l’esperienza del “vuoto” e del “silenzio”, il nero si dà non solo come conoscenza visiva, ma come teatro dove è possibile riconoscervi sequenze di fasi, di spazi, di momenti. Back to black, dunque, come annuncia Amy Winehouse nella canzone da cui abbiamo tratto parte del titolo del nostro convegno! Innanzitutto il nero, in quanto evocatore simbolico del buio, permette una formidabile manipolazione dello spazio: nel buio, non sappiamo più dove siamo, non possiamo determinare la nostra posizione, la nostra strada, ci sentiamo “perduti.
Questo disorientamento evocato dal nero (e che il mondo animale conosce sia come strategia di attacco che di difesa) riguarda, anche il design e l’architettura. Queste ultime, infatti, lavorando cromaticamente sulle superfici delle cose o delle case, producono, con il nero e le sue declinazioni, effetti di intervallo o di scansione ritmica negli edifici, nei paesaggi urbani. Nell’arte si tratta invece di vedere come le pitture monocrome radicali si presentino come “immagini perfette”: ora rappresentazione della negazione stessa della rappresentazione, del Vuoto e del Nulla, ora, al contrario, evocazione dell’assoluto, rappresentazione dell’irrapresentabile, del “sublime senza mediazioni”, di una Verità immanente, sottratta alle ingannevoli apparenze del figurativo. Dalle Pinturas negras di Goya a Malevich, da Rodtchenko alle Black Paintings di Reinhardt, Rauschenberg, Stella, Rothko, Black-Square-Painting Shows, si tratta di vedere come queste opere problematizzino la questione stessa del vedere, di ciò che ci è dato vedere e ciò che crediamo di vedere. Di un troppo o troppo poco da vedere. Potenza del nero, dunque. Di qui una serie di problemi di ordine epistemologico che riguardano sia la letteratura che la filosofia. Genre Noir, humour noir, rabbia nera, teatro nero, black fashion, il nero si configura come un provocatorio terreno transdisciplinare. Ma è soprattutto nel dominio delle tinte, dei tessuti e dei vestiti, dai gioielli neri della Regina Vittoria alla “petite robe noir” di Chanel, che si mescolano più strettamente problemi chimici, tecnici e materici con questioni sociali, ideologiche, simboliche e, soprattutto, estetiche. Parafrasando Merleau-Ponty a proposito del colore, potremmo dunque dire che il nero è un fossile estratto dal fondo dei mondi immaginari, è “qualcosa che non è cosa, ma possibilità, latenza e carne delle cose”.
Fondazione Bevilacqua La Masa
Dorsoduro, 2826 (Palazzetto Tito) Venezia
Orario: 9.30-19