Elogio alle vagabonde. Lavori in bilico tra scultura, installazione e pittura realizzati con fili d'erba.
Ci sono giardini eleganti, perfetti, accademici, studiati a tavolino, che seguono una norma senza interpretarla. Sono giardini senza personalità. Noiose esercitazioni di stile. Non è raro che simili giardini vengano salvati da un’erbaccia. Un’erba selvatica, imprevedibile, capace di “scompigliare la percezione che abbiamo della natura”. Come annota Richard Mabey nel suo “Elogio delle erbacce”: “Le erbacce sono importanti perché hanno la capacità di riportare in vita terreni abbandonati, maltrattati, distrutti, calpestati. Sono un po’ come infermieri, medici e medicine”. E le erbacce sono, non lo dimentichiamo, libere e anticonformiste. Trovo davvero straordinario che due erbacce selvatiche come Antonio Testa e Vittorio Comi si siano incontrate proprio su questo tema: gallerista davvero sui-generis il primo, capace di trasformare il suo negozio di parrucchiere in un luogo di riferimento per l’arte nel territorio, e artista fuori dal comune il secondo, artefice di opere che dialogano con la natura; lavori vivi, mutevoli e in costante evoluzione, in bilico tra scultura, installazione e pittura che, giocando con la tradizione, usano l’erba come materia.
Bene: l’Arte ha bisogno di questo genere di erbe vagabonde.
Simona Bartolena
Testa&co
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