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Filippo Porcelli
dal 26/1/2012 al 28/1/2012
sab 15-21, dom 11-17

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Filippo Porcelli



 
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26/1/2012

Filippo Porcelli

CaseAperte, Bologna

'Quando eravamo il futuro' e' un film risultato del laboratorio universitario NowHere e rappresenta la storia di chi ha oggi 20 anni e vive Bologna da studente incrociando identita', trasformazioni e saperi.


comunicato stampa

Quando eravamo il futuro è un film di 40' circa risultato del laboratorio universitario NowHere tenuto dal regista Filippo Porcelli nel 2011 a Bologna con studenti di Scienze della Comunicazione e Scienze della Formazione in Sala Borsa negli spazi Alma Mater.

Gli studenti hanno lavorato assieme all'autore sulla fitta trama di scambi tra vita reale e rappresentazioni immaginali, partendo dalla memoria visiva personale. In questo senso, il film rappresenta la microstoria di chi ha oggi 20 anni e vive Bologna da studente incrociando identità, trasformazioni e saperi fatti di rapporti e di vissuto.

Il mito: città e cittadini.
Una grammatica della mitologia sociale di Filippo Porcelli.
"Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. " Genesi, 2 1,4.

Infine, nel settimo giorno, l'Uomo creerà la televisione.
La Genesi raccontava così "Quando eravamo il futuro". Da questo racconto nasce il lavoro di Filippo Porcelli. E non di una religione si parla, bensì di una mitologia, come quella che precede ogni religione e insegna l'esistenza di un Dio e di un Uomo. L'immagine amniotica, l'assoluta cifra dell'arte, è lo strumento unico del mito futuro del quale Porcelli individua grammatica e sintassi.

Ebbene, mentre i primi della terra, nati dal caos primordiale, furono privi di senso e di segni, oggi noi, nati dall'ordine sociale, siamo saturi di segnali e di comunicazioni. I segni visivi e sonori sono ovunque, in un continuo sovrapporsi di creatività non risolte che finiscono, tutte, nel grande calderone del caos, definito perfettamente da Gillo Dolfres come Horror pleni. L'immagine cessa di essere solo una descrizione e diventa simbolo capace di caricarsi di significati universali e avveniristici, che si comunicano in maniera sempre più autonoma. Sorge evidentemente la necessità di avere una grammatica per leggerli, un poter discorrere in maniera razionale e strutturata del racconto/mito.

Le narrazioni che compongono questa nuova mitologia sociale non sono altro che il vasto repertorio di esperienze e di memorie personali e collettive, della loro dilatazione sonora e visiva intenta a rappresentare l'origine del popolo privilegiato, non più quello che fu, la divinità, ma quello che sarà, l'umanità. Osserviamo il lavoro di Porcelli.

Nel fiume di immagini e suoni, teoricamente immateriale, la proiezione si trasforma in esercizio di meditazione. I frammenti di vita che investono la nostra percezione sembrano irreali, poetici o drammatici, a causa di una coercizione visiva indotta dal collage tecnicamente perfetto della narrazione (tele) visiva. Introdotto il primo termine puramente artistico, collage, vogliamo specificare come questa analisi parte e si sviluppa nella ferma convinzione che video, film, mediometragggo o qualunque altra etichetta posta a definire il lavoro di Filippo Porcelli, a nostro avviso è restrittiva e insufficiente. Il cinema è autoritario, obbliga una fruizione unilaterale e contempla sempre uno schema di inizio e di fine. Il video è dinamico e poliedrico, scorre a loop e contiene un'apertura temporale. Ma quale definizione può assumere il lavoro che contiene le caratteristiche di entrambi generi mediatici?

Da quando, nel 1968, Nam Jun Paik formalizzò il termine "video-arte" per definire la nascita della electronic art, si susseguirono nella storia del arte numerose tendenze, tutte legate al medium tecnologico: installazioni, video-installazioni, installazioni interattive, video scultura, video-ambienti, performance, cortometraggi, e, talvolta, lungometraggi d'arte, arte digitale, video poesia, poesia elettronica etc.

Con gli anni '60-'70 il medium, sdoganato da Marshal McLuhan, diventa il messaggio, diventa tutto. L'arte, nella sua nuova follia iconoclasta, è pronta ad assumere ogni aspetto e negare ogni regola.

Queste poche parole di storia ci permettono di avvicinare la ricerca di Filippo Porcelli di un nuovo linguaggio con una nuova sintassi allo schema mitologico, che non è altro che la grammatica della cultura e, di conseguenza, dell'arte. Un'azione culturale, quindi, che produce arte.

Porcelli attinge non solo dal cassetto dell'immaginario, come ogni artista, ma anche e soprattutto dall'immenso repertorio del reale. Le immagini, a volte policrome e poetiche, ci trasportano in dimensioni metafisiche, da sogno, per provocare, dopo, bruschi risvegli con gli scorci del brutto che ci circonda. L'uomo, in quanto animale sociale, è facilmente manipolabile tramite le proprie sicurezze e paure, così personali e così collettive. Porcelli, con la semplicità e l'immediatezza della pennellata, collauda le scene dei suoi quadri videati che non rappresentano più il mondo, con o senza mimesi, ma lo proiettano in diretta. Lo spettatore non è invitato a riconoscersi o a rispecchiarsi nel lavoro, non gli è chiesto di concentrasi per cogliere un concetto velato, non lo si coinvolge in una reazione impulsiva. Chi fruisce i lavori di Porcelli, è perché è già dentro di essi. Ricordiamo che tutto è riferito al mondo fenomenico, niente è inventato, ma tutto è combinato. E' qui che sta il gesto creativo, non soltanto nel sapiente montaggio o nella ripresa, quanto nella selezione di frammenti audio e video creati da altri. Ci troviamo, dunque, davanti a una specie di gioco Dada con dei ready-made oppure davanti a un opera d'arte partecipata? Entrambe; se il gesto creativo sta nella capacità di riconoscere e sfruttare i segni rivelatori che trasformano in simboli le immagini e, di conseguenza, coordinarli in strutture narrative, allora il regista diventa artista in quanto sia artefice/costruttore che ideatore di un nuovo linguaggio espressivo. Si tratta di una scrittura creativa che contiene nella sua grammatica video, televisione, cinema, letteratura, pubblicità, arte visiva e dunque, una molteplicità di espressioni artistiche. E' questo il fatto che ci ha spinti ad affermare, all'inizio di questa analisi su Porcelli, che non di semplice video-arte si tratta ma di un sistema che accomuna e disciplina diverse espressioni culturali dell'immaginario umano; i diversi miti dell'homo laicus, costruendo la mitologia sociale del contemporaneo.

"Quando eravamo il futuro" è uno dei lavori più corposi e completi di Porcelli. Le immagini come simboli, come colori rimangono in secondo piano e da esse emerge l'uomo, le sue azioni, il suo modo di essere. Di ognuno? Sì, ognuno è chiamato a partecipare, partecipa, ha partecipato, consciamente o no , in quanto il progetto è "arte attivo", aperto a partecipazioni, interazioni, pro e post azioni. Si partecipa fornendo un video, si interagisce con l'esposizione (per non chiamarla proiezione) e quindi si agisce, prima, riprendendo il video, o dopo, percependo la proiezione, per la creazione dell'opera. L'intento è di creare un repertorio universale, un vocabolario in continuo aggiornamento delle voci che sono le immagini e i suoni che abbiamo voluto immortalare (registrare) tramite una protesi tecnologica del nostro occhio e della nostra mente, la macchina da presa. In questo contesto d'insieme dei trattamenti metaforici e tecnici del video si converge su un punto: quello della definizione di contenuti e problematiche che attivino una riflessione bilaterale, del fare e del fruire, sull'arte in relazione con i canali dei "media" e delle tecnologie in generale.

Seguendo il pensiero di Marshall McLuhan, interattività, tattilità e tridimensionalità sono le caratteristiche intrinseche dell'immagine video e digitale nella sua relazione con il pubblico. L'interazione, lo scambio, il feedback concreto, visivo ed emotivo, dovrebbe quindi diventare per l'arte un nuovo meccanismo di indagine e di ricerca. Il lavoro di Porcelli riflette sul consumo dell'immagine e sull'installazione planetaria formata dalla presenza, in ogni casa, di un oggetto come la televisione. Ma esso è solo il pretesto di un futuro che sarà scelto, non solo immaginato, ma dimostrato, raccontato tramite la nuova scrittura della realtà registrata.

L'insegnamento di un linguaggio contiene l'apprendimento del vocabolario, della grammatica, della sintassi e della loro applicazione nella composizione delle frasi. Una serie di lavori di Filippo Porcelli nominata "BE POP", è esemplare in questo senso, in quanto composto da frame o poster cinematografici "corretti" da inserimenti di immagini apparentemente "estranee". Se il lavoro dell'artista è intento ad illustrare ed insegnare un nuovo linguaggio tramite immagini in movimento, i segni della scrittura non sono altro che i fotogrammi, catturati dal filmato, o direttamente dei poster pubblicitari, che non sono altro che la concentrazione, in una sola immagine, dell'intero racconto. Una volta acquisite le parole/immagini, l'artista procede a strutturarle grammaticalmente tramite declinazioni, congiunzioni e tempi, ovvero inserti visivi che condizionano e cambiano radicalmente il significato della rappresentazione. Come il BEBOP rivoluzionò il jazz con le sue elaborazioni armoniche innovative, cosi il BEPOP libera l'interpretazione dell'immagine da ogni vincolo percettivo.

Denitza Nekova

Inaugurazione: venerdì 27 gennaio ore 19

CaseAperte
via Boldrini, 12 c - Bologna
Orari: sabato 28 dalle 15.00 alle 21.00
domenica 29 dalle 11.00 alle 17.00

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