'Quando eravamo il futuro' e' un film risultato del laboratorio universitario NowHere e rappresenta la storia di chi ha oggi 20 anni e vive Bologna da studente incrociando identita', trasformazioni e saperi.
Quando eravamo il futuro è un film di 40' circa risultato del laboratorio
universitario NowHere tenuto dal regista Filippo Porcelli nel 2011 a Bologna con
studenti di Scienze della Comunicazione e Scienze della Formazione in Sala Borsa
negli spazi Alma Mater.
Gli studenti hanno lavorato assieme all'autore sulla fitta trama di scambi tra vita
reale e rappresentazioni immaginali, partendo dalla memoria visiva personale. In
questo senso, il film rappresenta la microstoria di chi ha oggi 20 anni e vive
Bologna da studente incrociando identità, trasformazioni e saperi fatti di rapporti
e di vissuto.
Il mito: città e cittadini.
Una grammatica della mitologia sociale di Filippo Porcelli.
"Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò
nel settimo giorno da ogni suo lavoro. " Genesi, 2 1,4.
Infine, nel settimo giorno, l'Uomo creerà la televisione.
La Genesi raccontava così "Quando eravamo il futuro". Da questo racconto nasce il
lavoro di Filippo Porcelli. E non di una religione si parla, bensì di una mitologia,
come quella che precede ogni religione e insegna l'esistenza di un Dio e di un Uomo.
L'immagine amniotica, l'assoluta cifra dell'arte, è lo strumento unico del mito
futuro del quale Porcelli individua grammatica e sintassi.
Ebbene, mentre i primi della terra, nati dal caos primordiale, furono privi di senso
e di segni, oggi noi, nati dall'ordine sociale, siamo saturi di segnali e di
comunicazioni. I segni visivi e sonori sono ovunque, in un continuo sovrapporsi di
creatività non risolte che finiscono, tutte, nel grande calderone del caos, definito
perfettamente da Gillo Dolfres come Horror pleni. L'immagine cessa di essere solo
una descrizione e diventa simbolo capace di caricarsi di significati universali e
avveniristici, che si comunicano in maniera sempre più autonoma. Sorge evidentemente
la necessità di avere una grammatica per leggerli, un poter discorrere in maniera
razionale e strutturata del racconto/mito.
Le narrazioni che compongono questa nuova mitologia sociale non sono altro che il
vasto repertorio di esperienze e di memorie personali e collettive, della loro
dilatazione sonora e visiva intenta a rappresentare l'origine del popolo
privilegiato, non più quello che fu, la divinità, ma quello che sarà, l'umanità.
Osserviamo il lavoro di Porcelli.
Nel fiume di immagini e suoni, teoricamente immateriale, la proiezione si trasforma
in esercizio di meditazione. I frammenti di vita che investono la nostra percezione
sembrano irreali, poetici o drammatici, a causa di una coercizione visiva indotta
dal collage tecnicamente perfetto della narrazione (tele) visiva. Introdotto il
primo termine puramente artistico, collage, vogliamo specificare come questa analisi
parte e si sviluppa nella ferma convinzione che video, film, mediometragggo o
qualunque altra etichetta posta a definire il lavoro di Filippo Porcelli, a nostro
avviso è restrittiva e insufficiente. Il cinema è autoritario, obbliga una fruizione
unilaterale e contempla sempre uno schema di inizio e di fine. Il video è dinamico e
poliedrico, scorre a loop e contiene un'apertura temporale. Ma quale definizione
può assumere il lavoro che contiene le caratteristiche di entrambi generi
mediatici?
Da quando, nel 1968, Nam Jun Paik formalizzò il termine "video-arte" per definire la
nascita della electronic art, si susseguirono nella storia del arte numerose
tendenze, tutte legate al medium tecnologico: installazioni, video-installazioni,
installazioni interattive, video scultura, video-ambienti, performance,
cortometraggi, e, talvolta, lungometraggi d'arte, arte digitale, video poesia,
poesia elettronica etc.
Con gli anni '60-'70 il medium, sdoganato da Marshal McLuhan, diventa il messaggio,
diventa tutto. L'arte, nella sua nuova follia iconoclasta, è pronta ad assumere
ogni aspetto e negare ogni regola.
Queste poche parole di storia ci permettono di avvicinare la ricerca di Filippo
Porcelli di un nuovo linguaggio con una nuova sintassi allo schema mitologico, che
non è altro che la grammatica della cultura e, di conseguenza, dell'arte. Un'azione
culturale, quindi, che produce arte.
Porcelli attinge non solo dal cassetto dell'immaginario, come ogni artista, ma anche
e soprattutto dall'immenso repertorio del reale. Le immagini, a volte policrome e
poetiche, ci trasportano in dimensioni metafisiche, da sogno, per provocare, dopo,
bruschi risvegli con gli scorci del brutto che ci circonda. L'uomo, in quanto
animale sociale, è facilmente manipolabile tramite le proprie sicurezze e paure,
così personali e così collettive. Porcelli, con la semplicità e l'immediatezza
della pennellata, collauda le scene dei suoi quadri videati che non rappresentano
più il mondo, con o senza mimesi, ma lo proiettano in diretta. Lo spettatore non è
invitato a riconoscersi o a rispecchiarsi nel lavoro, non gli è chiesto di
concentrasi per cogliere un concetto velato, non lo si coinvolge in una reazione
impulsiva. Chi fruisce i lavori di Porcelli, è perché è già dentro di essi.
Ricordiamo che tutto è riferito al mondo fenomenico, niente è inventato, ma tutto è
combinato. E' qui che sta il gesto creativo, non soltanto nel sapiente montaggio o
nella ripresa, quanto nella selezione di frammenti audio e video creati da altri. Ci
troviamo, dunque, davanti a una specie di gioco Dada con dei ready-made oppure
davanti a un opera d'arte partecipata? Entrambe; se il gesto creativo sta nella
capacità di riconoscere e sfruttare i segni rivelatori che trasformano in simboli le
immagini e, di conseguenza, coordinarli in strutture narrative, allora il regista
diventa artista in quanto sia artefice/costruttore che ideatore di un nuovo
linguaggio espressivo. Si tratta di una scrittura creativa che contiene nella sua
grammatica video, televisione, cinema, letteratura, pubblicità, arte visiva e
dunque, una molteplicità di espressioni artistiche. E' questo il fatto che ci ha
spinti ad affermare, all'inizio di questa analisi su Porcelli, che non di semplice
video-arte si tratta ma di un sistema che accomuna e disciplina diverse espressioni
culturali dell'immaginario umano; i diversi miti dell'homo laicus, costruendo la
mitologia sociale del contemporaneo.
"Quando eravamo il futuro" è uno dei lavori più corposi e completi di Porcelli. Le
immagini come simboli, come colori rimangono in secondo piano e da esse emerge
l'uomo, le sue azioni, il suo modo di essere. Di ognuno? Sì, ognuno è chiamato a
partecipare, partecipa, ha partecipato, consciamente o no , in quanto il progetto è
"arte attivo", aperto a partecipazioni, interazioni, pro e post azioni. Si partecipa
fornendo un video, si interagisce con l'esposizione (per non chiamarla proiezione) e
quindi si agisce, prima, riprendendo il video, o dopo, percependo la proiezione, per
la creazione dell'opera. L'intento è di creare un repertorio universale, un
vocabolario in continuo aggiornamento delle voci che sono le immagini e i suoni che
abbiamo voluto immortalare (registrare) tramite una protesi tecnologica del nostro
occhio e della nostra mente, la macchina da presa. In questo contesto d'insieme dei
trattamenti metaforici e tecnici del video si converge su un punto: quello della
definizione di contenuti e problematiche che attivino una riflessione bilaterale,
del fare e del fruire, sull'arte in relazione con i canali dei "media" e delle
tecnologie in generale.
Seguendo il pensiero di Marshall McLuhan, interattività, tattilità e
tridimensionalità sono le caratteristiche intrinseche dell'immagine video e digitale
nella sua relazione con il pubblico. L'interazione, lo scambio, il feedback
concreto, visivo ed emotivo, dovrebbe quindi diventare per l'arte un nuovo
meccanismo di indagine e di ricerca. Il lavoro di Porcelli riflette sul consumo
dell'immagine e sull'installazione planetaria formata dalla presenza, in ogni casa,
di un oggetto come la televisione. Ma esso è solo il pretesto di un futuro che sarà
scelto, non solo immaginato, ma dimostrato, raccontato tramite la nuova scrittura
della realtà registrata.
L'insegnamento di un linguaggio contiene l'apprendimento del vocabolario, della
grammatica, della sintassi e della loro applicazione nella composizione delle frasi.
Una serie di lavori di Filippo Porcelli nominata "BE POP", è esemplare in questo
senso, in quanto composto da frame o poster cinematografici "corretti" da
inserimenti di immagini apparentemente "estranee". Se il lavoro dell'artista è
intento ad illustrare ed insegnare un nuovo linguaggio tramite immagini in
movimento, i segni della scrittura non sono altro che i fotogrammi, catturati dal
filmato, o direttamente dei poster pubblicitari, che non sono altro che la
concentrazione, in una sola immagine, dell'intero racconto. Una volta acquisite le
parole/immagini, l'artista procede a strutturarle grammaticalmente tramite
declinazioni, congiunzioni e tempi, ovvero inserti visivi che condizionano e
cambiano radicalmente il significato della rappresentazione. Come il BEBOP
rivoluzionò il jazz con le sue elaborazioni armoniche innovative, cosi il BEPOP
libera l'interpretazione dell'immagine da ogni vincolo percettivo.
Denitza Nekova
Inaugurazione: venerdì 27 gennaio ore 19
CaseAperte
via Boldrini, 12 c - Bologna
Orari: sabato 28 dalle 15.00 alle 21.00
domenica 29 dalle 11.00 alle 17.00