Storie dipinte. La tecnica diventa sfida, sperimentazione (litografie con matrici di cartone, per esempio); talora fra tecnica e prodotto artistico, fra idea e materiale si instaurano legami piu' forti, biunivoci, inediti.
Far visita alla casa e al laboratorio di Stefano Ius è già di per sé un'esperienza che resta nel ricordo. Ti resta intanto la sua voglia di comunicare, pacata e torrentizia al tempo stesso, la voglia di raccontarsi il senso delle cose che fa, dei suoi quadri inseguendo occasioni, incroci fra biografia e arte, spunti. Lo ascolto trascinato dalle parole e intanto sfoglio tre album che rappresentano la stagione più recente del suo percorso. Me li mette sotto gli occhi senza darci troppo peso: album grandi, splendida rilegatura, grande cura formale, stampa di decine di disegni scansionati e affiancati a costituire una storia. Un fumetto, come confermano i "fumetti", appunto. Una Biancaneve metropolitana, una favola russa, un racconto autobiografico. Parla e intanto sfoglio. Trovo che siano ben più che fumetti, sono quadri in più puntate, storie che l'autore ha abbracciato, pensato, vissuto perfino prima di sfornare decine e decine di schizzi, tavole.
Poi ti resta l'immagine incredibile del suo laboratorio, un fienile riadattato a contenitore di una fantasia e di una creatività che letteralmente deborda: saranno due trecento metri quadri di idee, progetti, prototipi, tavoli ingombri di modelli, quadri, tavole, stampe. Una stanza delle meraviglie quale non ti aspetteresti proprio di trovare in quel di Castions, tre piani di idee convertite in legno e carta.
Lo vedi nelle cose, l'eclettismo di Stefano Jus, nella sua storia che è passata attraverso la progettazione-esecuzione di giocattoli in legno, macchinari improbabili e suggestivi capaci di animare la materia, o attraverso la progettazione edilizia o la stampa, la pittura, il mosaico, la grafica. Una ricerca inesausta di accostamenti, di soluzioni che lo porta a disegnare, ovunque e comunque, sfornando disegni su disegni, bozzetti, collages, oppure ad accostare rami contorti cercando giochi di ombre, a creare meccanismi, strumenti musicali compositi. La tecnica diventa sfida, sperimentazione (litografie con matrici di cartone, per esempio), talora fra tecnica e prodotto artistico, fra idea e materiale si instaurano legami più forti, biunivoci, inediti.
Stefano Jus continua a parlare il suo fiume di parole e io lo ascolto e guardo le sue cose, cerco parole sue che descrivano quello che vedo. Mi stupisce il ricorrere di tre termini, coi quali mi pare si possa tentare una triangolazione del suo lavoro, nei quali riconosco lo spettacolo che ho davanti: riconoscibilità, riproducibilità, storia. Un dato di coscienza, verrebbe da dire, uno tecnico, uno artistico. Stefano Jus nella sua incredibile produttività, legata ora al mondo della scuola ora alla committenza, sempre al piacere personale e alla curiosità, cerca di riconoscersi nelle cose che fa. Lui stesso, credo, guarda stupito la mole di cose che gli crescono intorno, disegni, oggetti, sculture e si chiede, ti chiede, quale sia la chiave per capire. Al di là dell'entusiasmo giovanile che porta a fare di tutto e che nemmeno con gli anni viene meno, la forza nuova dei suoi lavori è il bisogno di trovare un senso al fare. Questa domanda si declina come vedremo anche in un bisogno di specchiarsi, di capire come si è visti, cosa ci distingue e cosa di accomuna con il lettore, il visitatore, l'ammiratore.
La riproducibilità è un fatto tecnico, dopo il saggio di Walter Benjamin, è una delle caratteristiche riconosciute del fare arte nel mondo moderno. Su questo tema Stefano Jus lavora molto, ma soprattutto si interroga. Da un lato la sua professione lo ha avvicinato al mondo del mosaico in cui l'unicità del manufatto è più marcata, dall'altro il richiamo forte è verso l'uso di matrici, tecniche nuove di stampa che consentano la duplicazione, la ricerca di variazioni di effetti tramite maschere, sovrapposizioni, passaggi successivi al torchio o con stampi di varia natura (magari inventati per l'occasione, per curiosità). Anche qui la ricerca nasce dal bisogno di collocarsi, in bilico fra un fare artistico che si pone di solito come gesto unico e le possibilità offerte dal mondo del design, del fumetto, della stampa. I "fumetti" che ho davanti sono splendide copie uniche ma meriterebbero tirature numerate di qualche centinaio di copie. La serialità, la riproducibilità non è cercata evidentemente con l'ottica del mercato ma per le sue possibilità. Magari per la magica dialettica che si instaura fra matrice e calco, fra prodotto di partenza e prodotto di arrivo, come se dell'opera d'arte fosse fondamentale conservare anche i passaggi intermedi (nella mostra di Cordenons sono esposti esempi interessanti in tal senso). Si colloca qui anche la serie di libri, spesso rilegati in legno, un'altra delle costanti "materiche" del lavoro di Jus (e del resto codex deriva proprio dal legno delle prime copertine, un paio di millenni fa). Il libro, cioè il prodotto più serializzabile, diventa qui copia unica, e pagina dopo pagina dipana una storia, ti inoltra in un bosco narrativo, per citare un libro di Eco di qualche anno fa: pagina dopo pagina le immagini si semplificano, perdono dettagli, in una storia di essenzializzazione progressiva, o magari si accavallano, si richiamano, si citano. Serialità ricondotta a unicità e viceversa, interrogarsi suggestivo sul senso del fare, soprattutto del fare nel tempo.
Operazione artistica dunque come serie di passaggi, storia. E siamo al terzo nodo che ci pare di cogliere dalle parole e dalle opere di Stefano Jus, la storia appunto. Al di là di soggetti che per loro vocazione si pongono come "storici", per esempio dei cicli di affreschi e mosaici che hanno la storia come motore di fondo, il racconto e la narrazione sono parte di ogni opera di questo artista, ci pare. Lo documenta intanto la sua collaborazione e il suo interesse nella realizzazione di spettacoli teatrali, quasi la pittura e la scultura chiedessero di essere collocate in un "agito", di partecipare di un racconto.
Così nella splendida serie di dipinti e sculture, eterogenei quanto a tecnica e forse anche a ispirazione, che Stefano Jus aggrega nella sequenza del Cantico dei cantici, quasi l'esito di un opera trovasse la sua conclusione vera inserendosi in un racconto, magari racconto di se stesso o del suo farsi, come suggerisce bene il poliptoto del titolo biblico. Il quadro non è sufficiente, diventa trittico, narrazione continua, sequenza, ciclo.
A volte questa natura "narrativa dell'opera d'arte si esprime nel carattere del dinamismo che caratterizza molte opere, da installazioni con meravigliosi e fiabeschi uccelli di legno che sembrano volare via da un istante all'altro a bizzarri meccanismi in legno che hanno in sè la capacità di animarsi, trasformarsi (certe realizzazione di design in legno, pieghevoli e articolate, si basano sulla stessa proprietà). A volte è la carta stessa, senza altri segni, è eletta a protagonista di questo "accadere", carta appallottolata, stappata, sagomata e usata come personaggio di una storia senza parole. Fiaba di niente, nemmeno dipinta, nemmeno corredata di parola, favola di favola. Altre volte la storia è aggregazione, affollamento di oggetti: in certi quadri fatti di oggetti accostati come fossero tessere, magari mescolati davvero a tessere, si sperimentano "storie sincroniche" in cui ciascuno degli oggetti rappresenta un segmento, esiste perché è un tratto di narrazione accanto ad altri, divenire e metamorfosi condensati in un istante.
E non è un caso allora che proprio il fumetto d'arte (non ho definizione migliore per questi oggetti meravigliosi che ancora sto sfogliando sul suo tavolo di legno massiccio) sia l'ultimo approdo della sua ricerca, lo spazio in cui dipingere e narrare si identificano.
Penso a queste tre parole mentre scorro alcune tavole che Stefano Jus mi sciorina su un tavolo del laboratorio. Appartengono alla serie dei condomini, ricca, accarezzata dall'artista in una sequenza notevole di variazioni. Riquadri-finestra in cui si muove un'umanità tormentata, a volte banale nei gesti, monotona, altre volte presa nelle sue piccole tragedie e nelle sue passioni. La finestra è il modulo da replicare (ecco che ritorna il tema del modulo…), ma ha in sé la variazione, perché la finestra è anche storia, microstorie sincroniche magari che però finiscono per saldarsi insieme. Ne nasce una storia unica composta di segmenti, sicchè dalle finestre aperte il personaggio è uno solo, replicato mille volte, magari noi che ci stiamo guardando mentre viviamo. E quindi la finestra e il condominio fanno anche il gioco del riconoscimento, perché questa folla incredibile è e si sente anonima, ha bisogno di vedersi rispecchiata. Le finestre sono schermi, video, e la televisione è il grande aggregatore, lo specchio in cui ciascuno si vede vivere, il gioco che abbiamo creato e che finisce per darci senso, in quel paradossale cortocircuito fra guardare ed essere guardati che è per l'artista un gioco di specchi sempre stimolante inquietante.
La triade concettuale che mi ha guidato si arricchisce via via di stimoli nuovi, ma uno in particolare sembra aprire prospettive nuove alla sensibilità di Stefano Jus, ovvero la visione a tratti acre a tratti piena di compassione sulla modernità, su questo nostro mondo che si mostra capace del meglio e del peggio. Me lo racconta l'intimità delle famiglie violata dalla massificazione, dall'invadenza della televisione, ma me lo racconta anche la storia di Biancaneve tradotta magistralmente in una storia di oggi, ambientata nelle periferie degradate di una metropoli. Le storie che attraversavano la pittura di Stefano Jus raccontano oggi di imbarbarimenti inquietanti, di attraversamenti sofferenti che il soggetto compie nel dolore, con vene nuove di ironia, magari di sarcasmo, o al contrario di malinconia e tenerezza. Anche lo sguardo rivela la modernità della percezione, fatta oggi più di icone, spot, videate riproposte migliaia di volte con cui l'artista gioca, con cui magari provoca, con cui comunque fa i conti.
Dirò ancora della penetrante sensibilità per certi impatti cromatici (penso a certi studi sul rosso di Caravaggio o a certi inserti cromatici in posizioni inattese)? O dello slancio con cui l'idea si condensa ogni volta nelle linee della matita, fogli su fogli, magari di notte, sotto lo sguardo di disappunto ammirato di chi gli vive a fianco?
Mi basta aver indicato tre nodi che mi paiono centrali, che consentono un percorso. Il resto non mancheranno di raccontarlo le opere stesse a chi si fermerà per guardarle.
Paolo Venti
Centro Culturale Aldo Moro
via Traversagna, 4 - Cordenons (PN)
Da lunedi a sabato 16 - 19
Ingresso libero