Oggetti Umani / Paesaggi dell'anima. Klapheck paragona l'atto del dipingere a una seduta psicanalitica mentre per Richter-Forgach la pittura non e' racconto ma "visione".
Konrad Klapheck paragona l'atto del dipingere a una seduta
psicanalitica, nella quale il paziente, sdraiato sul lettino, racconta
al dottore il suo sogno cercando di trovarvi un significato: "Ecco, il
quadro è il mio sogno e il titolo arriva alla fine, per associazione
d'idee, in maniera semiautomatica, fornendo una possibile chiave di
lettura a quello che anche per me rimane un enigma. Il quadro è sempre
più intelligente dell'autore!".
Per l'artista di Düsseldorf dipingere è da sempre un modo per rivisitare
il passato, fare affiorare i ricordi e affrontare le difficoltà della
vita presente. La sua autobiografia per immagini si sviluppa a partire
dalla metà degli anni Cinquanta attraverso ritratti di macchine e
oggetti quotidiani della casa e dell'ufficio, dipinti con fredda e
semplificata precisione, contorni marcati e tagli prospettici arditi.
Uno stile che si rifà da un lato al realismo classico e distaccato della
Nuova Oggettività, dall'altro agli "oggetti a funzionamento simbolico"
creati dai surrealisti - Klapheck incontrò a Parigi Marcel Duchamp e dal
1954 intrattenne rapporti di amicizia e scambio con Max Ernst, André
Breton e René Magritte -
La Macchina per scrivere del 1955 è il primo
quadro di una lunga serie, che lo impegnerà per oltre cinquant'anni. In
una sorta di Recherche di sapore proustiano, Klapheck evoca sulla tela
quegli oggetti che compongono il mondo meccanico della sua infanzia. La
macchina per scrivere, ad esempio, era quella che usava la madre, Anna
Strümpell, storico dell'arte e professoressa all'Accademia di Belle Arti
di Düsseldorf: "Mia madre scriveva sempre. Il ticchettio della tastiera
della sua macchina è la musica della mia giovinezza", ricorda l'artista.
Dopo la macchina per scrivere, è la volta della macchina da cucire: "I
dieci oggetti fondamentali della mia pittura stanno in una sequenza
prestabilita, determinata dalla loro apparenza esteriore e dal loro
scopo di applicazione. Macchina per scrivere e macchina da cucire sono
in testa al gruppo. La macchina per scrivere serve alla comunicazione,
all'astratto ordinamento del mondo.
La macchina da cucire che fabbrica
abiti provvede al mondo della corporeità. Ci sono analogie formali fra
la macchina da cucire e il suo antitetico, la macchina per scrivere: il
tasto si trasforma in spoletta, il nastro d'inchiostro in filo, la
matrice in ago". Klapheck divide dunque il suo mondo pittorico in due
ambiti, quello dell'ordine astratto e quello della corporeità. Un
sistema originale di analisi della realtà che permette infinite
variazioni sia sugli stessi soggetti - esistono più di quaranta versioni
di macchine per scrivere dipinte da Klapheck nel corso della sua
carriera e l'ultima, "Il linguaggio dei potenti", del 2005, viene
presentata proprio in occasione di questa mostra - sia sulle macchine
appartenenti alle stesse "famiglie di oggetti": "Il rubinetto, anch'esso
votato al benessere corporeo, appartiene alla famiglia della macchina da
cucire. La sua parte superiore, il rubinetto vero e proprio per aprire e
chiudere l'acqua, corrisponde alla spoletta della macchina da cucire;
dove in quella viene cucito il filo, qui scorre il getto d'acqua.
Sorella del rubinetto è la doccia, che formalmente conduce al
telefono...". Nasce così quell'inventario surreale della civiltà delle
macchine composto da ferri da stiro, scarpe, chiavi, seghe, pneumatici,
biciclette, campanelli per biciclette, orologi, metafore ironiche o
aggressive che anticipano la Pop art nella sua esaltazione degli oggetti
banali e quotidiani. La pittura di Klapheck è però caratterizzata da uno
sguardo partecipe, colmo di affetto e tenerezza per quegli utensili che
l'hanno accompagnato o lo accompagnano nella vita di tutti i giorni. Li
ritrae isolati nella solitudine della tela, quasi come fossero esseri
umani. Scova in ognuno di loro una personalità nascosta, mantenendone
però sapientemente intatta l'aura di mistero. Come diceva Magritte,
l'artista deve fare della pittura uno strumento che approfondisca la
conoscenza del mondo, "ma una conoscenza che sia inseparabile dal suo
mistero".
Dal 1997 Konrad Klapheck, oltre che agli oggetti, si è dedicato con
grande passione anche alla figura. Se gli oggetti paiono personaggi
dotati di vita propria, le figure umane sono ritratte con una fissità
che le rende simili agli oggetti. Un grande ciclo in stile classicista è
ispirato ai protagonisti della musica jazz, alcuni dei quali hanno
posato per l'artista a Parigi. Come il padre del free jazz, il musicista
americano Archie Shepp, del quale in mostra è presente uno splendido
ritratto. I temi di questa serie ruotano attorno al rapporto tra il
musicista (ovvero l'artista) e il suo pubblico: la solitudine del
palcoscenico che mette sotto i riflettori miserie e grandezze dell'uomo,
il problema della comunicazione con una platea talvolta indifferente, ma
anche l'estasi che viene dalla condivisione con il pubblico di
un'esperienza estetica esaltante.
Un altro ciclo recente è invece dedicato a interni e paesaggi con nudi.
Qui fonte d'ispirazione sono da un lato le fotografie erotiche dell'Otto
e Novecento, dall'altro i capolavori dei grandi maestri. Ad esempio, nel
dipinto del 2006 intitolato "La strada II", che raffigura una prostituta
nell'androne di un vecchio edificio e un giovane seduto su uno sgabello
intento nella lettura di un libro di preghiere, il richiamo è al Tiziano
di Villa Borghese, "Amor sacro e amor profano". Nella sua galleria di
personaggi sfilano dunque ricordi, speranze, paure e suggestioni
infantili, in un mix di rimandi, assonanze, citazioni e messaggi che
Klapheck si diverte a mescolare, com'è nel suo stile, vero e falso,
realtà e finzione, non per disorientare o depistare lo spettatore, ma
per arrivare a una più profonda conoscenza del mondo. "La pittura non
cessa mai di stupire, ci sono sempre sorprese anche per l'artista. La
vicinanza della pittrice Wanda, i suoi consigli, mi sono indispensabili
per fare chiarezza", conclude Klapheck.
Gli fa eco Wanda Richter-Forgàch: "Il giudizio dell'altro è prezioso in
ogni fase del lavoro. Siamo l'uno il critico più severo dell'altro".
Nata a Berlino, alle spalle la lunga esperienza, dal 1963 al 1986, come
costumista per oltre duecento produzioni teatrali a fianco dello
scenografo Thomas Richter-Forgàch, la pittrice si è fatta apprezzare per
alcune delicate nature morte e per i suoi "Ignudi illuminati", la serie
di nudi dipinti a partire da bozzetti realizzati durante soggiorni nei
luoghi termali. Ora a Varese presenta un nuovo ciclo di paesaggi,
dipinti ad acrilico negli ultimi cinque anni, nei quali acqua, cielo e
terra sono le quinte di un teatro dell'immaginazione. Soggetto delle
tele non sono infatti luoghi precisi, facilmente identificabili grazie a
qualche indizio. La sfida della pittrice non è la descrizione di un
ambiente, ma la registrazione di un'illuminazione, di un'epifania.
La
pittura non è racconto, ma visione. I modelli vanno da Rembrandt a
Bellini, a Van Gogh, ma è Marc Rothko la grande ispirazione. La
produzione giovanile dell'artista americano, caratterizzata da una
figurazione surrealista e da paesaggi fantastici, manifesta già la
predilezione per il colore puro, sempre intenso e di vibrante
luminosità, sul quale Rothko fonderà la sua successiva adesione a un
astrattismo contraddistinto dagli ampi campi di colore e dall'attento
studio dei rapporti cromatici. "In realtà Rothko nelle interviste
dichiarava di non considerarsi affatto un artista astratto", dice Wanda.
"Non dipingeva quadri astratti, la pittura era per lui la trascrizione
fedele della sua vita spirituale. Ed è questa anche la mia ambizione".
Si spiega così la scelta del titolo "Paesaggi dell'anima", che allude a
una forma di romaticismo contemporaneo, dove la Natura è intesa come
luogo dell'immersione e dell'esperienza spirituale dell'individuo e la
pittura sgorga dall'urgenza di dare espressione alle inquietudini
dell'anima.
Per cogliere quella forza creatrice che è nella Natura e che
parla come per simboli dell'interiorità dell'uomo, l'artista si dedica a
un attento e partecipe studio del paesaggio. Wanda ha sempre avvertito
una forte esigenza di concretezza e il punto di partenza è dunque il
dato reale, anche se non immediatamente riconoscibile perché filtrato
dall'io dell'artista. Astrazione per Wanda vuol dire ridurre all'essenza
il sentimento della natura, e gli strumenti per raggiungerla sono il
blu, il rosso o l'arancio tanto amati da Rothko. L'interpretazione del
paesaggio avviene dunque attraverso il medium del colore, talora più
soffuso, stemperato e morbido, talaltra più denso, irruente e viscerale.
Predilige determinati momenti del giorno, la mattino o la sera, quando
l'ambiente naturale si presta a più dirette correlazioni psicologiche.
Nascono così visioni vibranti di colore che divampa sulla tela con una
vitalità intensa, come un incendio improvviso che tutto illumina prima
di tutto distruggere. Vita ed energia prima della morte e della cenere.
Talvolta la tela è tagliata in due dalla linea dell'orizzonte
("Speranza, stella della sera", "Fiume della vita"), come se cielo e
acqua se la contendessero: "Una lotta senza fine tra elementi
contrapposti". Nelle tele nate durante un soggiorno a Parigi gli
avversari sono invece il fiume e l'architettura del ponte. Nelle acque
della Senna l'artista vede risplendere una bellezza pura, totale,
incontaminata che viene solo parzialmente contenuta dagli argini. Sotto
le arcate del ponte la vita continua a scorrere.
Licia Spagnesi
Inaugurazione 16 febbraio ore 18
Duetart Gallery
vicolo Santa Chiara, 4 Varese
orario: da martedì a sabato ore 15.30 e 19.30
Ingresso libero