Federica Schiavo Gallery
Roma
piazza Montevecchio, 16
06 45432028 FAX 06 45433739
WEB
Trieste
dal 30/3/2012 al 25/5/2012
mar-sab 12-19

Segnalato da

Federica Schiavo Gallery




 
calendario eventi  :: 




30/3/2012

Trieste

Federica Schiavo Gallery, Roma

Trieste e' il nome del batiscafo che nel 1960 stabili' un record di immersione raggiungendo il punto di maggior profondita' del pianeta. Trieste e' anche la citta' portuale dell'Adriatico al confine con la Slovenia. La collettiva e' ispirata da queste due realta' "borderline" e richiama l'idea di una forza misteriosa che spinge inevitabilmente l'uomo a varcare l'ignoto. In mostra lavori realizzati appositamente di Matthew Day Jackson, Jessica Jackson Hutchins, Jay Heikes, Karthik Pandian ed Erin Shirreff.


comunicato stampa

Federica Schiavo Gallery è lieta di presentare la mostra TRIESTE che riunisce nuovi lavori, realizzati appositamente per la mostra, degli artisti internazionali Matthew Day Jackson, Jessica Jackson Hutchins, Jay Heikes, Karthik Pandian ed Erin Shirreff.

Trieste è il nome del batiscafo di costruzione italiana che nel 1960, con un equipaggio di sole due persone, stabilì un record di immersione, tuttora imbattuto, nelle acque dell’Oceano Pacifico, raggiungendo il punto di maggior profondità del pianeta: la fossa delle Marianne. Trieste è anche la piccola città portuale dell’Adriatico, situata al confine con la Slovenia, conosciuta per il suo fascino mitteleuropeo e un’insolita atmosfera malinconica che, citando Jan Morris, “porta le persone che la abitano a porsi tristi domande. A che scopo sono qui? Dove sto andando?“ (Trieste and the Meaning of Nowhere, Simon & Schuster, 2001). La mostra è metaforicamente ispirata da queste due realtà ‘borderline’ e richiama l’idea di una forza misteriosa che spinge inevitabilmente l’uomo a varcare la soglia dell’ignoto e dell’impossibile. Gli artisti in mostra, legati tra loro da rapporti di amicizia e stima reciproca, negli anni hanno dedicato frequenti e intense conversazioni a questi temi.

Jay Heikes, il cui ruolo è stato centrale nell’elaborazione della mostra, racconta: “Posso vedere in ciascun artista coinvolto nel progetto TRIESTE il desiderio di sfruttare la potenza di qualsiasi cosa abbia attraversato le loro menti per concretizzarsi materialmente nelle loro opere. In ciascuno riesco a scorgere un appiglio alla storia e alla cultura, soprattutto in riferimento a quelle strade senza uscita, meno battute e ormai andate perdute. Come ‘esploratori‘ - una parola sciocca ma efficace - ci spingiamo ad indagare proprio in quegli spazi normalmente trascurabili e misteriosi, gli unici in cui giacciono ancora nuove possibilità. Trovo che nel lavoro di Matthew la concentrazione di oggetti storici è sempre severa e disorientante. E’ come se la Storia fosse visibile come un’unica catena montuosa per poi accorgerci che i nostri occhi non sono sufficientemente forti per vedere al di là del nostro orizzonte visivo. Nel lavoro di Erin il rigore è interpretato a un altro livello, dove le lacune formali non sono macchine del tempo ma parametri di rivendicazione. Sono spazi dove il linguaggio appare obsoleto ma è in realtà in costante e continuo cambiamento per descrivere se stesso.

Gli strumenti e le ‘reliquie’ di una cultura possono essere tanto malleabili quanto i materiali che li costituiscono e Jessica è sempre consapevole del potere degli oggetti, in quali non solo ci inquadrano come figure in uno spazio ma anche come menti disordinate impegnate a categorizzare le ‘cose’. Penso che sia questo il motivo per cui il suo lavoro sembra essere una collisione di domesticità e surrealismo. Un po’ come sognare ad occhi aperti il più proibito dei sogni aspettando che il nostro toast salti fuori dal tostapane. Poi ci siamo Karthik ed io, entrambi dedicati a forme di ricerca che tentano di connettere quei collegamenti che la storia ha disperso naturalmente. Così Trieste, nel suo doppio, forse triplo, significato, è metaforicamente il fulcro della mostra come idea di un luogo o di uno spazio. In qualsiasi mostra collettiva è davvero impossibile dichiarare a priori il risultato che si raggiungerà, ma si possono discutere e decidere i presupposti da cui possa scaturire qualcosa di speciale. Questo è Trieste.”

L’arte di Matthew Day Jackson si confronta con grandi idee come l’evoluzione del pensiero, l’attrazione fatale della frontiera e la fede che l’uomo pone nel progresso tecnologico. Il suo lavoro si rivolge in particolare al mito del ‘sogno americano’, di cui ne esplora le forze di creazione, crescita, trascendenza e morte tramite le visioni della sua utopia fallita. Le sue opere recenti si sviluppano dalle idee di fondo insite nella mitologia americana e si concentrano sulla pluralità di significati che questa mitologia possiede, specie nelle declinazioni scaturite al di fuori della cultura americana. Jackson raffigura queste idee attraverso il mondo che lo circonda. I diversi materiali richiamano il simbolismo e combinano elementi apocalittici con i risultati delle nuove tecnologie, immagini storiche con ingredienti contemporanei. Nella sua arte viene concessa forma fisica alle idee ed è proprio dallo scontro di queste due realtà, dall’impatto materiale del pensiero idealista, che l’arte di Jackson deriva la sua forza. Nel suo lavoro l’artista esplora un concetto che definisce ‘Horriful’ incentrato sulla convinzione che ogni nuova creazione è in grado di portare sia bellezza che orrore.

Jessica Jackson Hutchins opera attraverso l’utilizzo di diversi media artistici quali la scultura, la ceramica, la stampa e il disegno. I suoi lavori presentano una curiosa combinazione di pura fisicità temperata da un forte senso di fragilità e racchiudono un’ampia varietà di tematiche, sia intime che collettive, malinconiche e divertenti, costantemente legate alla confusione delle relazioni umane. La sua concezione estetica del collage s’infonde nei suoi oggetti astratti in diversi modi, come quando. ad esempio, l’artista annida strani vasi smaltati su logore poltrone, divani e tavoli, oppure quando li posa su plinti snelli ed eccentrici di sua ideazione. Nel suo lavoro si fa costante riferimento al corpo umano, in tutto il suo fascino muto così come nelle sue gioiose abitudini. L’artista è sempre in grado di trasformare i dati della vita quotidiana in forme e immagini che le consentono di produrre un’urgenza intima.

Jay Heikes è noto per la sua pratica artistica eterogenea. L’artista è in grado di fondere pittura astratta, video, installazione, performance e scultura attraverso un comune approccio romantico e un’atmosfera grottesca e divertita che ricorre in tutto il suo linguaggio. Il suo lavoro mette in scena la natura precaria di ogni allusione al reale, in particolare quei continui mutamenti e spostamenti di valore rivolti ai nostri riferimenti culturali, visivi ed esperienziali. Le sue stesse opere testimoniano, nel tempo, mutamenti di stato legati all’uso di materiali che, una volta in relazione, interagiscono fra loro, soprattutto dopo una trasformazione chimica. La pura materialità dei lavori recenti di Heikes riflette la sua insoddisfazione per la deriva performativa e partecipativa dell’arte contemporanea e il suo desiderio di riportare l’attenzione sulla pittura, scultura e installazione.

La pratica artistica di Karthik Pandian intende sovvertire le contraddizioni al centro della comune idea di monumento. L’universale e il contingente, il sacro e il profano, la dimensione ravvicinata e quella distante si confrontano regolarmente nel suo lavoro. Pandian è interessato in particolare al modo in cui la storia si annida nella materia e spesso utilizza la pellicola 16 mm per creare ‘siti’ in cui lasciar depositare frammenti di particolare intensità politica. Le opere scultoree che supportano, avvolgono e talvolta oscurano le sue proiezioni sono prodotte con materiali legati alla sua ricerca e spesso assumono la forma di costruzioni architettoniche. Attraverso l’immagine in movimento, la scultura e la sintesi di questi due linguaggi, il suo lavoro raffigura la libertà posta in relazione alle imposizioni dell’architettura.

Diplomata in scultura, Erin Shirreff opera attraverso diversi media, tra cui la fotografia e il video. Il suo lavoro suggerisce evocazioni diverse come la catalogazione archeologica di strumenti antichi, l’osservazione dei pianeti attraverso dispositivi telescopici e la massiccia presenza di sculture minimaliste nel paesaggio. Le sue sculture si rivolgono a ciò che è assente: sagome di forme astratte e geometriche o forme bidimensionali si librano intorno a una zona temporalmente ambigua che le fa sembrare allo stesso tempo manufatti di nuova realizzazione o oggetti trovati. L’efficacia degli interessi concettuali della Shirreff dipende dalla sua selezione di soggetti che sono tanto familiari al punto da diventare enigmatici, lasciando allo spettatore il compito di confrontarsi con le modalità di creazione di significato entro un paesaggio visivo anonimo.

Inaugurazione: 31 marzo 13-19

Federica Schiavo Gallery
piazza Montevecchio, 16 - Roma
Orari: martedì - sabato 12:00 - 19:00
lunedì su appuntamento
Ingresso libero

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