Luoghi, persone e libri. L'esposizione riunisce una serie di fotografie che l'artista dedica da anni al tema del libro e che nello spazio della Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux si inserisce con una consonanza particolarmente suggestiva.
Non è la prima volta che la Sala Ferri del Gabinetto Vieusseux accoglie, nel perimetro dei suoi secenteschi
arredi, una mostra di fotografie, e già in altre occasioni le ante della biblioteca sono state allestite a
temporanea cornice per gli scatti di Fosco Maraini, Derno Ricci, Massimo Agus. La consuetudine prosegue
con questa esposizione, Luoghi persone libri, dov’è riunita una scelta del lavoro che per diversi anni
Massimo Veracini ha dedicato al tema del libro – e che in un simile spazio s’inserisce perciò con una
consonanza particolarmente suggestiva.
In verità, più ancora che al libro, l’occhio fotografico di Veracini si rivela soprattutto sensibile alle
innumerevoli situazioni di umanità che intorno al libro possono svilupparsi, alla gamma di effetti espressivi
suscitati nelle persone che lo leggono, lo maneggiano, o semplicemente ci si imbattono anche in una distratta
e casuale interazione. Al fuoco del suo obiettivo ricorrono codici miniati e best seller, tascabili di seconda
mano e i rotoli della Torah, un breviario consunto e manuali di scuola; ma è la speciale irradiazione, il
coinvolgimento, la drammaturgia istantanea che di volta in volta da essi promana a risolvere l’immagine, in
una sintesi affettuosamente poetica prima ancora che compositiva. Il libro, insomma, nella concreta varietà
delle sue forme e nell’uso quotidiano di gente la più diversa, che Veracini è andato rintracciando per mezzo
mondo, quasi a riunire un campionario di figure esemplari per un atlante antropologico della lettura.
Di questo atlante possiamo esplorare i tipi partendo dalle latitudini più prossime, e magari proprio da
Firenze, con la ragazza seduta a un tavolo della Marucelliana, che dai vestiti leggeri possiamo immaginare
allo studio per una sessione estiva di esami; o la gentildonna di Barga al centro di un salotto pieno di eleganti
cimeli familiari, di libri antichi allineati negli scaffali, e dove in un disegno incorniciato si riconosce
Benedetto Croce intento, come la stessa signora, a leggere. In un paio di foto scattate a Viareggio, Veracini
arriva a soprendere, con una grazia ironica degna di certe vignette del “New Yorker”, perfino degli animali
alle prese coi libri: un piccolo bulldog tenuto al guinzaglio, che annusa sospettoso la copertina di un volume
sui gatti; o i due barboncini bizzarramente sistemati dentro un passeggino, in attesa che la loro padrona si alzi
dalla panchina dov’è intenta a leggere il Danubio di Magris.
Ma l’orizzonte di Veracini si è soprattuto allargato verso persistenze lontane nell’uso del libro, in luoghi
tuttora fascinosamente arcaici dell’Europa dell’est, in Etiopia, in Egitto, nello Yemen e, più recentemente,
nel Bangladesh. Tante le foto dedicate ai bambini, spesso ritratti negli abituri delle loro scuole, fra arredi
miserabili e libri scompaginati, ma con l’intatta allegria dei loro volti in posa davanti all’imprevista sorpresa
di una ‘foto di classe’. E tante e bellissime le foto dedicate ai vecchi, che Veracini sembra guardare con una
sorta di incantato rispetto, quasi portassero nella loro figura un’antica, ieratica autorevolezza che dopo di loro
più nessuno testimonierà: perfetto emblema di questa serie, la piccola donna rumena nerovestita, che fra le
croci di legno di un cimitero di campagna si staglia potente come in un’inquadratura di Dreyer, lo sguardo
fermo verso l’obiettivo, le mani conserte intorno al libro delle preghiere.
Con un’attitudine analoga Veracini ritrae i monaci, o quei personaggi variamente religiosi che costituiscono
un altro importante ambito di umanità per i suoi scatti. Il benedettino di Monte Oliveto che sfoglia un antico
antifonario, toccati entrambi, come certi personaggi di Vermeer, dalla luce laterale di una finestra;
l’anacoreta di Lalibela nel buio di una cella rupestre, dove solo un lucore rivela la linea del volto, il turbante,
gli occhiali, mentre riverbera abbagliante al centro dell’immagine sul libro a caratteri copti; il monaco
moldavo con attorno poveri oggetti della devozione ortodossa: le candele sottili, una vecchia icona, pochi
libri impilati su un mobiletto, unica suppellettile moderna in una scena che potrebbe illustrare un racconto di
Dostoevskij.
Nelle fotografie dov’è così intensa l’espressività spirituale, il libro si riavvicina all’identità del ‘Libro’,
veicolo di sapienza che al tolle et lege di una voce interiore può aprire le sue pagine su qualche ultima,
sconvolgente verità: proprio quello che sembra succedere, in una foto scattata a Venezia, al rabbino con gli
occhi spalancati davanti a un commento delle Scritture. Ma alla fine di tutto il percorso, guardiamo la
monaca buddista sprofondata in una serena meditazione tra le macerie del monastero tibetano di Pomaia, che
un incendio anni fa devastò: intorno a lei, rovine, e solo poche pagine superstiti di antichi manoscritti: non
dissolti nell’immaterialità delle ‘nuvole’ digitali, ma perduti per sempre, come ogni altra cosa, nelle vicende
dell’Impermanenza.
Inaugurazione mercoledì 18 aprile ore 17
Palazzo Strozzi-Gabinetto Vieusseux-Sala Ferri
piazza Strozzi, 1, Firenze
lunedì-venerdì 10-13
Ingresso libero