Una personale. Lo squarcio e' la figura che retoricamente e carnalmente presidia la pittura recente dell'artista, uno squarcio di luce nel buio della parete scura.
Squarcio per Vincenzo «Attendiamo ciò che ci verrà negato». Lo squarcio è la figura che retoricamente (e carnalmente) presidia la pittura recente di Vincenzo Simone: squarcio di luce nel buio della parete scura, del manto compatto – piú mortale che notturno – di una superficie materica impenetrabile, che accampa i suoi diritti sul vuoto della tela. Invocare una memoria negata, che tuttavia tenta l’emersione alla luce di un lampo, o anche appunto l’attesa fidente che già si dice inutile o illusoria, è ancora poco per penetrare minimamente sotto la cortina soffocante di buio e di nero che in tutte tali opere (2011-2012) è dato presupposto e parola iniziale. Ma il lampo si impone, balenando come tra labbra slabbrate (tra fessure che pur si spaccano) di un cielo pesante come un coperchio (Baudelaire). E schiude la ferita della luce: il fragore cromatico di una larva accecante di visione. Il vedere stesso, che equivale qui alle movenze dinamiche di un rapace desiderio, non si pone generalmente nell’immagine pittorica se non come rottura, come varco da oltrepassare, e dunque come auspicata epifania. E l’immagine appare, infatti, solo in séguito a un simile schianto: brillando nell’attimo della sua rivelazione. Per questo si tratta sempre dell’immagine di una ferita. Per questo essa è soglia problematica, pertugio, occasione misteriosa, tentato scampo.
Forse opportunità da cogliere, che tuttavia non fa che alludere alla propria scomparsa. Ogni qual volta essa si apre a una fugace, e temo perfino ingannevole, promessa, l’immagine della pittura si cela e quasi scompare al contempo, poiché si dà solo attraverso l’accumulo e lo scavo, che sono i moti esclusivi della sua elaborazione, e dunque attraverso fasi contraddittorie di adesione della mente e della mano alla parete scura benché ancora bianca della tela vergine. Sicché la pittura diviene – per chi la vive con il sangue in mano del proprio coinvolgimento, del proprio voto, della propria dedizione irriducibile, priva di riserve, priva di remore, priva di scopi – allegoria della vita sanguinante: parto doloroso, ventre squarciato, visione (sentimento) insostenibile. È l’occhio stesso che si squarcia quando il colore emerge potente dal nero sopra il bianco. Allegoria oltre ogni mero simbolismo, oltre di ogni didattica e perfino oltre ogni spiegazione. Allegoria come vita tentata vissuta fino in fondo – si direbbe... Nelle piú recenti opere di Vincenzo – che io non oso chiamare “quadri”, giacché collocarne il senso all’interno di uno spazio e di una cornice equivarrebbe a formalizzarle, e dunque depauperarle della loro irrequietezza costitutiva – «l’ambiguità dei piani» di colore, che era «il reale» nei dipinti precedenti, si è appunto non risolta ma introflessa, e ispessita, in pareti nere che «si innalzano piú per oscurare che per svelare». Ma è evidente che quel “si gioca” al di sotto (al di là e al di dentro) di tali schermi è il loro (sempre cercato) luogo di crisi, lo spiraglio che li insidia, la breccia che li potrebbe abbattere. La coltre si dà infatti come premessa esistenziale, come disperazione a-priori, e perciò e però come condizione (del tutto imprescindibile) al manifestarsi di un pensiero che l’aggredisca, al prodursi di un lampo di luce che la incrini, ossia all’illusione dell’immagine. Detto altrimenti: l’oscurità deve essere sottoposta a quell’esperienza della ferita che è il principio stesso della poesia. Sandro Sproccati Bologna, Interno 4, marzo 2012
Inaugurazione 21 aprile ore 18
Galleria dell'Immagine
via Gambalunga, 27 - Rimini
Tutti i giorni 9,30-12,30 e 16-19, sabato 10-12, domenica e festivi chiuso
Ingresso libero