Show and Tell. Le tele in mostra evocano i paesaggi cari all'artista americana, colti attraverso i dettagli luminosi che li costruiscono. Nel suo linguaggio compare il recupero di elementi concettuali come l'utilizzo di scritte.
a cura di Natasha Bordiglia
L’arte di Stacy Gibboni ci assale con il suo colore, ogni pennellata costruisce una rete di
segni in cui ci viene chiesto di entrare per essere parte del suo paesaggio. Un paesaggio
mentale dove il nostro occhio vaga come una farfalla sopraffatta di ebbrezza
nell’immenso batuffolo giallo, che si arresta a bere rossi sanguinolenti e azzurri plumbei,
per immergersi infine in quello spazio bianco carnale, dove finalmente riposa.
L’arte di Stacy Gibboni ci assale con il suo colore, ogni pennellata costruisce una rete di
segni in cui ci viene chiesto di entrare per essere parte del suo paesaggio. Un paesaggio
mentale dove il nostro occhio vaga come una farfalla sopraffatta di ebbrezza
nell’immenso batuffolo giallo, che si arresta a bere rossi sanguinolenti e azzurri plumbei,
per immergersi infine in quello spazio bianco carnale, dove finalmente riposa. Il ritmo
richiesto nel seguire le pennellate è un ritmo sincopato, dove le battute si inseguono e si
richiamano in una sorta di danza circolare in cui siamo chiamati a partecipare. La
partecipazione richiesta è intensa e intima: una storia in cui entrare.
Una storia – tante storie – emergono dalle grandi e piccole tele dove la scena
rappresentata è sempre una scena ritagliata, in cui elementi isolati - siano essi boccioli,
petali, foglie, alberi - creano, per autonomi risucchi compositivi, la spazialità del quadro.
La trascrizione istantanea del motivo naturale, scelto come soggetto dell’opera, si
distribuisce sulla superficie pittorica secondo necessità formali dettate da una pittura
vissuta come momento di scrittura autobiografica. Lo stesso scarso interesse per il livello
di rifinitura delle tele, la presenza di sgocciolamenti, la scelta di non preparare la tela
con basi in gesso, si legano all’energia espressiva inaugurata da Jackson Pollock, pur se
nel lavoro di Stacy Gibboni quell’energia è sempre mista ad una profonda gioia
dell’esistere. A volte, però, il segno e il colore sono insufficienti a descrivere e
comunicare l’energia intrinseca, ed è qui che entrano in gioco l’uso e la scelta di
materiali di recupero che hanno già in sé un vissuto.
Recuperando stilemi tipici della cultura neoespressionista, ritrae elementi carichi di
vitalità che esprimono la gioia e la forza della natura. Con neoespressionismo intendiamo
quella reazione all’arte concettuale e minimalista, che si esprime con il ritorno alla
raffigurazione formale di oggetti riconoscibili, ritratti in modo vivido e forte. Stacy
Gibboni porta sulla scena del quadro i paesaggi del suo passato, gli ampi spazi americani
colti attraverso i dettagli luminosi che li costruiscono. La relazione che l’artista ha con il
mondo naturale è una relazione che si comprende solo ricordando le sue origini, la sua
vita. Americana, nata in Arizona, cresciuta in New Jersey, ha vissuto per molti anni in
Georgia sulle coste dell’oceano. Quelle stesse vedute a perdita d’occhio sono elementi
del suo mondo pittorico, dove la prospettiva è assente, la visione è frontale, il colore
abbagliante.
Il linguaggio pittorico usato dall’artista recupera peraltro anche elementi concettuali, in
particolare la scrittura, presenza quasi costante nelle sue opere, che spesso ne
costituisce il tessuto. Stacy Gibboni utilizza la parola contestualmente come segno
grafico e come significante, la sottopone a manipolazioni, la riduce a semplice rilievo.
Nascono così lavori come Take Three, in cui la scrittura assume un ruolo sempre
maggiore nel dipinto mediante l’inserzione di parole a volte appositamente cancellate o
semi cancellate per attirare l’attenzione di chi guarda e invitarlo a ricostruirne il senso.
Accostandosi a Cy Twombly nell’usare una grafica elementare realizzata da frammenti
verbali, usa le parole come fossero pennellate. Tale orientamento stilistico si acuisce nei
lavori che appartengono al periodo che potremmo definire “bianco” in cui il colore
scompare per lasciare il posto alla scrittura. Non assistiamo solo alla massiccia presenza
di parole, lettere, frasi ma la pennellata vigorosa di colore che informa i dipinti a
soggetto naturale, come Piccante, lascia il posto alla grafite, alla matita. In questo caso
è il tratto del disegno ad essere usato come fosse testo scritto. L’assidua frequentazione
con l’artista Angiola Churchill, nelle cui opere è notoriamente assente il colore, e i periodi
sempre più lunghi di permanenza a New York, determinano sicuramente questa svolta
stilistica. La cultura metropolitana con cui è sempre più a contatto porta inevitabilmente
ad una variazione nell’uso dell’elemento grafico e nella scelta di soggetti: scompaiono gli
elementi naturali colti nella loro vitale esplosione e emergono forme sempre più
stilizzate, quasi astratte, anche nelle tele di grandi dimensioni come Jungle Scape. Dietro
la maschera di motivi codificati, dalle sue opere di questo periodo emerge un senso di
vuoto rabbioso, che cela una fitta rete di allusioni riconducibili ad un momento della sua
esistenza dove il suo essere artista è oppresso da incombenze materiali a cui non può
sottrarsi.
La visitazione delle possibilità espressive del bianco e del segno grafico è gravida di
conseguenze per il suo operare artistico: l’attenzione ora si sposta verso altri mezzi
artistici e Stacy Gibboni si dedica all’esplorazione del video, della fotografia, della
performance e dell’installazione. Il periodo in assenza di colore l’ha posta davanti a
nuove possibilità di ordito compositivo che sono ricercate in altre espressioni quasi a
sottolineare un’impossibilità della pittura in assenza di colore. Ed ecco allora prendere
forma video come White Picket Fence Included, ancora venati di amara gravità, dove la
natura non è più vastità ma costrizione, visioni paesaggistiche limitate da una serie di
staccionate. L’architettura ha occupato il posto che una volta era della natura. Ancora un
soffio vitale naturalistico persiste ma è breve e agonizzante. Il senso di infinito che
permea i suoi dipinti si è perso ed è stato sostituito dai gesti dell’uomo diventati solide
pietre. Forse è proprio per questo che lo stesso slancio vitale presente nelle sue prime
opere lo ritroviamo intatto nei lavori su carta fatti a New Orleans. Dopo Katrina, solo la
natura ha resistito, le opere dell’uomo sono andate tutte completamente distrutte. E in
queste opere l’uso del colore è mirabilmente accordato con l’uso della grafite su carte
riciclate, recuperate dall’abbandono. La metamorfosi è avvenuta, l’aver attraversato un
periodo “bianco” ha portato l’artista ad un perfezionamento del suo stile ormai
perfettamente riconoscibile nella pur vastissima produzione artistica contemporanea. Il
colore, mai del tutto abbandonato – ricordiamo che le tele a motivi naturali non sono
mai del tutto scomparse dalla sua produzione artistica – ma oscurato per un certo
periodo da un’attenzione rivolta ad altri processi, ritorna con estrema forza sia nelle
opere che appartengono alla serie Musical Chairs sia negli ultimi dipinti dove sono
presenti soggetti tratti dal mondo della natura. L’opera di Stacy Gibboni in Musical
Chairs ci presenta un oggetto a noi molto familiare isolato dal suo ambiente, fluttuante
in muri di colore, dando la possibilità a chi guarda di vivere la sedia come oggetto
emozionale. La relazione con l’oggetto è questione di una singola emozione, le sedie
come ritratti senza volto aspettano di essere definite da chi guarda, aspettano di essere
udite.
Tutta l’opera di Stacy Gibboni è una storia che aspetta di essere ascoltata, un’emozione
che attende di essere percepita. Una storia – tante storie – come quelle che raccontano i
piccoli americani durante i loro primi giorni di scuola ai loro compagni nel gioco chiamato
appunto Show and tell.
(Natasha Bordiglia)
Catalogo in mostra a cura di Barbara Peci
Inaugurazione giovedì 10 maggio, ore 19.00-22.00
Associazione Culturale SpaziOfficina “Quarnaro”
Via Quarnaro, 1, Padova
aperto su appuntamento
ingresso libero