Marina Ballo Charmet
Giorgio Barrera
Nunzio Battaglia
Davide Bramante
Paola Di Bello
Carlo Fei
Stefano Graziani
Armin Linke
Moira Ricci
Fabio Sandri
Simone Schiesari
Marco Signorini
Alessandra Spranzi
Elio Grazioli
Nata per un numero speciale della rivista 'Cartaditalia', la selezione di artisti di questa mostra, a cura di Elio Grazioli, presenta uno spaccato della recente fotografia italiana. Espongono Paola Di Bello, Armin Linke, Alessandra Spranzi, Marco Signorini e molti altri artisti.
Nata per un numero speciale della rivista “Cartaditalia” dell’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, la
selezione di artisti di questa mostra presenta uno spaccato della recente fotografia italiana cercando di render
conto al tempo stesso della varietà degli esiti e se non una tendenza comunque una comunanza di
atteggiamento e di sguardo che aiuta a comprendere i caratteri di una linea italiana della fotografia. Secondo
il curatore Elio Grazioli, essa è costituzionalmente non omogenea e lineare, essa è, invece, composta di
individualità e trasversale: “È la ‘poetica’ dei singoli artisti, a noi sembra, quello che li rende originali e
irriducibili, e ciò che in ogni caso vogliamo più evidenziare. Del resto è sempre essa a farceli chiamare
‘artisti’ ancor prima che ‘fotografi’ al di là di qualsiasi scelta linguistica o formale”. Ma, a monte, perché la
fotografia? Perché ancora la fotografia?
“Perché la fotografia oggi a noi pare posta in un punto di snodo molto particolare. Non più affannata ad
affinare una tecnica o a inseguire un’estetica derivata da altre forme espressive e neppure più a convincere di
averne una propria, anzi al crocevia di una possibile ‘rivoluzione’, quella digitale-virtuale, essa si interroga
su scala molto più ampia, più generale e più dettagliata al tempo stesso: più generale perché si chiede che
cosa sia una ‘immagine’ in quest’epoca in cui non si parla d’altro; più dettagliata perché oggi più che mai ci
si accorge che basta un minimo cambio di luce, di stampa, di inquadratura, di composizione, a volte
addirittura anche solo di contesto o di intenzione, vorremo dire di sguardo, e l’immagine fotografica, per
niente meccanica, cambia totalmente. Si riscoprono cioè in tutta la loro potenzialità sia la magia, se così si
può ancora dire, sia la costruzione, cioè le trasformazioni anche in questi campi che la fotografia ha
introdotto e introduce. Da un lato oggi la fotografia è la chiave di comprensione della comunicazione,
dall’altro essa ci fa ‘impazzire per la pietà’, come invitava Roland Barthes sulla scorta di Nietzsche”. Con
questa selezione si è tentato di rendere conto di tutto questo, non secondo una linea ordinata bensì attraverso
una costellazione che restituisce sensibilità e preoccupazioni, intenti e atteggiamenti.
Gli artisti: Marina Ballo Charmet, Giorgio Barrera, Nunzio Battaglia, Davide Bramante, Paola Di Bello,
Carlo Fei, Stefano Graziani, Armin Linke, Moira Ricci, Fabio Sandri, Simone Schiesari, Marco
Signorini, Alessandra Spranzi.
Elio Grazioli è critico d'arte contemporanea, insegna Storia dell'arte contemporanea all'Università e
all'Accademia di Belle Arti di Bergamo. È direttore artistico della manifestazione "Fotografia Europea" di
Reggio Emilia e codirettore della collana editoriale "Riga" per l'editore Marcos y Marcos, per la quale ha
curato i volumi dedicati a Marcel Duchamp (1993), Alberto Giacometti (1996), Pablo Picasso (1996),
Constantin Brancusi (2001), Francis Picabia (2003), Kurt Schwitters (2009). Ha pubblicato: Corpo e figura
umana nella fotografia (1998), Arte e pubblicità (2001), La polvere nell'arte (2004), Piero Manzoni (2007),
Ugo Mulas (2010).
Testo a cura di Elio Grazioli ©, pubblicato su «Cartaditalia», rivista di cultura italiana contemporanea,
Istituto Italiano di Cultura “Carlo Maurilio Lerici” di Stoccolma, anno III, n. 6, novembre 2011.
Uno sguardo italiano
Le introduzioni e le sintesi storiche amano i grandi movimenti e le figure ben definite, gli eventi
memorizzabili e i dibattiti più frequentati, ma a noi piace percorrere le strade laterali, guardarci intorno con
curiosità, stabilire relazioni. Questo non per vezzo o per partito preso, ma perché la situazione italiana ci
sembra da tempo più caratterizzata da una non situabilità, dall’eccentricità di autori singoli, che da scuole e
suoi rappresentanti riconosciuti. In fondo anche i nostri movimenti e autori più noti brillano sempre per una
qualche loro singolarità e appena possibile si ribellano all’appartenenza e alle definizioni. Così, cercare di
circoscrivere teoricamente il Neorealismo – per fare gli esempi di quanto è più noto della fotografia italiana –
è di fatto una contraddizione, perché esso è proprio caratterizzato dalla scommessa che l’adesione al reale, la
sintonia con il mondo popolare è un azzeramento della teoria, dell’ideologia precostituita, e dunque delle
definizioni e delle categorie. O cercare di inscrivere un autore come Mario Giacomelli nel dibattito tra
realismo e astrazione che infiamma i testi delle riviste italiane del dopoguerra vuol dire non coglierne
l’aspetto diciamo pure “visionario”. Definire Ugo Mulas un fotografo “concettuale” perché ha realizzato le
Verifiche significa perdersi il senso stesso della concettualità italiana.
Lo stesso vale per Franco Vaccari, le
cui Esposizioni in tempo reale sono un’invenzione a tutto campo e un ciclo dall’ampiezza esaustiva. D’altro
canto, non riuscire a spiegare l’originalità assoluta di un Paolo Gioli – l’identificazione tra corpo
rappresentato e corpo della fotografia, tra la loro materia vivente – evidenzia proprio l’eccentricità del
discorso italiano. E ancora, come dicevamo, tutti i nostri autori migliori stanno dentro ai generi e ai
movimenti in maniera sempre singolare. Per esempio Mario Dondero è sì un erede diretto del Neorealismo,
ma si guardi quanto al di là di esso porta la sua naturalezza e la scelta etica: la fotografia in lui diventa uno
strumento per stabilire relazioni umane. O Ferdinando Scianna sarà pur situabile nella scia del reportage che
si rifà a Cartier-Bresson, ma la sua fotografia privilegia il disagio e il disordine piuttosto che il magico ordine
compositivo dell’istante e l’ombra invece della luce. E quale altro artista come Franco Vimercati si è mai
chiuso in casa per decenni a ritrarre solo i pochi oggetti di casa propria con un rigore e una poesia che
rinnovano quelli di Morandi? E si fa presto a paragonare Luigi Ghirri a qualche fotografo straniero magari
anche più sagace, ma il suo “pensare per immagini” e la sua “carezza al mondo” sono autentici e inimitabili.
O si prendano i fotografi del cosiddetto “nuovo paesaggio italiano” – forse il più recente movimento
fotografico italiano noto all’estero – Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Guido Guidi, Franco Fontana fra tutti:
come evidenziarne la visione diversa del paesaggio piuttosto che la visione di un paesaggio italiano diverso?
E infine: basta un rimando all’eleganza formale italiana per distinguere un fotoreporter come Maurizio
Pellegrin o un Paolo Roversi in ambito di fotografia di moda per distinguerli dai loro colleghi stranieri? È la
“poetica” dei singoli artisti, a noi sembra, quello che li rende originali e irriducibili, e ciò che in ogni caso noi
preferiamo e vogliamo più evidenziare anche nella nostra proposta per questa selezione. Del resto è sempre
essa a farceli chiamare “artisti” ancor prima che “fotografi” al di là di qualsiasi scelta linguistica o formale.
Se d’altro canto di originalità e di innovazione ci si chiederà e si vorrà discutere, è sempre al livello del
contenuto poetico e della singolarità che noi cercheremo di verificare e di controbattere. Infine la fotografia
oggi a noi pare posta in un punto di snodo molto particolare. Non più affannata ad affinare una tecnica o a
inseguire un’estetica derivata da altre forme espressive e neppure più a convincere di averne una propria,
anzi al crocevia di una possibile “rivoluzione”, quella digitale-virtuale, essa si interroga su scala molto più
ampia, più generale e più dettagliata al tempo stesso: più generale perché si chiede che cosa sia una
“immagine” in quest’epoca in cui non si parla d’altro, domanda del resto iniziata proprio con la sua
invenzione, avendole dato una funzione e un potere, ma anche un corpo e un tempo nuovi; più dettagliata
perché oggi più che mai ci si accorge – tutt’altro che banalmente, infrasottilmente anzi, direbbe Duchamp –
che basta un minimo cambio di luce, di stampa, di inquadratura, di composizione, a volte addirittura anche
solo di contesto o di intenzione, vorremo dire di sguardo, e l’immagine fotografica, per niente meccanica,
cambia totalmente. Si riscoprono cioè in tutta la loro potenzialità sia la magia, se così si può ancora dire, sia
la costruzione, cioè le trasformazioni anche in questi campi che la fotografia ha introdotto e introduce. Da un
lato oggi la fotografia è la chiave di comprensione della comunicazione, dall’altro essa ci fa “impazzire per
la pietà”, come invitava Roland Barthes sulla scorta di Nietzsche.
Con la selezione che proponiamo abbiamo
tentato di rendere conto di tutto questo, non una storia ordinata bensì una costellazione che restituisce la
sensibilità e le preoccupazioni, gli intenti e gli atteggiamenti. Per noi l’identità di un eventuale “sguardo
italiano” trapela così, trasversalmente, mentre il gioco dei rimandi, del montaggio, degli accostamenti, svolge
la complessità degli argomenti. D’altro canto abbiamo voluto attenerci ad autori già molto noti in Italia in
modo da raccontare anche l’atmosfera effettiva che vi si respira, a parte un paio di proposte, come si suol
dire, dei più giovani, perché funzionali all’insieme e al nostro discorso. L’ordine cronologico permetterà
inoltre di avere uno spaccato anche temporale delle scelte stilistiche, dei modi e degli argomenti.
Cominciamo da due artisti davvero speciali nel panorama italiano, che ci introducono subito in un’originalità
di percorso non riconducibile ai parametri critici più diffusi. Sono autori che si sono formati allo scadere
delle esperienze concettuali e hanno dovuto di necessità inventarsi dei modi nuovi, a costo di restare
inclassificabili. Il loro accostamento ci fa da porta di entrata a questo panorama, perché evidenzia due modi
opposti ma determinanti. Marina Ballo Charmet deve la sua originalità all’idea di uno sguardo periferico,
“con la coda dell’occhio”, come l’ha chiamato, quindi non centrato bensì laterale. Uno sguardo singolare per
la fotografia, in cui la macchina fotografica asseconda l’occhio che guarda di lato, e guarda ciò che sta a lato,
in tutti i sensi dell’espressione, sui bordi, negli angoli, nelle periferie, sia dello sguardo che del paesaggio,
dell’ambiente, della società, della condizione umana.
Potremmo dire che questa fotografia che abbiamo
deciso di sottoporre qui all’attenzione del lettore nasce un po’ tutta, se non da questo spostamento, comunque
da una deviazione dalle strade tracciate, da un’attenzione per i bordi del reale così come delle idee, nonché
del medium fotografico. Carlo Fei, da parte sua, mette tutto al centro e su un fondo nero assoluto, ma non è
pop, bensì, all’opposto, meditativo e diretto – con-centrato, potremmo dire –, nutrito di quell’esoterismo tutto
italiano che consiste nel dire che le cose sono come stanno, ma bisogna osservarle bene, occorre caricarle del
senso che possiedono e vederle come depositi di energia. Così la batteria elettrica è la prima metafora
evidente che Fei propone per questo: i poli sono compresenti e sono la fonte stessa dell’energia. L’oggetto
davanti a noi è il nostro polo compresente; la visione non è gesto passivo né unilaterale, ma energia che passa
da un capo all’altro. Dunque, laterale o centrata, la porta d’entrata è segnata da un’attenzione forte per
l’oggetto e una sensibilità non trasgressiva, non effettistica, per il medium fotografico. Marginalità o
alchimia degli opposti sono le risposte al venir meno di un senso oggettivo o documentario della fotografia,
ma anche a quello analitico o processuale. Anche il filone nuovo della fotografia di paesaggio e di
architettura – al seguito dell’inaugurale mostra Viaggio in Italia del 1984 – aveva costituito una riposta alle
stesse impasse. Nunzio Battaglia viene da qui ma il proseguo del suo percorso personale l’ha però portato in
una direzione diversa da quella degli altri. La ricerca di un valore simbolico nel suo soggetto l’ha condotto a
indebolire il potere descrittivo del mezzo fotografico, a sfocarlo sempre di più, come una sorta di “perdita”
della messa a fuoco, a favore di una carica affettiva e visiva di altro tipo.
Ora l’oggetto, paesaggio o
architettura, diventa del tutto intimo e universale insieme, e l’immagine diventa una composizione dove la
gamma e la sfumatura acquistano tutto il loro significato, come si dice della varietà e della gradazione del
reale e del sentire umano. Portata ai limiti, la fotografia sembra svanire e invece si sposta e sposta noi su altri
fronti e altre attenzioni. Sempre nell’ambito del paesaggio, ma con intenzioni e esiti molto diversi, lavorano
anche Marco Signorini e Armin Linke. Signorini cerca un paesaggio e una luce sospesi nell’indecidibilità se
sia alba o imbrunire così come origine o fine, farsi o disfarsi del mondo. Siamo lontani dal mondo urbano e
popolato, pieno di gesti e di presenze; qui tutto è come in attesa che qualcosa avvenga, il formarsi stesso
delle cose o il loro consumarsi fino alla sparizione. Poche persone, una donna e due bambini, osservano o
sembrano cercare qualche cosa o qualche segno. Intanto a dominare, come è giusto per un medium che si
chiama letteralmente “scrittura di luce”, è appunto la luce. Il risultato è un’atmosfera davvero speciale e
poetica. Linke invece sposa la chiarezza, il tutto a fuoco, il reportage classico, cioè la ricerca di luoghi,
manufatti e eventi umani da portare a chi non è sul posto o sul momento, e più sono straordinari e non alla
portata di tutti, più sono efficaci. Ma sorprendente è soprattutto il fatto che Linke riesca sempre a farceli
vedere in un modo nuovo e diverso, benché senza artifici né manipolazioni. La limpidezza del suo sguardo
deriva dalla chiarezza del progetto, e in particolare dallo slancio che esso gli conferisce verso il futuro. Le
sue sono immagini per studiare nel presente le tracce del futuro. Un sovvertimento del tempo fotografico, a
ben pensarci, per definizione fissato al passato. Che le immagini siano poi a disposizione di tutti, siano
propriamente l’occasione per mettere tutti in relazione, Linke lo sottolinea mettendole sul proprio sito web in
una formula che chiama “book on demand”, secondo la quale ciascuno può scegliere le immagini che lo
interessano e farsi non solo il proprio percorso e la propria visione ma anche, su richiesta, il proprio libro.
Seguono un gruppetto di autori che usano la fotografia come medium più decisamente artistico, quasi
strumento di un’operazione più che tecnica specifica, benché sempre a partire da suoi caratteri peculiari.
Questa diversa attenzione ai caratteri del medium, senza però rivendicarne una “specificità”, ha permesso
alla fotografia di valorizzare altri modi e nuove espressioni. Due di loro arrivano addirittura dalla scultura e
hanno accostato la tecnica fotografica come modo di “scolpire” la luce, come indagine sullo spazio e sui
corpi non tanto rappresentati quanto restituiti attraverso l’uso della luce.
Così Fabio Sandri recupera il
metodo del fotogramma, impronta diretta dell’oggetto sulla carta emulsionata, per catturare lo spazio per
mezzo della luce. Ha realizzato e realizza impronte di intere stanze, dalla sua abitazione agli spazi delle
gallerie, comprese le persone che di volta in volta vi si trovano o vi passano. Ma ciò che più sorprende e
rivela è che la carta emulsionata finché non è fissata resta “viva”, cioè continua, per quanto lentamente e
impercettibilmente, a catturare la traccia di ciò che la luce vi proietta. Anche qui l’origine si tocca con la
scomparsa: la lunga posa necessaria per lasciare l’immagine visibile riprende quella delle origini della
fotografia, mentre l’emulsione che continua ad assorbire luce finisce con il cancellare ogni immagine
distinguibile. Paola Di Bello e Alessandra Spranzi sono altre due facce diverse della fotografia. Entrambe
puntano all’enigma – un classico italiano, dalla Metafisica di De Chirico in qua – ma con modi del tutto
opposti. (Si sarà notato che, per descrivere la varietà degli approcci nuovi alla fotografia, stiamo andando per
coppie accostate, per modi “polari” di affrontare una stessa questione. Lo schema che ne deriva va disposto
in modo sparso, come una costellazione, piuttosto che come un elenco incolonnato, dai cui rimandi interni
deriverà il disegno complessivo di un’italianità della fotografia.) Spranzi dunque mette in scena piccoli
eventi, davvero minimi, fino al puro accostamento di oggetti incongrui, il cui non senso apre un varco che
scatena pensieri, tentativi di giustificazione o di racconto, rimanda cioè a ciò che propriamente non si vede,
al prima o al dopo, all’al di là o al di qua. In fondo la fotografia è sempre così: noi vediamo un istante
bloccato, il resto lo immaginiamo. In Spranzi sono le cose stesse a presentarcisi così sospese. L’incolmabilità
del varco non chiude infine su una soluzione, l’enigma resta come una sfida alle leggi della necessità e del
caso, e insieme il senso stesso dell’accadere degli eventi reali.
Quelli di Di Bello sono enigmi del tutto
differenti, ma altrettanto intrinsecamente fotografici. Solo la fotografia infatti permette di fare le operazioni
che Di Bello mette in atto, operazioni a loro volta essenzialmente fotografiche. La fotografia taglia, sia nel
tempo che nello spazio, la fotografia è monoculare, cattura solo ciò che è visibile, sembra insomma essere
monodirezionale in tutto. Quello che Di Bello fa è invece mettere insieme, rendere compresenti gli opposti:
verticale/orizzontale, continuità/frammentazione, dentro/fuori, prima/dopo, giorno/notte... Il risultato è
spesso letteralmente qualcosa di “mai visto”, perché mai visibile senza l’atto fotografico. Allora è
l’immagine stessa ad essere enigmatica, non ciò che è rappresentato. Non lo è, per esempio, la
sovrapposizione dello stesso luogo ripreso di giorno e di notte, due tempi per noi inesorabilmente,
metafisicamente separati? Chi ha fatto della sovrapposizione il suo modus operandi è Davide Bramante.
Tecnica frequentata subito alle origini della fotografia, poi dalle avanguardie, ma in seguito trascurata, ora
torna di grande attualità perché rispecchia perfettamente la condizione odierna di apparente intreccio di caso
e caos, in realtà di aumentata attenzione agli accostamenti e alle coincidenze, alla complessità e alla
serendipità. Per Bramante il tema è il viaggio e la condizione è il rave, cioè la visione dall’interno e
partecipata.
La fotografia per lui è una visione multipla, è una scoperta, è, di nuovo, qualcosa di diverso da
ciò che vediamo così come ci si presenta, sospeso tra l’allucinazione e la scommessa sulla coincidenza, sulla
corrispondenza tra gli eventi. Ma la sovrapposizione è già un “trucco”, una forzatura del mezzo fotografico, e
c’è chi non ama sottolineare, spostare, deviare. Per costoro la fotografia è un mezzo primario, diretto, che
non altera la realtà bensì ce la fa vedere diversamente già così com’è. Il postmoderno ci ha già ubriacati di
immagini elaborate e di invenzioni fantasiose, di presunte trasgressioni, di eclettismi disinvolti. Giorgio
Barrera fotografa da una finestra in quella del vicino: la scena che si presenta è tutta da interpretare, è già una
“fotografia”, con tanto di cornice e tutto il resto. Che cosa vediamo dunque? L’immagine dentro la finestra,
certo, ma anche, in un certo modo soprattutto, lo spazio che ce ne separa, in tutti i sensi, quel vuoto, quella
distanza, quello scarto. Così quando poi Barrera fotografa dei luoghi che sono stati campi di battaglia di un
passato glorioso, oggi vuoti e senza più tracce di quegli eventi, ciò che guardiamo è quanto solitamente
chiamiamo un “paesaggio”, ma, di nuovo, quello che vediamo è uno spazio vuoto. Non solo, perché,
apparentemente fissato in un presente inqualificabile, in realtà quello che vediamo è il gap temporale che lo e
ci separa da quel momento.
Ancora una volta: è la fotografia, la dilatazione dello spazio e del tempo sotto la
forma apparente del reale oggettivo e dell’istante. Stefano Graziani “viaggia” in un altro modo, nel tempo e
nello spazio, senza mostrarli, senza illustrarli, ma facendoli lavorare “tra” le immagini. Scatta o si appropria
di immagini già esistenti e le accosta, le mette in sequenza, per lo più in un libro, e con esse costruisce, o
meglio lascia intendere, un racconto che è tutto visivo, immaginifico, mentale, fantasioso, eppure che rivela
la forma stessa della realtà, la sua molteplicità, la sua apertura al senso. È una modalità del tutto attuale, un
“montaggio” che va per accumulo e per rimandi, per divari anche, per collezione: ogni nuova immagine
entra nell’insieme e lo rimescola, lo ri-significa, e lo spinge avanti verso il passo seguente. Le stesse
immagini possono tornare da un insieme all’altro, le nuove evidenziano, estraggono anzi un aspetto che era
già lì ma nascosto o latente. Infine i più giovani fanno i conti con i temi e i modi più attuali: il virtuale, la
manipolazione, la simulazione, la clonazione. Temi intrinsecamente fotografici, com’è evidente, e dunque
tanto più fertili e necessari. Ognuno però a noi pare che riesca a dare di questi temi una versione singolare,
non scontata, non succube della loro attualità ma anzi capace di spostarla su altri fronti compatibili, anzi
perfettamente integrati a quelli degli altri autori che qui presentiamo.
Simone Schiesari, per esempio, se con
la sua prima serie, inquadrature serrate di ambigui volti di soldatini di piombo, affrontava di petto
l’ambiguità tra realtà e finzione al centro delle tematiche postmoderne, con le serie seguenti – attraverso
variazioni peraltro minime, sottili, sofisticate – si sposta su tutt’altro fronte: basta togliere i caschi ai soldatini
di piombo della prima serie perché quei volti assumano un senso diverso, che l’autore lega alla questione sì
della moltiplicazione, della clonazione, del postumano, ma legandolo al tema della morte, anzi del
postmortem. La serie seguente sembra cambiare registro, ma solo di quel tanto che illumina di luce nuova
anche le serie precedenti: ora si tratta di volti dipinti – ritratti rinascimentali –, opposti per fattezze e
atmosfera ai precedenti; ora sono dei giovani dalla pelle vellutata e dall’espressione ammiccante. A venire in
primo piano è lo sguardo, che allora riscopriamo nei volti precedenti, quelli dei soldati, apparentemente
opposto ma in realtà allo stesso modo mortifero, ovvero “perturbante”, unheimlich, come Freud ci ha
insegnato.
Moira Ricci infine usa l’elaborazione digitale, la manipolazione delle immagini, come ormai è uso
comune e diffuso, ma non per proiettare il reale nell’immaginario, nella finzione compensatoria, ma per
toccare diversamente il fondo di verità che sta in ogni invenzione. Niente Second Life bensì una Primary
Life. Così Ricci ricostruisce la documentazione, fittizia ma presentata come reale, di racconti popolari su
bambini leggendari, misti di umano e animale o addirittura minerale, evidentemente impossibili ma che
rimandano a uno spunto immaginifico, all’apparenza visiva del soggetto, e a un sentire che si interroga sul
rapporto tra realtà e verità. È la funzione da sempre attribuita alla fotografia, quella di “prova” dell’esistenza,
che tutti oggi danno per inficiata dalla manipolabilità dell’immagine, che invece Ricci mette al servizio di
un’altra verità, quella che non è sinonimo di realtà ma in dialettica con “altro”, a ciascuno di dire quale.
Molti altri fotografi e artisti interessanti e di valore sono necessariamente rimasti fuori dalla nostra selezione,
ma il panorama che abbiamo cercato di restituire a noi pare rispecchiare alcune questioni fondamentali e
insieme la varietà della situazione italiana, senza sacrificare al disegno generale la singolarità di ogni autore.
Su questa ci permettiamo di insistere in chiusura, sperando di trarre vantaggio da essa come in una di quelle
fotografie dove tutto è perfettamente illuminato e a fuoco, e mentre si vedono distintamente e chiaramente
ogni dettaglio e figura, pare anche di vedere l’aria che li separa, lo spazio che li contiene, e un certo senso
che li lega.
Elio Grazioli
Inaugurazione sabato 26 maggio 2012 ore 18
Frittelli Arte Contemporanea
via Val di Marina 15 Firenze
Orari: dal martedì al sabato 10-13 | 15,30 – 19,30
ingresso libero