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Fausto de Marinis
dal 5/6/2012 al 3/7/2012
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La Roggia


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Fausto de Marinis



 
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5/6/2012

Fausto de Marinis

Batthyany kastely, Kormend

'Diario' riunisce insieme diversi cicli di composizioni, dalle 'mappe celesti' alle divagazioni nel Maghreb, dalle incursioni nella letteratura sudamericana al 'saccheggio' dell'iconografia islamica.


comunicato stampa

Un qualsiasi tentativo di ricondurre ad unità una produzione vasta ed articolata come quella di Fausto de Marinis è destinato inevitabilmente al fallimento, tanti e tali sono gli stimoli che convergono nella definizione della sua grafia pittorica. Ma, dal momento che (parafrasando un famoso detto) è facile resistere a tutto, tranne alle tentazioni, diventa forse meno scorretto cercare di individuare una matrice comune ad una pittura così varia e vasta.

Forse la suggestione di “un pennello intinto nel mare” è quella che più avvicina all’essenza intima della persona (e del personaggio). Il mare potrebbe essere il Mediterraneo, per le radici pescaresi; ma si allarga agli oceani, per la nascita in Africa, per i viaggi intorno al mondo, per gli sconfinamenti nel deserto e nei suoi cieli ineffabili. Riconducono all’Europa mediterranea ed all’Italia anche la formazione sul Rinascimento italiano, da un lato, e sull’Ottocento francese, dall’altro, con un privilegio smaccato accordato a Matisse, ma anche con un senso di ansia che conduce a Van Gogh ed a Gauguin. Il grande murale di Enna fa quasi da ponte sulla strada del “ritorno” (se si vuole credere a un “mal d’Africa”) lungo la strada che conduce al Maghreb.

Ma il sapore del Mediterraneo si mescola poi con quello dei grandi oceani, nello Sry Lanka come in Brasile, in questo istintivo peregrinare, tra popoli e culture, prima che tra paesaggi, tra spiritualità ed estetiche, prima che tra monumenti e musei. Il percorso mentale di de Marinis si è sviluppato tra le stelle e la mitologia, tra le religioni e i simboli, tra i contrasti e le integrazioni, dovunque componendo i dati acquisiti sulla tavolozza mediterranea. In sostanza, diventa quasi agevole seguire i cicli di composizioni, dalle “mappe celesti” alle divagazioni nel Maghreb, dalle incursioni nella letteratura sudamericana al “saccheggio” dell’iconografia islamica: la costante è per l’appunto quel senso di ricerca perennemente insoddisfatta che lo porta a viaggiare (in condizioni spesso “al limite”) e ad indagare il mondo che lo circonda per tradurlo in immagini, in pittura.

L’idea del “predone” o del “vecchio cantore nel deserto” si conferma negli anni e trova sempre nuova linfa per alimentarsi. Gli ultimi approdi danno quasi il senso di un acquietamento - almeno temporaneo - delle ansie concettuali: la visione diventa quasi distaccata, compiaciuta, rivolta all’eleganza delle cose piuttosto che alla loro intima problematicità. Almeno in apparenza. Anche le scelte formali e cromatiche sembrano accennare ad un “riposo del guerriero”, dominate come sono da un gusto quasi estetizzante di portare il dipinto oltre il limite del supporto, l’iconografia quasi stereotipata dei profili e degli ambienti, gli scenari al limite del gusto naif o forse piuttosto pudicamente bambinesco, quasi a liberare il “fanciullino” represso in un piacere epidermico del fare pittura. Convergono un po’ tutti i temi propri della sua pittura, dagli spazi stellati alle mappe celesti, dai richiami ancestrali dei miti ai simboli di ciascuna cultura, dagli interni descritti dalla letteratura agli spazi esterni sognati prima che disegnati. Ma la tavolozza si è rasserenata, prevalgono le qualità quasi pastellate e il gesto ha perso nervosismo ed aggressività per farsi sensuale ricerca del particolare. Ma il senso generale, di un colorista puro, non muta. “Chi nasce tondo non muore quadro” dicevano i vecchi contadini per definire la tenace coerenza, nel bene e nel male, agli assunti di base; e, forse, chi nasce pittore non può morire geometra; per questo, tra mille evoluzioni, continua a girare, a guardarsi intorno, a dipingere e a lavorare di incisione.
Enzo di Grazia

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