Fuochi incrociati. Una quindicina di sculture dei due artisti appartenenti al periodo che va dagli anni '50 ai primi anni '70 e che vogliono suggerire, in modo misurato ma significativo, quanto il modellare e il plasmare la creta fosse per i due "soffio vitale".
A cura di: Riccardo Zelatore
Due generazioni a dialogo, due anime inquiete sulla medesima
lunghezza d’onda, due genialità a contatto. Il pretesto della mostra
Fuochi incrociati, ordinata da Riccardo Zelatore, che inaugura a
Torino presso la Galleria Terre d’Arte il 27 Settembre 2012, è uno
scambio epistolare tra i due artisti che risale al 1967 in occasione
del Premio Gubbio. Franco Garelli (1909-1973) è allora membro di
giuria e Alfonso Leoni (1941-1980) compare tra i partecipanti.
L’occasione segna l’inizio di un’amicizia ma soprattutto è
l’incontro di due sensibilità affini che, per onestà intellettuale
di entrambi, non celano reciproca stima e ammirazione. Per Leoni non
è solo educata deferenza per un maestro già maturo e affermato; per
Garelli non è benevolenza per un talento evidente. Il loro rapporto,
pur di breve respiro, considerato che Garelli scompare nel 1973 e
purtroppo Leoni giovanissimo solo pochi anni dopo nel 1980, resta un
felice incontro di eccellenze, un raro connubio d’intelletto. I due
uomini sono eppure diversi, per formazione e per percorso
espressivo, ma forte è il legame mediato dal mezzo espressivo che
più hanno amato e frequentato: la terracotta. In mostra una
quindicina di sculture dei due artisti che appartengono al periodo
che va dagli anni cinquanta ai primi anni settanta e che vogliono
suggerire, in modo misurato ma significativo, quanto il modellare e
il plasmare la creta fosse per i due soffio vitale. Non si è cercato
come criterio ordinatore la completezza dei reciproci percorsi,
quanto l’individuazione – pur soggettiva - di alcuni punti di
contatto materico, cromatico e anche tattile che confermano quanto
l’essenza e la preziosità di questa affascinante e complicata
materia possa unire chi si pone come obiettivo di adoperarne le
possibilità intrinseche per tentarne nuove espressività.
La mostra, che è visitabile sino al 3 novembre, è stata resa
possibile grazie alla preziosa e fattiva collaborazione di Marta
Leoni, moglie dell’artista, e Giovanni Battista Martini della
galleria Martini&Ronchetti di Genova, coordinatore dell’archivio
Franco Garelli nasce a Diano d'Alba il 19 dicembre 1909 gli studi classici a Torino (Liceo d'Azeglio) seguendo poi le orme paterne
sino alla laurea in medicina; ma mantenne insieme un profondo,
naturale legame con la terra in cui era nato, segnato da una forte
inclinazione per le arti figurative, nel disegno come nei primi
cimenti plastici. Fin da ragazzo, come egli stesso ha raccontato,
cominciò «a tirar su enormi figure di terra, maneggiando decine di
chilogrammi di argilla». L'avvio in ambito universitario, nei primi
anni trenta, lo vide esporre alla Mostra piemontese di arte
goliardica (1932), ai Littoriali Anno X e alla I Mostra documentaria
di Vita Goliardica organizzata dal GUF di Torino alla galleria Il
Faro. Alla fine del decennio, modellando le argille di Albisola e di
Castellamonte, scoprì il gusto per la ceramica che in qualche modo
acuirà il suo interesse per il modellato ed i materiali, affrontati
con un vitalismo creativo di cui riuscì ben presto ad investire
l'intera sua opera. Temi da allora ricorrenti: uomini e «Pomone»,
animali come tori (e toreri), galli e cavalli. Troppo scontati
dovevano apparirgli il mondo di un maestro come Casorati e la stessa
posizione dei Sei Pittori di Torino, preferendo egli guardare
intanto al secondo Futurismo di Fillia, di Oriani e di Mino Rosso,
alla genialità controcorrente di Luigi Spazzapan e, ad Albisola,
alla severa misura di Arturo Martini.
Tra il 1941 ed il 1943 partecipò al nuovo conflitto mondiale e gli
venne conferita la Croce di Guerra al valor militare; ma non tardò,
poi, a riprendere l'attività medica, come libero docente in
otorinolaringoiatria nel corso di chirurgia plastica, senza per
questo rinunciare all'impegno artistico che divenne infine il suo
unico scopo, alternando l'esercizio della scultura, pittura e
grafica, compreso l'insegnamento di anatomia artistica all'Accademia
Albertina.
La fine degli anni '40 rappresenta per Garelli un periodo di grandi
incontri: ad Albisola e Vallauris incontra Fontana, Tullio Mazzotti
ma anche Agenore Fabbri e Aligi Sassu. Un'atmosfera internazionale
permea l'ambiente dell'artista, grazie soprattutto alla presenza del
gruppo sperimentale nord europeo "Cobra" di Jorn, Appel, Corneille e
Constant, presente al Laboratorio Sperimentale di Alba animato da
Pinot Gallizio. Garelli esporrà con loro sculture e disegni nel
1956, in occasione della Manifestazione del Movimento Internazionale
per una Bauhaus Immaginista realizzata all'Unione Culturale.
In
un'intervista del 1965 Garelli ricorda: " Gli argomenti vertevano
sull'Informale, con accese coloriture espressionistiche. In
definitiva era un gruppo di persone d'avanguardia non ben precisata
di diversi paesi che avevano certe cose da sfogare e le sfogavano."
Fin dalla metà degli anni cinquanta le sue figure in rottami di
ferro saldati, non senza una loro forma ironica, rompono la
tradizione plastica; egli è sicuro di dover cercare nelle sue opere
e con le sue opere un'immagine del nostro tempo, dell'uomo del
nostro tempo. E lo fa - come Garelli stesso ha detto - servendosi di
«oggetti del nostro tempo: pezzi meccanici, ritagli di lamiere
scartati dalle fabbriche di automobili.
Saranno queste cose a
suggerirmi l'aspetto dell'uomo». Anche se poi ciò che lo interessa è
«fare una scultura figurale: non uomini o donne, ma figure». Si noti
come Garelli intenda modellare non più, come una volta, la
«superficie esterna», ma, come Lipchitz (che fu il primo a farlo) la
«forma cava». Prese così a tagliare ed arrotolare le lamiere fino a
farne il portato di un’idea plastica, ma soprattutto il cimento con
la materia per farne scultura. Un discorso che fin dal 1963 parte
con i plamec (materiale plastico su tela o su legno) sino ad
ottenere rilievi, bassi ed alti, dove si sente ancora il piacere
dell'improvvisazione imposta dai rapidi mutamenti termico-plastici
dovuti al tipo di lavorazione.
Ad intrigare concettualmente l'artista erano proprio le implicazioni
di quei passaggi dalle due alle tre dimensioni.
Dopo un incidente stradale che ne aveva limitato alquanto
l'attività, colpito da una malattia incurabile che lo aveva
completamente isolato dal proprio mondo, morì a Torino il 22 aprile
1973.
ALFONSO LEONI nasce a Faenza nel 1941. Era artista, era ceramista,
fu allievo e insegnante, soprattutto fu se stesso, ma con tale forza
e decisione che solo in rarissimi casi si incontrano concentrate in
una sola persona. Termina gli studi fatti all’Istituto d’Arte per la
Ceramica G. Ballardini di Faenza nel 1960 e nel medesimo Istituto
insegna “Plastica” dal 1961. Il suo passato ha inizio con Angelo
Biancini. Lo scultore se lo trovò nella sua aula giovanissimo e
subito riconobbe la genialità di questo ragazzo che, pur abilissimo
di mano, trasgrediva i suoi insegnamenti per proporre continuamente
interventi nuovi con un’impronta del tutto personale. Il rapporto
con il maestro fu lungo, intenso, quasi filiale. Biancini non solo
lo volle al suo fianco, ma gli affidò un compito delicatissimo:
realizzare il graffito decorativo dei suoi più importanti pannelli.
Attratto dalle molteplici possibilità dei materiali ha percorso vari
itinerari di ricerca, ottenendo riconoscimenti internazionali di
particolare importanza. Nel 1970 esegue una grande scultura in marmo
e un pannello in bronzo per un edificio dell’Università di Bologna,
Facoltà di Matematica (Arch. Michelucci).
Sulla scia degli artisti romani Nedda Guidi, Emanuele Astengo e Bona
Cardinali conosciuti grazie al rapporto avuto con studiosi e critici
quali Andrea Emiliani, Enrico Crispolti eFilippo Menna, attenti a
cogliere e censire questi spostamenti di idee nel campo dell’arte,
Leoni aveva maturato la grande ambizione di fare della terra un
linguaggio e non un oggetto. Era coerente con il discorso, datato
anni ’70, di una rottura linguistica, sostenuto dalla fiducia verso
la sperimentazione di nuovi materiali e nuove tecniche compositive,
per creare nuovi cortocircuiti del senso. Nella prima metà degli
anni Settanta si impegnò anche nel settore del disegno industriale e
fu tra i collaboratori più attivi della Soc. Maioliche Faentine
S.p.A. di Ercole Baldini. Nel 1973, come omaggio d’arte per
l’inaugurazione di un nuovo stabilimento industriale della suddetta
Società, realizza i famosi “flussi piegati”, più noti come il “Pugno
di Leoni”. Le sue opere in ambito ceramico rivelano la sua
straordinaria vitalità e introducono in una dimensione di valenza
metafisica con colpi leggeri di luce e di ombra, di levitazioni
sublimi accostate ad artifici di abilità e di altissima scenografia
teatrale.
Nel 1976 Leoni, con la performance al Museo di Faenza in
cui rompeva i suoi bei pezzi per assemblarli in una palla di argilla
informe, con le sue vetrinette (Premio Faenza 1976) contenenti
frammenti di ceramica e medaglioni cimiteriali con immagini della
storia dell’arte, con le lastre in terracotta segnate dalle sue
impronte, ha dimostrato che la ceramica può essere altro
dall’oggetto smaltato ed ha dato una spinta per una riconsiderazione
delle regole che asfissiavano il Concorso faentino. Regole alle
quali non volle sottostare ed alle quali reagì fin dal 1974,
rifiutando il verdetto della commissione giudicatrice del Concorso
Internazionale di Ceramica d’Arte Contemporanea di Faenza, che aveva
ammesso all’esposizione solo parte di un suo lavoro più complesso e
non mostrò al pubblico le opere nascondendole sotto un telo bianco.
Nel 1976 Leoni si aggiudica il Primo Premio alla Mostra
Internazionale di Faenza con le sue “vetrinette da museo” sui cui
piani sono composte un’abbondante serie di significativi frammenti
di stufa in terracotta rossa e sei medaglioni cimiteriali in
porcellana decorati con foto ceramiche. Alla fine degli anni ’70 il
“bello” era racchiuso entro canoni ben precisi. Per Leoni, invece,
il “bello” era trasgressione, era tutto ciò che rompeva queste
regole a rischio di apparire il suo contrario. Fino a dimostrare che
non possono esistere concetti di bellezza o bruttezza, ma
semplicemente il “dubbioso”. Ancora una volta respirava, anzitempo,
l’aria di cambiamento, l’aria che negli anni ’80 genererà un
pubblico “indeciso a tutto”, senza vocazioni, gusto e ferme
convinzioni.
Con la collaborazione alla VilleroyeBoch, Leoni iniziò ad assaporare
i vantaggi di una posizione di successo. In Germania disponeva di un
proprio atelier ed aveva alle dipendenze degli assistenti che
realizzavano le sue idee. Iniziarono per lui le collaborazioni e le
mostre all’estero, in Giappone, in Belgio, in Canada, in Inghilterra
…Nel 1979 giunse inesorabile la malattia. In questo periodo però
ebbe il tempo di riflettere con calma, anche se non cessò mai,
neppure per un istante, di pensare al proprio lavoro. Egli, che
prima di allora poteva vantare un fisico di eccezionale vigore, ebbe
la forza di commentare una crisi che lo condusse sull’orlo della
morte con queste parole:
Vale la pena avere la mia malattia per sentire la sensazione del
passaggio dalla morte alla vita, quando tutto il nero che vedi
attorno diventa all’improvviso rosa e senti di nuovo di essere
normale”. Leoni scompare nel 1980lasciando una traccia di
sperimentazione e di ricerca di enorme dimensione.
Inaugurazione: Giovedi 27 Settembre ore 18
Galleria Terre d’Arte
Via Maria Vittoria 20/A, Torino
Ingresso libero