Materna_mente. Le due artisti interpretano l'altra faccia della maternita', quella che assume il carattere di un incubo intriso di paure e ansia. A cura di Chiara Tavella.
a cura di Chiara Tavella
Materna_mente: il titolo della mostra riassume il tema a cui riconducono i lavori di Elisabetta Di Sopra e Marija Markovic, ma la scissione dell’avverbio in due indica fin da subito una duplicità, al limite una contrapposizione: tanto il “materna” richiama un sentimento di sicura, abbandonata fiducia, e una sfera di significato positiva e in qualche modo “calda”, in genere associata alla figura della madre, tanto la “mente” può essere sinonimo di raziocinio, di “freddo” controllo razionale sui fenomeni; ma anche, viceversa, di un mondo subliminale alla coscienza dove si annidano istinti, impulsi, paure. Se dunque il materna è termine caldo e buono, il mente è più freddo, polisemico, ambiguo e “cattivo”. Su questa sfaccettatura di significati giocano i lavori delle due artiste, che instaurano tra loro un rapporto di specularità. Anche se concepiti in modo autonomo uno dall’altro e riuniti insieme solo in questa occasione, i video di Elisabetta di Sopra possono essere letti come una riflessione su quattro momenti chiave della vita al femminile e del ruolo materno, a partire dal concepimento. In Light water (2009) infatti una bambina nuota in un’acqua buia, giocando con una sfera che emana una luce azzurra, sullo sfondo sonoro di uno sciacquio profondo e interno. Il riferimento all’acqua uterina e a una dimensione che, nonostante il buio, è avvolgente e rassicurante, è evidente. Meno rassicurante invece è il video Untitled (2007): al richiamo del vagito di un lattante, da un seno, che occupa ossessivamente tutta l’inquadratura, sgorga del latte. È una situazione normale, per una madre, e però non si risolve in modo normale: il bimbo continua a piangere, la madre a sciupare il suo latte.
L’innaturale separazione genera uno stato di privazione e di ansia che, per converso, mette in rilievo la centralità del rapporto madre-figlio. Questo è il tema anche di Aquamater (2012): una bimba, lasciando cadere dell’acqua – sinonimo di vita – dalla propria bocca a quella della madre, restituisce simbolicamente la vita che ha ricevuto. Il gesto ha l’essenzialità e la pregnanza icastica dei gesti rituali e riassume in sé un ampio arco di significati: la profondità del rapporto madre-figlio, lo scambio dei ruoli tra le generazioni e il senso del corpo, della corporeità soprattutto femminile, come fibra che intesse questi legami stessi. Attraverso il corpo, attraverso i gesti e le posizioni che i corpi assumono nel video, si esprime un altro aspetto della vita al femminile e della maternità: la complessità e l’ambivalenza del ruolo della donna nel quadro dei rapporti familiari. In Family (2012) la donna è al centro di un gioco a tira e molla tra il compagno e il figlio, combattuta tra il desiderio di emanciparsi e uscire quindi dal cerchio invisibile che la rinchiude, e l’esigenza di restarvi dentro, di assumersi le responsabilità e i doveri della madre.
Elisabetta Di Sopra indaga dunque la funzione materna in modi e momenti diversi, consapevole della problematicità che essa comporta ma sostanzialmente convinta, da donna e madre qual è, che in questa funzione si incarni il motore della vita. E in tutti i suoi lavori, anche in quelli più lontani dal tema della maternità, si ritrova questo senso dell’esistere, di un movimento ciclico del tutto che si rinnova di continuo, al di sopra dell’individuo singolo, di cui riassorbe in sé la vita e la morte. A livello dei contenuti siamo nel polo caldo del “materna”. A livello formale invece i video evidenziano un approccio meditato che afferisce piuttosto all’area concettuale, a un concettualismo tuttavia “scaldato” dalla capacità di essenzializzare l’immagine e condensarla in una situazione di forte empatia. Molto lontano da ciò il lavoro di Marija Markovic, nonostante la similarità del tema. Incubo (2011) è una figura a grandezza naturale, tridimensionale. Una donna nuda, incinta, che guarda in basso, alla sua pancia, e urla. Uno squarcio sanguinate, sulla pancia rigonfia, da cui sbuca il piede di un neonato e lei che si tiene la pancia con le mani, come per non farlo uscire. Ma è inutile: l’altra opera della Markovic esposta qui, In cerca di cibo (2012), nata autonomamente ma strettamente collegata alla prima, è una serie di neonati – tutti senza capelli e ancora con gli occhi chiusi, indifferenziati e senza nome – che sembrano appena usciti dalla pancia della figura femminile e si incamminano a gattoni verso il video Untitled di Elisabetta Di Sopra – l’unico punto di giuntura tra i lavori delle due artiste, che peraltro sono diversissimi, come si è detto. La maternità ha qui a che fare con il dolore, sia fisico – lo squarcio, l’urlo – che morale – l’ossessione della ripetizione, di questa fila di neonati che continuano a saltar fuori e sembrano non finire mai e che, non avendo un’identità definita e presentando invece un aspetto repellente, non fanno sorgere il benché minimo sentimento materno.
È l’altra faccia della maternità, quella che si annida nelle pieghe dell’inconscio e assume il carattere di un incubo – giusto il titolo – intriso di paure e ansia. È l’altra faccia di un sentire al femminile dove viene in luce il senso di una “condanna” a generare, e con il generare, sullo sfondo, il senso della condanna a un ruolo, quello di donna-moglie-madre. Il polo, a livello di contenuto, è quello della mente, per quanto attiene alla parte irrazionale delle pulsioni e degli istinti, e della complessità della psicologia femminile, con il suo carico di paure inconfessate. L’opera si presta quindi a una lettura di tipo psicanalitico e lascia supporre un vissuto complesso dell’artista. Ma sarebbe indelicato addentrarsi troppo in una dimensione così intima, e del resto non è necessario: il lavoro parla da sé, con la sua violenza inusitata. A livello formale, è il carattere iperrealista delle sculture a trasmettere questa sensazione: proporzioni reali, pelle che sembra vera, il rosa e il rosso delle carni, i capelli resi attraverso una parrucca… È il linguaggio senza veli di un espressionismo che ritorna anche in altre opere di Marija Markovic, sempre centrate sul tema del corpo femminile, del seno soprattutto, e riporta a un approccio “caldo”, immediato ed istintivo, con le tematiche affrontate. Un approccio “materno”, per certi versi. Le opere delle due artiste sono quasi diametralmente opposte, e in questo sta un aspetto di interesse della mostra, che mette a confronto interpretazioni così diverse dello stesso tema. Diverse e però, entrambe, eminentemente, squisitamente femminili – e anche questo va sottolineato: questo “sentire donna” che sa scavare così in profondità nell’universo femminile e portarne in luce tanto paure e ossessioni quanto una sfuggente, indefinibile dolcezza.
Inaugurazione 15 settembre ore 19
Caos Art Gallery
Dorsoduro, Calle Lunga S. Barnaba, 2687 - Venezia
Da lunedi a sabato 11.30 - 14.00 15.30 - 19.00 domenica 15.30 - 19.00
Ingresso libero