Il cosmo oscuro. Sulla forma della Natura. Una doppia mostra personale con un comune filo conduttore: il mondo e la natura interpretati nel loro essere nel loro divenire.
A cura di Donatella Airoldi e Martina Corgnati
Una doppia mostra personale con un comune filo conduttore: il mondo e la natura interpretati nel loro essere e nel loro divenire.
Da una parte la dimensione cupa e interrogante delle Stelae di Fernanda Fedi dove la terra e il cosmo sembrano identificarsi con un misterioso spazio oscuro illuminato da furtive presenze indecifrabili e dall’altra le sculture di Paola Malato: quelle in terra cotta che ridefiniscono il contesto evocato da strutture arcaiche e quelle luminose che indagano la luce nel suo legame dinamico con l’ombra.
La presenza di elementi arcaici comune in entrambe le artiste porta tuttavia a letture diametralmente opposte: una loro rivisitazione e attualizzazione in Paola Malato e un loro ancor più grande allontanamento nella notte dei tempi in Fernanda Fedi.
Donatella Airoldi
Il cosmo oscuro di Fernanda Fedi
“L’uso della ragione rende le cose trasparenti allo spirito. Ma il trasparente non si vede. Si vede l’opaco attraverso il trasparente, l’opaco che era nascosto quando il trasparente non era trasparente.” (Simone Weil)
Non so se lei sia donna di fede, se pensieri, immagini e parole le sovvengano in severe riflessioni logiche oppure in inquiete notti insonni intercalate da sogni ad occhi aperti, non so se elabori silenziosamente nel buio il senso e i movimenti che nascono dalla memoria, dalla terra, dal fuoco, dagli innumerevoli miscugli chimici che si fondono o che invece ostinatamente non vogliono mischiarsi.
Fernanda Fedi é artista di essenzialità filosofica e di poche parole. Gli approfondimenti e gli studi a monte, a partire dalle filosofie orientali e occidentali, affiorano evidenti nei suoi lavori dove lasciano il concetto astratto per inserirsi in una materia operaia, plasmata e manuale che sorvola e rasenta le diverse fedi e credenze.
In questa mostra si alternano stelae rettangolari sormontate da forme triangolari e semicircolari con altre poste obliquamente sulla parete dai colori neri-rossi e lame eterne di luce d’oro che nella loro insolita installazione reciproca inducono a multiformi e complessi piani di proiezione. Colori intensi di gialli, ocra, blu e neri sono frammisti ad eccessi d’oro scambiati sovente con altri metalli preziosi quali l’argento e il rame usati forse quali potenti dissuasori di un senso univoco della percezione in grado di aprire ipotetici infiniti mondi coesistenti e paralleli.
Sono opere dove vulcani giganteschi si sono appena risvegliati tormentando la terra dai loro inferi. Tele in cui sembra scandita la creazione dei mondi, dal buio profondo della reminiscenza fino alla luce del sapere. La sacralità mistica e la miseria terrena, la disperazione immanente e il tempo-spazio infinito ci balzano addosso in un’altalena continua attraverso atmosfere fluttuanti e misteriose lontane nel tempo e nello spazio.
Molti di questi lavori hanno la caratteristica di collocarsi tra una scala reale, Sc. 1:1, usata per la scrittura e una scala ridotta all’ennesima potenza usata per il “fondo”, magma sideralico e incommensurabile. Non sono quindi oggetti precisati e corrispondenti alla loro misura fisica, ma quadri-frammento come se un ipotetico scatto fotografico avesse compresso un panorama stellare immaginario in un rettangolo di tela. Su questo strato oltre il limite il materializzarsi di una scrittura che sembra scrittura ci riporta per un attimo a una dimensione reale e definita, ma solo per poco perché questa scrittura sfugge a sua volta ad ogni imbrigliamento limitante.
Esplicita è qui l’intenzione di ampliare ed esplorare il senso profondo e altro di opere già esistenti: mutazioni, trasmutazioni, trasformazioni, rivisitazioni. Sono l’attimo di un’esistenza, ma anche tutta l’esistenza, sintesi di un passato e di un dopo che si sta plasmando.
Stelae che vibrano materia viva come e quasi il coro di una remota abbazia dispersa negli Evi bui. Immaginiamo il cantilenare dei frati, il colore dei sai, dei sandali, dei cappucci, colore denso scuro come sangue che esce dalle vene e prende corpo e materia e si scopre attore inferocito della vita.
Sono Opere-Parole che viaggiano in spazi profondi, prendono la via dei venti e compongono liriche e drammi scoprendo che nei fondali e negli inferni vulcanici non vi è alcuna necessità d’ossigeno. Il colore scuro è la via della vita sotterranea, terra che si scopre fautrice di movimenti apocalittici, terremoti, inondazioni, potere estremo di moti e fluttuazioni che creano lucenti universi, galassie, o distruggono mondi forse già morenti.
L’artista congiunge le sue pitture dubitanti, tenebrose, ancestrali, ad apparenti scritture, lettere indecifrabili, etrusche, greche, dorate, ramate, sillabe mai viste, segni di una lingua che vorrebbe tradurre o trasformare gli elementi in illeggibili o intraducibili sensi. Sono alfabeti emersi dall’inconscio e dalla notte dei tempi che non formano parole, frasi, racconti perché sono forse costellazioni astrali nascoste e occultate alla visione del comune umano o perché sono testimonianze dell’inconosciuto e dell’incomprimibile, limitate da corpi cosmici che nell’atmosfera si dissolvono, materia magmatica ribollente che tutto attira e ingloba nelle sue profondità.
Sono sequenze di materia che si squarciano per rivelare l’abisso o lo spazio dell’universo, profondità oscure con il cielo che si traveste da terra e la terra da cielo.
Un sentimento di religiosità profana e mistica permea ogni cosa per effetto della pacata interrelazione delle tele che costituiscono l’installazione centrale e per l’equilibrio della scansione e ieraticità dei suoi elementi che riecheggiano schemi conosciuti e introiettati, ci riportano ad antiche cerimonie, preghiere e canti corali, fedi e riti certi, comandamenti, regole di vita che portano all’immortalità, alla sicurezza di possedere il senso dell’esistenza.
Dice Pascal: “La memoria, la gioia sono dei sentimenti, e anche le proporzioni geometriche diventano sentimento perché la ragione rende naturali i sentimenti e i sentimenti naturali vengono cancellati dalla ragione.”
Le opere di Fernanda interrogano continuamente e a più voci l’interlocutore sul concetto del divenire, sui diverbi esistenziali, ci introducono in visioni astratte e complesse, buchi neri dove la profondità non ha confine perché si perde in pianeti impercettibili, invisibili, che la nebulosa riconosce e scruta per restituirci il mistero del noi, dell’essere e dell’impossibile.
Nelle sue opere il mondo reale non è mai rappresentato se non nei suoi aspetti perturbanti e in fieri, dell’intero genere umano appaiono soltanto tracce appena individuabili, tutto è già forse finito o forse, in una sorta di preveggenza o monito, potrebbe presto finire.
E’ questo che probabilmente Fernanda Fedi ci propone: un risveglio dai torpori narcotizzati delle umani genti per cercare altre dimensioni, vie, un timore della possibile totale distruzione del cosmo: mari, mondi, acqua, aria e il nostro ambiguo sangue di traditori, per vil denaro, del senso della vita.
E’ come se ci mettesse continuamente in guardia sui pericoli di una continua e sovrastante distruzione del pianeta terra dove l’essere non è che un pulviscolo nell’infinito spazio celeste.
Lei ci suggerisce che questa vita è un passaggio di vento, una sillaba fiatata divorata dal suolo.
Martina Corgnati
Sulla forma della Natura
Per Paola Malato, la terra è un territorio di sperimentazioni e di ricerche illimitate, tecniche e formali, un materiale versatile e sensibile su cui esercitare il piacere di modellare, di toccare e di manipolare un elemento primordiale e costitutivo di tanta parte dell’esperienza umana, ma anche far convergere problemi e temi che altrimenti resterebbero inesorabilmente separati e confinati in ambiti operativi differenti: pittura, scultura e arte ambientale (improprio sarebbe infatti, come Bruno Zevi insegna, parlare di architettura laddove non esiste spazio interno), si ritrovano affrontati tutti insieme in un contesto che si risolve in scultura pur senza eludere i problemi del colore, si articola e si dilata liberamente nello spazio pur senza perdere di vista la propria essenziale condizione di “oggetto” plastico ben delimitato. Un contesto che, insomma, permette di raccordare insieme con facilità e quasi con naturalezza alcuni fra i temi fondamentali dell’arte moderna e contemporanea.
Le sue opere, come per esempio il Trittico qui esposto, nascono da moduli che, combinandosi insieme secondo modalità ogni volta dissimili, danno luogo a forme originali ma nello stesso tempo d’aspetto arcaico, totem senza tempo, sensibili alle carezze o all’invadenza forte della luce e custodi di morbidezze, di attenzioni e di dettagli che possono sorprendere chi consideri innanzitutto il loro aspetto relativamente serio e solenne. Eppure questi elementi, sempre vagamente antropomorfi, sono capaci di relazioni complesse l’uno con l’altro, tali da evocare vere e proprie narrazioni pur senza perdere il loro carattere astratto, quasi postcubista. Essi, inoltre, va detto, non esauriscono il repertorio di possibilità espressive dell’artista che con la terra cotta, di colore bianco o naturale, ha realizzato anche una quantità di opere a parete, sequenze che sembrano muovere da un punto per propagarsi lungo una direttrice logica ed estetica insieme; e oggetti-forme, come le lampade proposte qui (meglio sarebbe chiamarle “Sculture di luce”).
Oggetti che sembrano giocare con le forme primarie del cilindro, della sfera, dell’ovale, per avvolgere un nucleo di luce endogena, una sorgente annidata al loro interno, come un tesoro o un presagio, elemento vitale sul punto di sorgere e di far “sbocciare” queste forme bianche dolcemente avviluppate intorno e modellate con maestria, quasi virtuosismo.
Da Henry Moore a Lucio Fontana, la grande scultura ha portato avanti una profonda riflessione sullo spazio interno, inteso non come elemento praticabile quale è nell’architettura, ma come vuoto generante e generativo di forma: la terra, le terre di Paola Malato si ricollegano a questa linea maestra per ritrovare la propria valenza materna (terra madre) e al tempo stesso la propria natura moderna. Essi infatti sono corpi determinati dal pulsante vuoto che, dall’interno, li ispira e li penetra, lungo linee e assi che l’artista ha opportunamente lasciato libere ed aperte, in modo da mettere in comunicazione l’interno con l’esterno: così che l’occhio e lo sguardo non solo debbano abbracciare la totalità convessa dell’oggetto ma possano ritrovare la relazione fra le sue due dimensioni costitutive: quella interiore e quella esteriore.
Note biografiche sulle artiste
Fernanda Fedi, artista, pittrice, scultrice. Ha compiuto studi artistici Milano e Bologna, laureandosi al DAMS con specializzazioni in Museologia e Museografia e in Arte Terapia. Il suo percorso artistico ed i suoi approfondimenti nel campo dei gruppi artistici anni 70, della donna-artista e dell’arte terapia sono oggetto di studio per ricerche universitarie e tesi di laurea.
La sua prima mostra personale a Milano nel 1968.
Dopo una lunga ricerca nel campo strutturale (1968-1978 : Quadriennale di Roma 1975, gall.Fumagalli Bergamo 1974-76, Biennale di Venezia ‘arte-ambiente’ 1976 ‘, Réalités Nouvelles Parigi 1976…) ed un periodo concettuale in cui domina l’idea di assenza(1979-82 : XVI Bienal de Sao Paulo 1981, Museum contemporary art Skopje 19881, Grands et jeunes d’aujourd’hui Paris 1982..), a partire dal 1983 passa alla scrittura segno quale gesto della memoria, con particolare riferimento alla poesia, alla musica e scrittura arcaica , scritture antiche re-interpretate (Washington Museum 1989-2006,Palazzo dei Diamanti Ferrara 1992, galleria Vismara Milano 1996-99-2005, Biennale Venezia ‘Camera 312 – Pro-memoria per Pierre’ , ‘A Filo d’Acqua’ Museo del Merletto Isola Maggiore’2007,MAC Milano, 2009 Museo Shangai ‘I maestri di Brera’ Shangai(Cina), 2010 ‘Rigorosamente Libri’ Banca del Monte, Foggia, 54.a biennale di Venezia, Sala Nervi Torino 2011/12 …
Paola Malato è nata a Napoli, ha studiato a Roma, vive e lavora a Torino.
Predilige l’uso della terra cotta, combinata in alcuni casi anche con altri materiali (piombo, rame, ferro, legno, pietra, marmo, gesso, vetro, mosaico…).
La sua ricerca punta ad una sintesi tra scultura (perché tecnica e materiali usati sono quelli della scultura), pittura (perché le superfici sono sempre trattate in maniera pittorica, oltre al fatto che a volte compare concretamente il colore) e architettura (perché ne risulta una combinazione di elementi strutturali ( rotazioni, compenetrazioni, ribaltamenti di piani).
Ha creato grandi installazioni, organizzando performances.
Più recentemente Paola Malato ha recuperato i valori narrativi della pittura, impegnandosi in sperimentazioni con materiali e linguaggi assolutamente nuovi, più attenta ai temi del quotidiano e alla dimensione effimera della moderna cultura globale che stiamo vivendo.
Ha esposto in numerose mostre personali e collettive: si ricordano, tra le altre, quelle di Roma, Torino, Cuneo, Volterra, Chieri (To), Lublino (Polonia), Napoli, Bergamo,Brescia, Lecce, Urbino, Castellamonte (To), Settimo Torinese, Rivarolo Torinese, Praga.
Hanno scritto di lei, tra gli altri: Mirella Bandini, G.Sebastiano Brizio, Riccardo Cavallo, Paride Chiapatti, Giuseppe Cordoni, Martina Corgnati, Marilina Di Cataldo, Paolo Levi, Marco Lodola, Pino Mantovani, G.Giorgio Massara, Angelo Mistrangelo, Anna Minola, Ivana Mulatero, Paolo Nesta, Enrico Perotto, Marco Rosci, Vittorio Sacco, Marisa Vescovo
Inaugurazione: martedì 16 ottobre ore 18
Quintocortile
Viale Bligny, 42
mar-ven 17-19
Ingresso libero