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Paolo Valente
dal 19/6/2003 al 31/7/2003
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19/6/2003

Paolo Valente

3g Arte Contemporanea, Udine

Non si chiamano Bersabea o Zobeide, Melania o Armilla, come le tante citta' dal nome di donna che popolano il libro di Italo Calvino. A differenza di quelle, non sono nemmeno fatte di fili di ragnatela, non sono poggiate su trampoli, non sono ricche di pinnacoli o torri. Le metropoli create da Paolo Valente somigliano piu' alla realta' che al sogno di un letterato, mostrano enormi affinita' con megalopoli come New Dehli, Teheran o Istanbul piuttosto che parentele con i panorami poetici da Mille e una notte.


comunicato stampa

''Le città nascoste''

Il cielo sopra Zobeide
di Maurizio Sciaccaluga

'Ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze,
una città senza figure e senza forma,
e le città particolari la riempiono'.
Italo Calvino, Le città invisibili

Non si chiamano Bersabea o Zobeide, Melania o Armilla, come le tante città dal nome di donna che popolano il libro di Italo Calvino. A differenza di quelle, non sono nemmeno fatte di fili di ragnatela, non sono poggiate su trampoli, non sono ricche di pinnacoli o torri. Le metropoli create da Paolo Valente somigliano più alla realtà che al sogno di un letterato, mostrano enormi affinità con megalopoli come New Dehli, Teheran o Istanbul - le città dell'Est, dove i colori sbiadiscono tra vapori congestionati dal caldo e gli edifici sembrano sempre fatiscenti, spogli e spettrali - piuttosto che parentele con i panorami poetici da Mille e una notte. Eppure, in quel susseguirsi di linee senza timbro, in quella materia dove è lo spessore o la spatolata a suggerire l'inizio di una via di fuga o l'incuneabolo di un sottopasso, in quella distesa infinita di case e piazzette che pare minacciare d'invadere il mondo intero, c'è qualcosa di magico, che invita al racconto, che suggerisce storie assurde degne solo delle pagine di un volume. Per quanto credibili e verosimiglianti, per quanto gemellate con le capitali della modernità, le città dipinte in bianco su bianco dall'artista non hanno nomi agli angoli delle strade, non sono regolate da divieti e sensi unici, non brulicano di vita: non sono vere, sono solo un sogno. Il sogno partorito dalla mente di un viaggiatore che, come il Marco Polo di Calvino, cerca in ogni dove la sua Venezia. E in ogni dove vede solo quello che vuole vedere, descrive solo una parte di ciò che ha scorto, 'affinché, una volta fissate con le parole, le immagini della memoria non si cancellino'. Valente parte dalla realtà ma, coi suoi giochi di luce che ricordano albe e tramonti su panorami infuocati, coi suoi piccoli piani verticali rigorosamente continui e mai interrotti da finestre, nicchie e portoni, dipinge una città sconfinata che è insieme una e tutte, che conserva i suoi segreti ben protetti da quella vista a volo d'uccello tipica delle sue tele. Nei quadri di Valente potrebbero esserci la Tripoli lontana dal mare, coi mercanti indaffarati impegnati a prepararsi per il suk, o la Parigi dei sobborghi dove ognuno torna a casa per il pranzo con la baguette sottobraccio, la Shiraz dei poeti sufi, coi logorroici fumatori di narghilé nascosti al riparo delle case da tè, o l'antica Iblea delle valli ragusane, con le sue strade tortuose vuote e la vita rinchiusa tra le mura di casa. L'arte fissa per sempre l'idea di città, non una specifica metropoli. Il pittore cattura il paesaggio con una tecnica che ricorda, anche se opposta nei toni, visto che lascia dominare i bianchi dove nella pellicola stridevano lividi neri, il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. Anche nel caso della pellicola, come nei quadri dell'artista, c'è una metropoli definita ma senza nome, visto che le strade, i palazzi e gli orizzonti ripresi sono gli stessi che imperano in ogni angolo del mondo, privi di caratteristiche, e che il carattere e l'anima del luogo sono costituiti da centinaia di storie individuali e nascoste, che subito e a lungo non si sentono e non si intuiscono. Wenders fa un passo più di Valente, ci mostra che quella è Berlino perché rapisce, ascolta e riporta agli spettatori le vicende - solitudini, disperazioni e speranze - dei berlinesi; Valente si ferma prima, mostra la città, ma non affonda il colpo, lascia che sia l'immaginazione dello spettatore a infilarci dentro le storie che vuole, a vederci una sceneggiata napoletana, un commercio orientale, un frenetico tran tran da capitale dell'Occidente.

A volte, nei lavori di Valente, è come se le città fossero state svuotate dall'interno, è come se la vita fosse stata risucchiata via lontano da quegli scheletri architettonici, rimasti in piedi abbandonati. Ma, con le persone, con il moto perenne, con i traffici, è come se fosse finita via, lontana, chissà dove, anche l'anima del luogo, il suo senso profondo. Rimane sulla tela un termitaio, che privato del suo popolo di lavoratori, di quel suo popolo di lavoratori, potrebbe essere ovunque, essere stato ogni cosa, essere finito per una qualunque ragione. Valente mostra come la città, pur con la sua prepotenza e arroganza, pur con quel fascino indescrivibile che cambia da luogo a luogo, non sia altro che uomini, che con le loro passioni la fanno vivere, respirare, pulsare. Senza mai dipingerli, mostrandone la mancanza, l'artista parla appunto di uomini, e di come siano importanti per una città, per un panorama, per un qualunque posto del mondo. Non li disegna, non li raffigura, ma li sottintende in ogni momento, perché altrimenti i suoi sarebbero quadri di fantasmi. E per dimostrare che le metropoli possono essere vive o morte, brulicanti o mummificate, ne raddoppia a volte i connotati. Su una carta sottile stampa a pressione i rilievi dei quadri, riproduce le linee rette orizzontali e verticali, ricopia le visioni lontane dense e ammassate a perdita d'occhio. Ma il segno non è più bianco, ha la consistenza della ruggine, della cenere, della carta carbone: dove tutto era chiaro adesso appare qualche ombra, e con le ombre anche sentimenti diversi, lontani dall'idea di luce e vita come la notte dal giorno. La città può avere o no uno spessore, anche se non lo dichiara, e da quello deriva il fatto che sia viva oppure lo sia solo stata'

Come quelle di Calvino, le città di Valente si fanno spesso filiformi, puntiformi, si assottigliano fino all'inverosimile. Si estendono a dismisura, si fanno ininterrotte, diventano pianura e stato. Non c'è da capire, ma solo da lasciarsi andare, da farsi prendere da queste visioni dove la realtà si trasforma in apparizione. Come Kublai Kan, l'alter ego di Polo, chi guarda i quadri di Paolo Valente ha un rammarico: sa che all'orgoglio per aver abbracciato con lo sguardo un territorio tanto vasto seguirà presto, molto presto, il sollievo d'aver rinunciato a comprenderlo e a capirlo. Con quelle prospettive strette e accatastate, con quell'insieme infinito di case e mura, con quella sterminata fuga prospettica di campielli e slarghi e viuzze l'artista descrive una cosa sola, evidente o agognata: il vuoto. E 'attaverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti'.

inaugurazione venerdì 20 Giugno ore 19

a cura di Maurizio Sciaccaluga

Catalogo in galleria

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via Poscolle 71/3
33100 Udine
tel. fax 0432 26145

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