Studio SessantaseiBarraVentidue
In forma di pane. L'artista scambia, sovrappone e confonde la scultura con la cucina e la materia con il cibo. In una seconda sala, l'oggetto si mescola nella sua essenza all'argilla.
a cura di Grazia Tassi
con il coordinamento di Matteo Manfrini
In forma di pane è un gioco di forza, è un azzardo alle regole, è una figura retorica materica, una similitudine visiva. Il concetto di sostituzione, alla base di tutte le figure retoriche, succede, appunto, una cosa con un’altra mantenendo un legame nella modifica. Così fa Giulia Bonora che scambia, sovrappone, confonde la scultura con la cucina e la materia con il cibo.
Ma non si tratta di un esercizio di stile, effimero ed estetico, quanto uno studio sociologico e del sé, su come l’origine delle azioni si fondi nell’atto alimentare, nel gesto di pieno e di vuoto, nell’azione del colmare e dell’esaurire che l’artista vuole, qui, esprimere in scultura.
A diventar materia è dunque il cibo, meglio, il primo tra i nutrimenti, il pane, il livello elementare della nostra alimentazione: basico, duttile, così versatile da prestarsi ad un gioco tra contenuto e contenitore, tra pieno e vuoto, capace di parlare di alimentazione sensoriale, sculture commestibili e di simulazione.
Tutto allora è doppio e apparente, reale ed ingannevole, evidente e celato. Al visitatore si offre prima di prendere parte alla performance, all’illusione, stando alle regole del gioco, di pescare da un sacchetto un piccolo pane ricoperto di argilla, di sbriciolarne tra le mani l’involucro, il contenitore fittizio, e rivelarne la verità, l’anima davvero commestibile, scoprendo il vero dal finto. Significa svelare il gesto dell’artista di celare la verità con gli inganni, per rendere la realtà un’altra cosa.
Poi, in una seconda sala, l’oggetto-cibo non è più comune, ma si mescola nella sua essenza ad argilla, diventando un pane fatto con la terra, una pasta usata nei periodi di carestia, l’ultimo cibo di sostituzione prima dell’incombere dell’uomo in comportamenti animali[1].
Era dunque la forma a garantire una continuità nel sistema alimentare, e qui la forma, come in un processo sociale, viene esasperata, ingabbiata, costretta nella imposizione di un limite, di un contenitore sull’altro, nella geometria degli involucri, in un rapporto di forza in cui la materia riempie, si espande, si dilata adattandosi ai margini imposti, pur tentando di scardinare le regole e i perimetri, per poi generare un altro sé uguale e contrario alla madre d’origine.
Grazia Tassi
Aprire al pubblico un luogo in cui si creano immagini è aprire un secondo sipario posto oltre quello conosciuto, quello che in genere si apre per mostrare ciò che è permesso mostrare.
L’immagine come risultato di una semplice produzione, o peggio ancora come prodotto, è dietro il primo e già noto sipario, mentre il secondo mostra qualcosa d’altro: il luogo dell’accadere, delle operazioni e degli umori atti alla creazione di un’immagine.
Tutto questo persiste nell’aria e si posa lentamente negli spazi di SessantaseiBarraVentidue.
[1] M. Montanari, Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Bari, 2011, pp. 89-90.
Nell'ambito di Artefiera Art City White Night
Opening mercoledì 23 gennaio 2013, ore 18
Open studio sabato 26 gennaio 2013, ore 16-24
Studio SessantaseiBarraVentidue
via S. Donato 66/22, Bologna