Galleria Numero 38
Lucca
via del Battistero, 38
0583 491104 FAX 0583 491104
WEB
Stefania Fersini
dal 26/6/2013 al 13/7/2013
mar-sab 10-13 e 15.30-19.30

Segnalato da

Gallerianumero38




 
calendario eventi  :: 




26/6/2013

Stefania Fersini

Galleria Numero 38, Lucca

Cpy. Per la realizzazione delle sue opere Stefania Fersini sceglie immagini da fashion magazine e interviene su di esse accartocciandole.


comunicato stampa

Nel saggio Differenza e Ripetizione, Gilles Deleuze enuncia uno dei paradossi più evidenti e al contempo più esecrati, dell’arte contemporanea del XX secolo: il paradosso della ripetizione, portando sulla scena la questione dell’originalità. Il saggio è un tentativo di affrontare il tema della differenza, nel suo rapporto con l’identità e con la ripetizione. Deleuze concepisce la ripetizione non come la generalità, ma come un atto selettivo che torna per affermare la differenza. Non si ripete l’identico, bensì la differenza che ritorna nell’atto del differire da se stessa. Questo principio ci aiuta a leggere la cultura visiva contemporanea, eccezione fatta per i casi di plagio. L’annosa questione del copyright, tanto cara al mondo musicale, cinematografico e letterario, è ora avvertita, seppur diversamente, nell’arte contemporanea, che nell’era di Internet conosce una ripresa e rielaborazione in chiave comica di molte opere consegnate alla storia dell’arte - prime fra tutte la Gioconda di Leonardo da Vinci, la Creazione di Adamo nella volta della Cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti, passando dal Rinascimento fino ad Andy Warhol, Joseph Beuys, Lawrence Weiner e così via…

Nel 2002 veniva fondato il Creative Common, una organizzazione no-profit per favorire la condivisione e l'uso della creatività e della conoscenza, la cui mission è assegnare libertà di licenza a milioni di canzoni e video a carattere scientifico e/o accademico. La pratica del “copy and paste” ormai innesca un’ideologia di appropriazione, che l’artista Stephen Frailey ha motivato così: “For the generation that I spend my days with, there’s not even any ideological baggage that comes along with appropriation anymore. They feel that once an image goes into a shared digital space, it’s just there for them to change, to elaborate on, to add to, to improve, to do whatever they want with it. They don’t see this as a subversive act. They see the Internet as a collaborative community and everything on it as raw material.” Il titolo stesso di questo scritto si rifà all’operazione, con relativo web site, ideata dall’artista Miltos Manetas www.iamgonnacopy.com in cui invita a votare pro o contro il copyright, interrogando sulla proprietà del cyberspazio e il principio di proprietà intellettuale. Stefania Fersini sceglie immagini da fashion magazine e interviene su di esse - semplicemente - accartocciandole. Nel gesto della mano che stropiccia, c’è la sottrazione dell’ordine e dell’apparente perfezione delle modelle, quasi a voler restituire un che di umano ai loro corpi, in un bilanciamento degli opposti di ordine e caos; come si intervenisse sulla loro pelle. Nella nostra quotidianità, accartocciamo fogli in un tentativo di ritorno all’ordine ed eliminazione del superfluo. Possiamo leggere così la texture stropicciata dei dittici fotografici di Stefania Fersini? Forse.

Tutto nasce dalla casualità di aver trovato anni fa il foglio di una rivista stropicciato; la sua attenzione, catturata, la spinge a dipingere su scala 1:1 (ovvero a dimensione umana) la medesima immagine “stroppiciata”, come a dipingere uno specchio in cui ritrovarci. L’evoluzione della ricerca è rappresentata dai dittici fotografici (copy), composti dalla fotografia del foglio originale accartocciato e dalla fotografia della tela. Immagini domestiche, sfogliate in qualche magazine ed elevate a status di icone vuote, proposte – pur nella diversità – in serialità, senza aggiungere alcun commento se non alcune “pieghe”, che sono anche tagli di luce che stridono. Piega come deformazione della carta, come altro livello rispetto alla bidimensionalità del foglio e quindi della tela, piega come possibilità di penetrare il corpo umano nella sua inaccessibilità di superficie.

Piega, forse o quasi, come grado di umanità. Il dittico ci riconduce a dove siamo partiti, ovvero al concetto della differenza nella ripetizione e al rapporto fra la copia e l’originale. L'artista infatti si interroga sulla possibilità (?), allo stato attuale della cultura visiva, che un'immagine non sia già stata prodotta. Fortunatamente i quasi due secoli che ci separano dalle Lezioni di Estetica di Hegel, ci hanno insegnato che il pensiero e la riflessione hanno sorpassato l’arte bella, che la nostra è una cultura riflessiva da conoscere scientificamente, che si tramuta in una riflessione sul proprio statuto. I dittici fotografici sono quindi doppi che riflettono se stessi, doppi che a prima vista sono due stampe identiche della stessa immagine, e ad un'analisi più accorta rivelano lievi differenze cromatiche, sottili differenze di composizione e risoluzione e quindi la doppia fonte. Oltre ai dittici fotografici, in mostra sono due dipinti: riproposizione pittorica della doppia pagina del magazine aperto. Il formato dei primi ricalca le dimensioni di un magazine, mentre le tele sono realizzate a dimensione umana: due specchi in cui specchiarci, uno specchio in cui riconoscerci (?). Se nelle prime tele e nei dittici fotografici la stropicciatura aggiunge un minimo intervento alla realtà del foglio stampato, nei dipinti delle doppie pagine, l’aderenza alla realtà è proporzionale alla sottrazione di qualsiasi intervento di pensiero. Ciò evidente nella deformazione al centro della tela che riproduce la curvatura fisica del media e nell’abbaglio che è la trascrizione fisica del rifrazione della luce sulla carta patinata lucida del magazine. Abbaglio come riflesso di natura fisica, abbaglio come cecità metaforica indotta dall’industria del consumismo. “Copio, perché la soluzione all'eccesso non è creare il Nuovo. Copio come uno specchio, perché riflettere è la mia scelta.” Queste parole di Stefania offrono una chiara descrizione della condizione dell’artista contemporaneo: archivista di immagini e successivo selezionatore, che cerca in qualcosa di già esistente, per evitare di aggiungere.

Copia per esorcizzare quella bulimia di immagini del mondo contemporaneo, per esorcizzare il rischio prefigurato da Paul Valery che il tempo delle immagini viaggi a velocità della luce ed esse “si manifestino a un piccolo gesto, quasi un cenno, per poi lasciarci (corsivo mio)”. Copia come a creare uno specchio, quello ambito da molte donne nel tentativo estenuante di imitare una moda, che tutto rappresenta fuorché la bellezza della varietà e della diversità umana – annullate appunto dalla tensione all’emulazione, quasi che il vero sia il finto e la finzione verità. La lezione è quella warholiana. Vacuità da guardare, dopo averla vissuta. Riproduzione dell’inoriginale in modo non più originale, la sottrazione dell’atto creativo. Rilucenti come uno specchio, le sue opere, ci spingono ancora una volta a riflettere, ovvero meditare, sul moto perpetuo della moda, sul bisogno di sicurezza e di libertà che c’illudiamo di cercare in essa: un mondo parallelo che, di fatto, ben poco condivide con quello che ogni giorno ci è chiesto di affrontare. Citando Walter Benjamin, autore del celebre L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: “nell’istante in cui alla produzione manca il criterio dell’autenticità dell’arte, anche l’intera funzione sociale dell’arte si trasforma. Al posto di una sua fondazione nel rituale s’instaura un suo fondarsi sulla politica”.

Quindi su una politica consumistica, basata sul fenomeno della moda: la cifra della vita metropolitana. L’artista rende visiva la superficialità dell’oggi e dà spessore ad una superficialità di pensiero, al mondo dell’essenzialità dell’inessenziale, che prima di produrre oggetti, produce il consumo, in un moto oscillatorio continuo fra denaro-merce-denaro, costringendo il denaro a trasformarsi in merce, per poi poter rinascere nella sua forma “pura”, astratta. Al fare si è sostituito un valore immaginario dell’arte che ha portato con sé un plus godere, ossia, secondo Lacan “il paradossale godere di nulla sotto le sembianze di qualcosa. […] Il plusgodere, segnalerebbe il passaggio dal valore come fatto simbolico al plusvalore come fatto immaginario, fondato sulla propria costante inversione” . Se lo specchio attiva un processo di identificazione volontaria e di immedesimazione nella figura che vediamo di fronte, specchiandoci nelle sue opere ci vediamo riflessi nella vacuità di un mondo e proviamo disgusto e un pizzico di timore; vi leggiamo apatia e quei fantasmi di inquietudine nati da una costante tensione verso una perfezione esteriore. Quando Antonius Block nel Settimo Sigillo di Ingram Bergman si confessa alla Morte, in realtà tenta invano di confessarsi con un’immagine interiore di sé, con il suo specchio, di cui non riesce a reggere la vista per le “immagini di incubo nate dai suoi sogni e dalle sue fantasie”, a causa del suo cuore vuoto. E’ lo specchio bifronte: una parte rispecchia l’abbondanza, la bellezza, il godimento, il lusso; l’altra l’angoscia, la sofferenza, la mancanza.

Il moto perpetuo – irraggiungibile nell’universo fisico – si materializza invece nel mondo della socialità dove riesce ad assurgere a norma, combinando due impulsi o desideri umani di uguale forza ed impeto: il desiderio di far parte di un insieme e l’impulso all’individuazione; un sogno di appartenenza e un sogno di autoaffermazione, desiderio di conferme sociali e brama di autonomia; impulso ad emulare e spinta ad emergere. Ovvero la paura di emergere e il terrore della dissoluzione del sé. Queste icone di moda riducono l’opera d’arte ad oggetto, ma forse riescono per una volta a fermare quel processo inesorabile di fuggevolezza proprio del ciclo irrefrenabile della produzione di valori di scambio e d’uso, un trapassare perenne. La moda è essenzialmente produzione del consumo, dove nulla deve restare e le immagini di queste modelle sono la rappresentazione esatta della vacuità, che cerca – tuttavia –di essere fermata nel tempo e nello spazio dell’opera. Uno specchio tenuto di fronte al volto della società: un riflesso restituito, che sembra freddamente affermare “E’ questo ciò che siamo”, proseguendo appunto sulla scia della critica consumistica di Andy Warhol. I nostri monitor, nuovi specchi, comprovano questa sorte, così come il cambio della memoria indotto da Google. Copiare per Stefania, infatti, vuol dire anche rileggere immagini ed esorcizzare il rischio della perdita di memoria dell’informazione cui la facile reperibilità dei dati in rete sembra condurci. Una direzione perseguita anche dalla scelta del supporto (olio su tela o carta) che vuole bloccare in maniera veramente qualitativa un’immagine fuggevole nel mare delle innumerevoli immagini che abitano i nostri monitor. Una prassi estesa ai titoli del suoi lavori, desunti totalmente dai nomi e dal numero delle testate (“Love”, “Velvet”, “I-D” …/ autumn winter – spring summer) e dalle pagine da cui l’immagine (con le relative scritte) è presa. Se Warhol inventò una neutralità iconica universale portandola avanti fino all’estremo, rischiando di finire a realizzare serigrafie del nulla, così Stefania azzera l’atto stesso dell’ideazione e con esso l’atto pensante dei soggetti che ci propone. Copia, oscillando fra vero e falso, vita e morte. E quindi chi è l’artista? Qual è la faccia dell’arte e quale quella dell’artista? Nessuno e tutti al contempo. L’opera d’arte è, ora più che mai, un fatto coautoriale e un atto di resistenza.

Roma, 21 giugno 2013
Elena Abbiatici

vernissage 27 giugno ore 18

Galleria Numero 38
via del Battistero, 38 - Lucca
Orario: mar-sab 10-13 e 15.30-19.30
Ingresso libero

IN ARCHIVIO [13]
Cinzio + Dario Carratta
dal 21/5/2015 al 6/6/2015

Attiva la tua LINEA DIRETTA con questa sede