Sensazioni di paesaggio. Gli scorci non sono mai descritti, ma colti con tocchi rapidi, come a voler costringere lo sguardo a vedere oltre il visibile.
a cura di Luigi Meneghelli
“Il paesaggio si rispecchia, si umanizza, ripensa in me. Io lo oggettivizzo, lo traduco, lo fisso sulla mia tela”. Così confessava Paul Cézanne nel suo ostinato, furioso tentativo di dare un volto all’enigma della visione. Non era la realtà in sè ad interessarlo, ma il modo di vederla, sentirla, ascoltarla, quasi di coincidere con essa. Ebbene, anche l’intero percorso pittorico (e grafico) di Ebe Poli (Verona 1901 – 1993) sembra la manifestazione di un desiderio di abbracciare con amore l’incanto del vedere: di vedere tutto, la realtà come l’irrealtà, la natura come il sogno, il colore compatto come il segno corroso.
Ma a differenza di Cézanne che indagava un paesaggio per ricostruirlo e assestarlo secondo un rigido ordine geometrico, Ebe Poli opta per una visione che comprende una molteplicità di punti di vista. Lei ha bisogno di rendere ogni cosa mobile, vibratile, pregna di umori. Ed è come se, al di là delle idee di spazio e colore, cercasse una sorta di animazione interna, un irraggiarsi del visibile oltre se stesso e i propri limiti. E, questo, fin dagli anni trascorsi a Burano, accanto ai vari Mario Vellani Marchi, Moggioli, Gino Rossi, Semeghini: gli scorci non sono mai descritti, ma colti con tocchi rapidi, essenziali, come a voler costringere lo sguardo a vedere oltre il visibile, a cercare anche ciò che non appare, a finire il “non finito”.
E’ la vita nascosta nelle immagini (direbbe il regista Godard), è il loro misterioso vocabolario che lo richiede: le immagini non stanno lì a farsi guardare o a guardarci, ma introducono tra noi e loro un dialogo fatto di evocazioni, ricordi, echi.
Del resto, l’artista non arriva mai all’opera compiuta con puri gesti istintivi, non risolve tutto in un “qui” e in un “adesso”, ma fa precedere l’evento formale da lunghi studi, da disegni e da incisioni che funzionano come da ossatura segreta, che governa poi l’intero processo costruttivo. E’ così, soprattutto nei “Paesaggi di montagna”, nei “Prati”, nelle “Nevi sulle Dolomiti” che diventano il leitmotiv dei dipinti di Ebe Poli a partire dagli anni ‘50 (e che costituiscono il “corpus” portante della mostra). Basta sguardi da lontano, basta “impressioni” fugaci, ma sguardi a capofitto nel soggetto, quasi a volerlo edificare mattone su mattone, tassello su tassello. Operazione che per certi versi potrebbe richiamare quell’ansiosa ricerca dell’essenza esistenziale che è stata tipica dell’Informel (dei vari Fautrier, Dubuffet, Morlotti, ecc.). Solo che là il referente non era ciò da cui si partiva, ma verso ciò cui ci si dirigeva: la materia indagata nell’intimo, il gesto spesso cieco e traboccante. Nella pittura di Ebe Poli invece una qualche radice, un nesso, un intrigo con il mondo rimane. Certo, non si tratta più di una natura vista, ma di una natura pensata, montata e rimontata, fino a far intuire un altrove che non si sa mai dove sia. Se si osserva l’olio su tela dal titolo Case e pagliai del 1972, è come fare esperienza di un gioco interminabile di profili neri, simili a ideogrammi che ritmano lo spazio, e di lievissime modulazioni tonali, di emersioni e di sprofondamenti. L’opera esibisce un’atmosfera che sembra venire da lontano, dall’interno della materia, e rivelarsi, spandersi, trasformarsi senza fine sotto i nostri occhi: essa in qualche modo assorbe il tempo e lo fissa per sempre, superando di gran lunga il naturalismo, anche se rimane tutta nata dalla natura. E anche in Inverno sulle Dolomiti (un piccolo olio su tavola, del 1948) Ebe Poli, pur servendosi come unità formale primaria di un tocco sottile, leggero, fuggevole, riesce a creare un’opera di grande potenza plastica, che quella materia lieve e precaria sembrerebbe non permettere.
Comunque, non si può mai dire con certezza se lo spazio sia in via di formazione o se stia per sparire. In ogni quadro l’immagine appare infatti frammentata, spezzettata, moltiplicata, ma l’artista non abbandona mai il dipinto a una liquida marea senza forma: sottomette questo fiume di colore e di luci alla ricerca di verità percettive non temporanee, bensì eterne. Ma qual è il segreto per trasformare un’immagine che è senza centro, equilibrio, orizzonte, in una figura che ha la dimensione dell’archetipo, se non addirittura quella dell’arcano? Forse il segreto sta nel farci percepire il mondo come “sensazione cromatica”, nel mostrarci, non solo la cosa in sé, ma anche l’aria che la circonda, l’enigma che l’avvolge, la distanza che la separa da noi. Ebe Poli ha rinunciato da sempre a “sorvolare” le cose, per tentare di abitare il loro “essere”, di cogliere il mistero della loro essenza. Con la coerenza, la costanza, l’appassionata caparbietà di un “eremita della tavolozza che vive in una specie di sacro, silenzioso delirio” (come scrisse in anni remoti Orio Vergani).
Inaugurazione 14 dicembre ore 18
Galleria Incorniciarte
via Brigata Regina, 27 - Verona
mar-sab 16.00-19.30 o su appuntamento