Poeti, maschere, attori, fantasmi. L'esposizione fotografica, che precede la personale in programma al centro Candiani (Mestre, febbraio 2014), comprede i soggetti tipici di Lasalandra.
Galleria Studio ha il piacere di presentare Mario Lasalandra. Poeti, maschere, attori, fantasmi. Vintage prints. La mostra è a cura di Paolo Morello. La mostra sarà inaugurata sabato 18 gennaio 2014 alle 18,00 a palazzo Moncada, via Bandiera 11, Palermo e resterà aperta dal 18 gennaio al 9 marzo 2014. Visite solo su appuntamento: galleria@issf.it.
La mostra viene inaugurata in concomitanza con la mostra "Mario Lasalandra. Poeti, maschere, attori, fantasmi. Fotografie 1962-2013" che sarà inaugurata al Centro espositivo Candiani, Venezia Mestre, il 6 febbraio 2014.
Mario Lasalandra. Poeti, maschere, attori, fantasmi. Vintage prints: 1962-2014.
Nato nel 1933 a Este, sul limite meridionale dei colli Euganei, Lasalandra eredita negli anni Cinquanta l’atelier del nonno materno, Federico Tuzza, pittore e fotografo. Presto inizia ad alternare l’attività commerciale con ricerche originali, fotografando in ambientazioni desolate personaggi clowneschi, sui quali l’influenza dei primi film di Bergman, di Fellini (La strada, Le notti di Cabiria) di Antonioni (L’avventura, L’eclisse, Blow up), di Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo), appare molto evidente.
Nel regno di Margherita, 1967, il ritratto di una gracile vecchina dal volto spaesato, che tiene in mano un gatto bianco e a terra è circondata da tre colombi bianchi, è illuminante al riguardo: il parallelo con Gelsomina, la celeberrima protagonista de La strada di Fellini (1954) e con Cabiria (1957) è immediato. In comune, Margherita, Gelsomina e Cabiria hanno un’ascendenza nel circo, un senso di alienazione, di straniamento e di isolamento. Mentre le vicende dei due personaggi di Fellini si concludono entrambe tragicamente (Gelsomina muore; Cabiria perde tutti i suoi averi), il destino di Margherita sembra tuttavia restare aperto ad una possibilità di redenzione: possiamo interpretare in questo modo la presenza dei colombi bianchi ai suoi piedi?
In Giudizio, 1967, la storia si articola in una sequenza. Gli appunti grafici e i provini a contatto permettono di ricostruirne la genesi, dalla prima ambientazione in una generica periferia industriale, alle fabbriche di Marghera, all’apparizione dei vari personaggi: il Giudicante, la processione dei Giudicandi, gli Angeli, il Profeta, la Vergine. Nelle versioni finali, non resta più traccia delle perifierie indutriali; la scena è ambientata in un deposito di pirite, presso Este — in un paesaggio desertico, surreale, memore della Waste Land di Eliot quanto del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, 1964. La schiera dei Giudicandi, che si dispone in attesa di conoscere il proprio verdetto, pone rispetto a Margherita un problema di complessità coreografica. Lasalandra li dispone in due ordini sovrapposti, l'uno accanto all'altro, con un taglio che esclude qualsiasi elemento di profondità. Pochi anni più tardi, un analogo schema compositivo — stessa ripresa frontale, identico appiattimento bidimensionale — sarebbe occorso di nuovo nella serie dei Filodrammatici. Modelli molteplici qui si intrecciano: i dipinti di Giotto nella Cappella degli Scrovegni quanto i sarcofagi e i bassorilievi romani o i mosaici bizantini di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna — modelli di cui Lasalandra si appropria attraverso la mediazione dei dipinti di Campigli.
Sulla spalla di uno degli Angeli — i violini bassi, gli archetti in riposo — è posato un colombo bianco. Il che ci induce a tornare ai colombi ai piedi di Margherita e ad interpretarli quali figure di salvazione. La storia delle arti e della letteratura del Novecento è piena di animali investiti di un analogo ruolo: dai dipinti di Franz Marc all’ottava Elegia duinese di Rilke, gli esempi facilmente potrebbero moltiplicarsi. Nelle fotografie di Lasalandra, il motivo dei colombi bianchi ricorre in varie altre occasioni: Paradiso n. 1, 1991; Muro, 1995; Mario del bosco, 1994; Carnevale triste, 1996; Aldo, 1996; Elena, 2000. Con eguale insistenza ricorrono varianti di altri animali, il cui tratto comune è comunque il bianco: il cavallo bianco di Paradiso n. 3, 1992; il Cavallo bianco, 1997; la Capra bianca, 1996; il Cane bianco, 2000; i gatti bianchi del Giardino di Carmelo, 2000; le pecore bianche del Presepio, 2002. Bianco è pure il vestito da sposa della Vergine, un’altra delle figure cruciali del Giudizio: è lei che esce di scena — forse l’unica tra i Giudicati ad aver ottenuto un verdetto di salvezza —, lasciando Lionel (così è chiamato l’uomo calvo negli appunti del fotografo) in una smorfia di sgomento e di disperazione. A quest’ultimo può ben riferirsi un passo del capolavoro di Jean Starobinski, Portrait de l’artiste en saltimbanque: «Il clown inglese, nel teatro del Cinquecento, è l’erede del diavoletto medievale Vizio, del quale conserva spesso l’instancabile vivacità; ma è anche (attraverso l’etimologia che lo riconduce a clod, “zolla di terra”) lo zotico, il balordo, l’essere lento di comprendonio, l’inetto che fa di traverso tutto quel che gli si chiede. Nel linguaggio della caratterologia alchimistica il clown agile corrisponde al tipo mercuriale, mentre il clown sciocco esprime la pesantezza della terra, della quale ha la freddezza. A malapena lo sfiora l’idea dell’amore: e quando gli si offre la possibilità d’una conquista, lui la lascia stoltamente sfumare. A questa tradizione appartengono i Gilles e i Pierrot della Commedia: sono gli eroi di uno scacco perenne, scacco di cui essi stessi hanno una coscienza vaga tanto il loro spirito è ottuso… Questo tipo tradizionale offriva un’immagine predestinata a rappresentare la sconfitta della mascolinità dinanzi alla femminilità trionfante».
La Vergine del Giudizio richiama anche due altre figure femminili, angeliche anch’esse: la bambina distesa in Surreale, 1970, e la bambina della famiglia di attori protagonista di Storia di un dramma, dello stesso anno. Pure questa sequenza si conclude con la fuga della bambina (anche lei è vestita di bianco), dopo la sofferta peregrinazione tra le stanze della casa disabitata. Figure angeliche non nell’accezione metafisica e trascendente della tradizione cristiana: non in quanto partecipano della natura divina o ne annunciano le epifanie. Angeli nel senso indicato da Rilke, piuttosto, nella Prima elegia duinese: di esseri che non sanno «se sono tra i morti o tra i viventi».
Con Filodrammatici, 1968, e ancor più con Storia di un dramma, 1970, il motivo dell’attore e della maschera diviene cruciale. Nei Filodrammatici il tema della rappresentazione è appena dichiarato: gli attori sono ritratti alla fine del loro spettacolo. A prevalere, piuttosto, è il tema dell’identità: né la varietà dei personaggi che si allineano aspettando l’applauso, né il fatto che ciascuno di loro indossi gli abiti di un diverso tipo sociale — il lacché, il carabiniere, il borghese, il maggiordomo, il vescovo, il marinaio — basteranno a redimerli dal loro destino di maschere; serviranno a rescindere il legame che, pirandellianamente, li obbliga al ruolo che ciascuno di loro dovrà impersonare.
Storia di un dramma rappresenta la storia di un dramma mancato: dell’impossibilità a rimettersi in scena, che coincide per il capocomico e i suoi familiari — per i quali non c’è differenza tra il volto e la maschera, tra la vita e il ruolo che sono tenuti a rappresentare — con la morte, con la definitiva scomparsa. Evidente è la prossimità tematica con un altro celebre film di Fellini, Otto e mezzo (1963). Tutti ricorderanno il corteo danzante che chiude Le notti di Cabiria o il girotondo con cui si conclude Otto e mezzo: una sarabanda di personaggi in movimento perpetuo. È il messaggio per così dire di speranza che Fellini trasmette: lo spettacolo della vita va avanti, e consente una nuova chance anche dopo il baratro del fallimento. Una analoga, inesausta vitalità anima i merry makers del Blow up di Antonioni. Distante da questo turbinare inarrestabile, quello di Lasalandra è, al contrario, un circo immobile. Come gli Hollow Men, gli uomini vuoti di Eliot, i personaggi Lasalandra sono sospesi «fra l’idea / e la realtà / fra il gesto / e l’atto»; sono sempre colti sul limite estremo di un accadimento: il Giudizio è l’ultimo atto dell’esistenza; i Filodrammatici si mostrano sul proscenio alla fine del loro spettacolo; la compagnia di attori della Storia di un dramma è, come si è detto, al termine della carriera. Il bal travesti si è, irreversibilmente, paralizzato.
La riscoperta del circo in senso allegorico vanta una tradizione che attraversa la storia dell’immaginario artistico e letterario dal 1830 in avanti, e la rappresenta in modo emblematico: Toulouse–Lautrec, Degas, Seurat, Chagall, Picasso, Rouault, da una parte, e, dall’altra Gautier, Baudelaire, Verlaine, Apollinaire: l’elenco è sconfinato. In pittura e in letteratura (e poi anche nel cinema: si pensi, per tutti, a Chaplin), clowns, ballerine e saltimbanchi sono figure di una topica ben radicata. Dietro alla quale Starobinski ha mirabilmente svelato il camouflage di un’arte autoreferenziale: le mentite spoglie di un autoritratto. Pienamente da inscrivere in questa tradizione, le opere di Lasalandra celano anch’esse un ragionamento sulle «condizioni dell’arte»: nessun altro autore quanto lui ha saputo dar voce, con genio e libertà, originalità e forza espressiva, alla crisi della rappresentazione che caratterizza la fotografia italiana alla fine degli anni Sessanta.
Il libro
Quinto volume della collana Maestri della fotografia italiana del Novecento, edita dall’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, il volume è in formato 24x32 cm, 156 pp., 131 illustrazioni in tricromia con vernice, su carta Fedrigoni Freelife Kendo 115 gsm e Scheufelen Job Parilux 170 gsm, cartonato con sovraccoperta antistrappo. Testo di Paolo Morello. Isbn 88-87928-08-8. Euro 75,00. In mostra al prezzo scontato di euro 35,00.
Può essere ordinato per email libri@issf.it
Galleria Studio
via Bandiera, 11 (Palazzo Moncada di Paterno') - Palermo
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