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Alessio Bolognesi / Emanuele Puzziello
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Alessio Bolognesi



 
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7/3/2014

Alessio Bolognesi / Emanuele Puzziello

PaggeriArte, Sassuolo (MO)

Di tela in tela, il viaggio di Sfiggy, omino-simbolo delle tele di Bolognesi, si snoda come un'onda e incrocia personaggi famosi come Pollon o Hello Spank. Inaugura anche la personale di Puzziello intitolata "Love Disappeared".


comunicato stampa

Emanuele Puzziello

Love Disappeared

Credo nella religione dell'amore cui si dirigono le sue carovane, poiché l'amore è la mia religione e la mia fede. (Ibn 'Arabi) Love disappeared, "Amore svanito", scomparso. Ma, innanzitutto, che cosa significa Amore? E di quale amore parliamo? Amor sacro o amor profano? E sopratutto: quante accezioni può avere la parola amore? Se guardiamo all'etimologia che ha nella nostra lingua scopriamo che il nome latino "amor- oris" deriva da due distinti termini greci, "eros", ciò che fa muovere verso qualcosa, un principio divino che spinge verso la bellezza e "philìa", qualsiasi forma di attaccamento affettivo fra due persone. "Eros", il dio dell'amore, è al tempo stesso la forza vitale che anima l'intero cosmo e il sentimento passionale che lega due persone. Ma, oltre questi, i greci avevano a disposizione altri termini per specificare la dedizione, l'affetto disinteressato, la tenerezza, l'amore di desiderio, di gratitudine e condiscendenza, la passione sfrenata del sentimento amoroso...

Con l'avvento del cristianesimo, l'amore è principalmente inteso come agàpe, caritas, il vero amore, spiritualizzato, verso Dio e verso il prossimo: l'amore di Dio per l'uomo (che culmina nell'incarnazione), l'amore dell'uomo per Dio (compiuto nell'ascesi mistica) e quello dell'uomo per il prossimo, il più bel comandamento dato da Cristo. Al termine del primo medioevo cristiano, e nel pieno fiorire della civiltà islamica, su entrambe le sponde del mediterraneo forte è la spinta all'unione mistica con Dio, la più alta forma di Amore. Quello con la "A" maiuscola. In Europa fioriscono le corti d'amore, in cui si formavano i Fedeli d'Amore: filosofi, poeti, cantori, artisti, mistici organizzati in logge iniziati al sublime “Vero d’amore” che si adoperarono per realizzare in ogni aspetto della vita la Bellezza pura, espressione perfetta dell'Amore e del Divino. Così, Jacopone da Todi e Dante Alighieri, Pico della Mirandola e Leonardo da Vinci, furono Fedeli d’amore e maestri d’amore. La confraternita dei Fedeli d’Amore è spesso accostata al sufismo, ramo mistico della religione islamica secondo la quale il traguardo dell’esistenza umana consiste nell’andare incontro alla Verità, attraversando i sentieri lastricati di Amore Puro e devozione assoluta. Così pure Ibn 'Arabi e Gialal ad -Din Rumi, grandi poeti e grandi maestri sufi, furono fra i più grandi cantori dell'amore nel mondo arabo. La mistica islamica viene spesso definita la dichiarazione d'amore. In essa l'amore per la donna si identifica con l'amore per Dio: la bellezza dell'amata è il riflesso del divino, lo specchio in cui brilla la bellezza di Dio. E Dio, il sublime, è bellezza e ama la bellezza. L’allegorizzazione della donna e dell’amore terreni come contenitori di simbolismo divino nella poetica sufi, viene considerata alla base di quella che ritroviamo nell'amor cortese dantesco e in primo luogo nella Divina Commedia. In ogni sua poesia Ibn 'Arabi evoca l'esperienza folgorante del desiderio di assoluto suscitato da una giovane chiamata Nizām (Armonia), soprannominata 'ayn ash-shams wa al-bahā, Occhio del Sole e dello Splendore, la sua Beatrice.

In Ibn 'Arabi, il desiderio oscilla tra l'amore per la bella Nizām e l'amore per un Dio patetico. Così tra "lei" e "Lei" sembra prodursi una sorta di trasferimento ascensionale di energia. Attraverso l'amore della donna e la contemplazione della bellezza femminile, il fedele d'amore giunge estaticamente al "Lei" sovrasensibile, a Dio. Ibn al-'Arabi è il mistico che più intensamente ha percepito e vissuto l'unità fondamentale tra poesia e religione, tra amore e fede, la via della sensualità che porta alla spiritualità. L'amore profano è il punto di partenza, quello spirituale invece il traguardo: la "via del cuore", che proietta l'anima verso l'alto, strappandola alla schiavitù della materia e delle apparenze sensibili. E allora appare evidente che se, nella vita come in ogni manifestazione artistica, l'impulso erotico è la spinta, il motore di tutte le forme di amore, la felicità suprema non potrebbe ottenersi senza un contesto passionale e un corpo "acceso" d'amore. Se dunque in un determinato periodo storico troviamo comunanza di senso e d'intenti rispetto all'Amore, col passare dei secoli la nostra lingua e cultura, insieme alle altre occidentali, sembrano arenarsi se non inaridirsi rispetto alla definizione e alla vera essenza dell'amore, univoco e assoluto e allo stesso tempo sfaccettato e multiforme. La lingua araba invece ha conservato e anzi sviluppato una notevole quantità di termini che si riferiscono all'amore. Se una lingua ha molti termini per designare uno stesso concetto significa che il desiderio di comprenderlo è estremamente forte. Secondo Ibn Qayyim al-Jawziyya, sapiente di Damasco del XXIV secolo autore, di un prezioso trattato sull'amore (Rawdat al-Muhibbìn, Il Giardino degli amanti), la lingua araba ha sessanta nomi per esprimere le diverse condizioni amorose.

A contarle bene sono cinquanta, ma fa poca differenza, sono comunque tantissime. E basta esaminarne solo una minima parte per restarne ammaliati: wajd (veemenza d'amore); kalaf (amore ardente); tatayyum (estasi che rende schiavi); jawā (consunzione); tabārīkh (stupore che fa sragionare); lāʻij (amore straziante); iktiʻāb (malinconia); mahabba (affetto costante); miqa (attaccamento premuroso); khulla (amicizia profonda); gharām (passione); shaghaf (desiderio); shawq (desiderio-nostalgia); junūn (follia). Ma più di tutte colpiscono ʻishq e hawā. La prima, ʻishq , amore-passione, è definita dall'autore come un'ebbrezza più pericolosa di quella del vino, perché è accompagnata dalla perdita della ragione, la sola che permette di controllare la parola e di distinguere il bene dal male. Seppur sembra abbia un significato tutto terreno, amaro e doloroso, da questa stessa parola deriva ‘oshshāq, plurale di ‘āshiq, (letteralmente di quelli presi dall’amore, gli amanti), l’espressione correntemente impiegata per designare i mistici sufi, e molto vicina al concetto di "Fedeli d’Amore". E soprattutto: hawā. Secondo l’autore hawā (desiderio), è l’inclinazione dell’ego verso la cosa desiderata che fa vacillare chi la avverte. Nella lingua araba , infatti, la parola hawā è sinonimo di “cadere”. In questo l’arabo è vicinissimo ai verbi inglese e francese fall in love e tomber amoureux. Nella nostra lingua usiamo invece un verbo riflessivo, innamorarsi, che indica che l’azione espressa dal verbo riguarda direttamente il soggetto che la esegue.

Mentre il senso di caduta in amore è assente. Se il nostro punto di vista pare più egocentrico, autoreferenziale e meno doloroso, il concetto di caduta presuppone che l’incontro con l’altro non solo ci fa perdere l’equilibrio ma che cadendo ci si potrebbe anche fare male. Secondo ʻIbn Qayyim hawā è il più pericoloso dei 50 nomi dell’amore perché si riferisce a un movimento che ti può far perdere l’equilibrio. Poiché il desiderio è un sentimento che ti spinge verso la persona o la cosa desiderata, si rischia di distruggersi perdendo l'equilibrio se ciò che ci attira è pericoloso. Da qui la necessità di riflettere e meditare sulle conseguenze del proprio desiderio su chi ci circonda per non fare loro del male. Una volta decodificato cos'è la hawā, questo desiderio distruttore, allora per ʻIbn Qayyim si è ben protetti per potersi addentrare nel "giardino degli amanti" e decifrare tutte le altre 49 sfumature dell'amore. Poiché giungere a saper distinguere le emozioni negative da quelle positive, quelle più meramente materiali, caduche, effimere, pericolose, da quelle più nobili, spirituali, è la chiave di volta per ricongiungersi alla definizione più alta di amore: quello con la "A" maiuscola. L'Amore per Emanuele è di fatto con la "A" maiuscola. E disappeared, scomparso: affiancato però da un participio passato. Ma se è pur vero che un participio, in quanto "aggettivo verbale" partecipa della doppia natura di verbo e di aggettivo, e può significare sia qualche cosa di passeggero come l'azione (verbo), sia di costante e fisso come una qualità o proprietà (aggettivo)-, che senso attribuire a scomparso? Un senso fermo, inamovibile e irrecuperabile? Oppure un senso compiuto, definito, ma pur sempre passibile di cambiamento?

Se a un primo impatto "Love disappeared" pare sottendere a una visione statica (se non pessimistica), forse la risoluzione del conflitto sta in una visione dinamica (ottimistica) di questa perdita di "centro". Nella difficoltà di vivere in un mondo spiritualmente elevato e sublime, l'Amore con la "A" maiuscola, non può che essere ricercato più vicino a noi. Lo sguardo sempre rivolto verso qualcosa di troppo lontano, alto, difficilmente raggiungibile nell'immediato, forse fa perdere di vista che la vera salvezza è qui vicino a noi, nei nostri simili e dentro ognuno di noi. Se dalla "periferia" dell'egoismo e della più gretta materialità umana, dall'inaccettabile male del mondo, spostiamo senza remore lo sguardo al "centro" dell'uomo, al suo cuore e alla sua capacità di amare, forse troveremmo la strada persa verso il divino (nella sua accezione più ampia). Se la natura umana, pur nella sua parzialità, è davvero figlia e partecipe della Natura suprema, allora possiamo (e anzi dobbiamo) intravedere nell'uomo e nella sua fragile, caduca, mortale, capacità di amare l'essenza stessa dell'Amore divino. Emanuele Puzziello, come un inconsapevole Fedele d'Amore, sente che l'Amore "che move il sole e l'altre stelle" sta ormai muovendo anche il suo desiderio e la sua volontà. Come lo stesso artista afferma il segreto sta nell'aprirsi all'Altro, qualsiasi “altro”: umano e divino, e impegnarsi a ritrovare e percorrere la "retta via" smarrita da troppo tempo ormai. E Love disappeared è davvero una decisa e vivida dichiarazione d'intenti in questo cammino. Maria Beatrice De Cesare

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Alessio Bolognesi

Sfiggy full throttle

“<>
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Balzai in piedi come fossi stato colpito da un fulmine.
Mi strofinai gli occhi più volte guardandomi attentamente intorno.
E vidi una straordinaria personcina che mi stava esaminando
con grande serietà”

(Il Piccolo Principe)

Era una giornata lavorativa come tante. La riunione era interminabile e gli sbadigli non tardavano ad arrivare. Ma bisognava stare svegli, arguti e attenti.Non è che il suo lavoro non gli piacesse, in fondo aveva studiato anni per diventare un ingegnere. Eppure, c’era qualcosa che mancava. Qualcosa non bastava. Qualcosa, in qualche modo, pareva essersi fermato sul più bello. Era come una sorta di muta consapevolezza: la certezza che una realtà più intensa e magica lo stesse aspettando da tutt’altra parte, o stesse bussando alle porte blindate della sua ragione. Come un bambino che, rimasto al chiuso in uno sgabuzzino, batte i pugni sulla porta perché qualcuno venga ad aprirgli, allo stesso modo questa energia spingeva dentro di lui.
Si chiamava creatività. Si chiamava stupore. Si chiamava coraggio. Si chiamava “bambino interiore”.

Come scrisse Antoine De Saint-Exupéry nella dedica introduttiva al suo racconto più celebre,“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)”. Troppi adulti, diventando tali, dimenticano il bambino che sono stati. E questo è un grave errore. Così nacque una figuretta alquanto singolare.

Sfiggy fu il primo nome che venne in mente al suo papà. Così ammaccato e maldestro doveva aver vissuto una serie di sciagure. Insomma, non sembrava propriamente una creatura fortunata. E dunque, sì, Sfiggy era il nome che gli si addiceva. Per mano di Alessio, Sfiggy ha visitato innumerevoli realtà: ha conosciuto luoghi, incontrato personaggi e in alcuni casi, ha vendicato gli uomini. L’epos di Sfiggy non è che un viaggio in avanti e a ritroso nel tempo, senza mappe, senza itinerari, senza un ordine cronologico prestabilito. Semplicemente, FULL THROTTLE! Granitico eroe di se stesso, egli osa, rischia, si frantuma. Quindi si ferma, si ricuce e poi riparte. Di tela in tela, il suo viaggio si snoda come un’onda. Visitando una mostra di Alessio Bolognesi può accaderci di sorprendere Sfiggy in compagnia di personaggi che appartengono alla nostra memoria visiva. Pollon, Hello Spank, Dylan Dog e molti altri. E la stessa tecnica con cui tali vicende vengono narrate rimanda alla tradizione giapponese delle stampe ottocentesche (pensiamo agli ukiyo-e del periodo Edo realizzati da artisti come Hokusai e Hiroshige) o dei più recenti anime. Ampie aree accuratamente campite vengono racchiuse da un nero contorno, che si assottiglia o ispessisce a seconda della necessità rappresentativa. L’immagine che ne risulta è esteticamente chiara, pura e leggibile.Le fatiche personali, quelle intime e private, sono ben altra cosa e Sfiggy lo sa. Per questo negli ultimi mesi si è nuovamente spostato dalla tela alla carta. Non per ritirarsi dalla scena, quanto piuttosto per ritrovare una dimensione personale che gli permetta di interloquire con i propri fantasmi.Alessio Bolognesi recupera una serie di carte datate tra 1820 e 1870. Istintivamente decide di “prepararle” in maniera piuttosto grossolana, sporcandole, cioè, con del colore diluito. Ad asciugatura avvenuta, il fondo si presenta come un insieme di macchie apparentemente casuali. A questo punto Alessio da la caccia a Sfiggy. Prende a giocare a nascondino con lui. [...] Nasce così una serie di illustrazioni in cui il testo scritto a mano e le macchie di colore acquerellato, fungono da texture per vere e proprie acrobazie emozionali. I lavori più recenti aprono invece una nuovo ciclo, attualmente in progress, titolato I dolori del giovane Sfiggy. Il riferimento al romanzo giovanile di Goethe non è da ricercarsi nella trama, quanto piuttosto nel titolo. Si tratta di opere realizzate ad acrilico su tele di lino grezzo di piccolo e medio formato, raffiguranti uno Sfiggy apparentemente irrobustito, eppure eroso dentro. Questi traumi interni, localizzati in specifiche parti della sua ossatura, vengono rintracciati per mezzo di aperture rettangolari, somiglianti a lastre radiografiche, dipinte su determinate zone del corpo. Può trattarsi di un’ernia intravertebrale come di una lesione al legamento di una caviglia. In ogni caso si tratta di “dolori” fisici che si fanno metafora di “traumi” di altra natura. Perché, per citare ancora una volta il Piccolo Principe, l’essenziale è invisibile agli occhi.In definitiva, tutto accade e nulla è prevedibile, ma Sfiggy sa sempre come risollevarsi. Ha dalla sua parte la stessa saggezza dei bambini. Quella di rialzarsi, asciugarsi le lacrime e tornare a giocare con lo stesso stupore di prima.
Giovanna Lacedra

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MAGAZZINI CRIMINALI – Associazione Culturale
orari di apertura: sabato 16.00-19.00 domenica 10.00-13.00 /16.00-19.00 per appuntamento: 392 4811485 info: magazzinicriminali@libero.it Evento realizzato con il patrocinio della Città di Sassuolo

Opening sabato 8 marzo dalle ore 18 DJ- Set CLAUDY-O

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Chiara Tubia
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