Segni della dea. L'artista lavora all'interno di una la dimensione teoretica e iconografica per articolare l'esplorazione di un universo simbolico.
a cura di Fabrizio Bonci e Caterina Scala
In un saggio intitolato Herméneutique des symboles et réflexion philosophique Paul Ricoeur scriveva che se la nostra epoca è quella dell'oblio delle ierofanie e dei segni del sacro e dello smarrimento dell'uomo come appartenente al sacro è anche quella dove ci viene offerta la possibilità di riempire di nuovo e ricreare il nostro linguaggio svuotato, tecnico e formalizzato, ritrovando attraverso le sedimentazioni dell'oblio, orizzonti dimenticati. Segni della dea è l'esito, ancora provvisorio, di una riflessione e di una ricerca artistica che da un decennio Paola Bisio conduce sui simboli femminili preistorici traendo ispirazione dall'opera dell'archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas. Come è noto, gli studi della Gimbutas propongono una prospettiva sull'Europa neolitica alternativa ai modelli tradizionali, ricostruendo il quadro di una originaria cultura continentale incentrata sul culto di un principio divino femminile e di società matrifocali estremamente diverse, nelle loro caratteristiche di irenismo e armonia, dalle successive società patriarcali.
Il Neolitico di Marija Gimbutas, con la sua centralità del femminile nella visione del sacro e della vita, offre alla Bisio la dimensione teoretica e iconografica per articolare una propria personale esplorazione di un universo simbolico che, con i suoi rimandi ai temi della nascita e della morte, della crescita e dei cicli naturali, è ancora disponibile a essere interrogato, e capace di interrogarci. Falci, corna, pesci, serpenti, triangoli, semi: le figure lunari e uterine dipinte sui materiali diversi che nel corso degli anni l'artista torinese ha utilizzato, dal legno al plexiglas ai drappi di cotone dell'ultimo periodo, instaurano con il nostro sguardo un dialogo che è in qualche modo maieutico, chiedendoci di riconoscere qualcosa che già sappiamo o dovremmo sapere. In un drappo dove prevale la dominante di un leggero grigio, accanto alla figura di un animale dalle lunga corna ricurve, cresce un arbusto. Il verde delicato delle foglie ci colpisce. E' quello di un paradiso perduto, sepolto sotto le lontananze vertiginose e le ceneri del tempo. Gli echi profondi che l'artista ha saputo ascoltare in questa sua esplorazione, che è piuttosto un'introspezione, il volgersi di una donna moderna verso ancestrali memorie interiori, emergono lentamente dalle sue opere. Piccoli, tenui, antichi ruscelli che scorrono nei nostri deserti.
Fabrizio Bonci e Caterina Scala
Inaugurazione 12 aprile ore 18
Galleria Oblom
via Baretti, 28 Torino