Museo d'Arte Contemporanea di Lissone MAC
Lissone (MB)
viale Padania, 6
039 2145174 FAX 039 461523
WEB
Sei mostre
dal 9/5/2014 al 20/12/2014
mar-mer-ven 15-19, Giov 15-23, sab-dom 10-12 e 15-19

Segnalato da

MAC




 
calendario eventi  :: 




9/5/2014

Sei mostre

Museo d'Arte Contemporanea di Lissone MAC, Lissone (MB)

'Hostia' di Nicola Verlato e' ispirata alla tragica morte di Pier Paolo Pasolini. 'Intus: cristalli di crisi' vede una selezione di sculture di Nicola Samori'. Simone Racheli presenta un inedito ciclo di opere su carta e una scultura. Gianni Dessi' indaga il mondo con occhio curioso e vigile. Protagonista di una "pitturazione" Lucio Pozzi e il secondo appuntamento de Il Collasso dell'Entropia /ZWEI.


comunicato stampa

a cura di Alberto Zanchetta

Hostia
Nicola Verlato
Primo Piano

Hostia è un progetto che Nicola Verlato [Verona, 1965] ha realizzato appositamente per il museo di Lissone. L'esposizione, ispirata alla tragica morte (qui trasfigurata in un sacrificio-suicidio) di Pier Paolo Pasolini sulla spiaggia di Ostia, è stata pensata come uno spiegamento - nello spazio e nel tempo - di un grande dipinto che è anche il luogo da cui si origina tutta la mostra. Alla stregua di una pala d'altare, il dipinto rappresenta il corpo di Pasolini mentre attraversa a ritroso la propria vita, passando nell'inferno del mondo fino alla sua infanzia. In primo piano vediamo un imberbe Pasolini seduto sulle ginocchia della madre, intento a scrive i suoi primi versi al cospetto di Petrarca e di Ezra Pound; il primo assiste al miracolo della nascita di un poeta che dona la vita all'arte, il secondo può finalmente riposare dopo aver (invano) rovesciato il senso del mondo affinché la poesia potesse rifiorire.

Disseminati nell'allestimento, alcuni piccoli dipinti rivelano altri aspetti connessi alla narrazione di questo grande dipinto. Sulla parete concava del museo si sviluppa invece un enorme disegno a carboncino, immaginario frammento di un Grande Fregio che immortala scene di violenza evocanti le atmosfere di Salò, con figure ignude che lottano tra loro.
Una scultura a dimensioni reali, che ritrae in modo estremamente realistico Pasolini, è sospesa al centro della sala. La scultura e il fregio introducono lo spettatore nello spazio in cui ha luogo questa rappresentazione; si tratta di un edificio che l'artista ha concepito a guisa di monumento e/o mausoleo. Completa l'esposizione un brano musicale che interpreta in chiave sinfonica i "Canti pisani" letti da Pasolini nella dimora veneziana di Pound.

La mostra di Nicola Verlato si fonda su un'ipotesi che è anche un desiderio: costruire un complesso monumentale a Ostia, luogo della morte di Pasolini. Più che un poeta, un cineasta o uno scrittore, Pasolini è un corpo che vive nella dimensione del mito, in quanto è riuscito a incarnare un destino non solo tragico ma addirittura universale.

Le opere di Verlato narrano della progressiva eliminazione dell'arte dalla vita e dell'immensa disperazione che Pasolini esprime nelle sue ultime opere, associando il mondo a un inferno che ha perso ogni occasione di salvezza, perché ciò che dava senso alle cose (l'arte) è stata eliminata. Alquanto emblematica è la figura di Pound, qui assunta al ruolo di semioforo: per il miglior fabbro la poesia è stata l'approdo per chi ammette il proprio fallimento, "perché se è il poeta che fallisce non è la poesia a fallire". Ebbene, se è l'autore e non la sua opera a capitolare, il naufrago può sempre far ritorno all'isola; in questo senso Pasolini muore nel terreno paludoso di Ostia, laddove ha "inscenato" il proprio martirio con puntigliosa accuratezza, assicurandosi così un posto nell'immaginario dei posteri, giacché l'epoca della modernità non gli avrebbe potuto tributare lo stesso onore. Il Novecento aveva infatti strappato il cuore al poeta lasciandovi un vuoto incolmabile (all'età di sette anni Pasolini iniziò a scrivere composizioni di gusto petrarchesco, folgorato dall'idea che la poesia classica fosse in grado di trasformare il mondo; crescendo giunge però all'amara constatazione che il XX secolo non se ne può far nulla della poesia, perché di Petrarca non c'è più necessità).

Pasolini aveva definito il cinema come «la poesia delle cose stesse», enunciazione che dobbiamo associare alla definitiva perdita di fiducia nella poesia, la quale viene sacrificata a favore di un'aderenza alla realtà. In tale disbrigo/declivio, l'ultimo passo da compiere è trasformare la vita in arte, ed è proprio in questo senso che può essere spiegata la morte di Pasolini, quel martirio autoinflitto che il poeta ha orchestrato per anni e poi portato al suo ineluttabile compimento. La "scena" dell'esecuzione di Pier Paolo Pasolini è disseminata di simboli che il poeta aveva preconizzato nella propria opera, dettagli che ci appaiono nella loro flagrante evidenza soltanto in questa prospettiva - di presa di coscienza - offertaci da Verlato.

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Intus: cristalli di crisi
Nicola Samorì
Primo Piano

Il MAC di Lissone ospita la prima mostra di sole sculture di Nicola Samorì [Forlì, 1977], artista che negli ultimi anni si è fatto conoscere per i suoi "delitti pittorici".

«Se l'ambizione della mia pittura è quella di risvegliarsi dal sonno bidimensionale», spiega l'artista, «l'aspirazione della mia scultura è talvolta quella di fare tabula rasa dell'immagine scacciando i rilievi dal piano e scavando i volumi da dentro». Il titolo della mostra, INTUS , allude proprio a un "dentro" violato attraverso un lavoro di endochirurgia scultorea.L'artista ha voluto avvicinarsi a dei testimoni plastici, più o meno antichi, per instillare al loro interno un processo di decomposizione corporea. Le sculture rappresentano infatti la risposta plastica più coerente al modus operandi che l'artista sta sperimentando con la pittura negli ultimi anni.

In occasione di questa sua personale, Samorì si è lambiccato intorno all'interrogativo se un dipinto quando muore diventa una scultura. «Forse lo è sempre stato», ha ammesso lui stesso, «ma solo perdendo i processi d'illusione indotti dal colore e cedendo il passo ai movimenti prodotti dalla superficie esso scivola nello spazio della scultura». Altrettanto emblematico è il sottotitolo della mostra, "Cristalli di crisi", un'espressione usata da Carl Einstein che Didi-Huberman attribuisce «a qualcosa che si manifesta come anomalo nella storia dell'arte, osando promuovere l'avanzata sovversiva delle forme attraverso un assalto regressivo dell'informe» (una regressione all' informeche nel caso di Samorì informa di sé tutte le opere in mostra).

L'esposizione offrirà un campionario di soluzioni rispetto al rilievo, al bassorilievo e al calco della pittura, attingendo in modo trasversale a soluzioni e periodi diversi della sporadica eppur sostanziale esperienza plastica dell'artista.

Sono circa una trentina le opere realizzate per il museo di Lissone e comprendono delle teste convulse che si accompagnano a una ricca sequenza di busti liquefatti nell'onice o nel marmo rosa. Su colonne di cemento sono invece posizionate delle teste fuse in bronzo e altre scolpite nel marmo, utilizzate dall'artista come blocco a levare.Alcuni "corpi senza ossa", ottenuti staccando la pittura dal supporto rigido e facendole assumere un volume plastico, danno vita a un deposito di situazioni plastico/pittoriche (uno spazio dove il peso specifico del tegumento si libera della responsabilità pittorica concedendosi alla scultura tout court). Al centro della sala, un nudo di quasi due metri e mezzo replicherà in grande scala un modellino in cera che ha assunto una postura tortile attraverso la pressione delle mani.

Completano l'esposizione degli altorilievi antichi, rimodellati fino a ottenere una vitalità del negativo, e una serie di busti con la faccia rivolta a parete, intenti a fissare otto formelle
in bronzo, marmo e olio; tra questi ci saranno cinque opere autografe dello scultore neoclassico Paolo Visani, provenienti dal Museo Civico delle Capuccine di Bagnacavallo, che dialogheranno con tre rifacimenti eseguiti da Samorì.

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Vuoto a perdere
Simone Racheli
Project Room

Al MAC di Lissone Simone Racheli [Firenze, 1966] presenta un inedito ciclo di opere su carta, dal titolo Gli incerti, e una scultura, denominata Sostegno all'incertezza, che rappresentano creature biomorfe sviluppatesi attorno a degli orifizi, o più precisamente intorno a un'assenza che ne condiziona e deforma l'aspetto. Attraverso la perizia tecnica dei suoi disegni, Racheli ci mostra il dissesto organico di corpi che necessitano di un (rassicurante) sostegno, così come accade alla scultura che sembra muovere i suoi primi passi - molto incerti, tutti precari.

Nel descrivere il progetto Vuoto a perdere, Racheli racconta che «cercare il compiuto in qualcosa in evoluzione è un paradosso e non dovrebbe essere applicato all'uomo. Nel tempo abbiamo coniato molti aggettivi che inducono a pensare a una completezza dell'essere umano, integrità suddivisa in due parti, secondo le dottrine attuali che affondano le proprie radici nello sciamanesimo e nel mondo dell'antica Grecia. Il corpo resta comunque un'unità in evoluzione, dalla sua formazione fino alla sua degenerazione. Tale "movimento" (obbligato dalla natura e poi dalla società volitiva) lo rende instabile, inafferrabile, come la materia nell'inquieto Principio di indeterminazione della fisica quantistica. Partendo dal concetto di completezza, sia fisica che emotiva, l'approdo è verso un'inevitabile deformità, quale mancanza del compiuto.

"Completo" è ciò che è finito, indubbio, a cui non manca niente, neanche una piccola parte. L'integrità è una necessità da opporre all'incertezza, che nasce in modo insidioso dal senso di vacuità, dovuto alla percezione di un'assenza. Tale consapevolezza è forse connessa al vuoto da dover colmare, alla perdita dell'altro (di un "altro corpo") all'atto della nascita. Il vacuo ci rende mutili: occupa spazio senza che lo desideriamo. L'incompletezza è una mancanza rispetto a ciò che è definito, formato, concluso. Il nostro corpo, composto da materia vulnerabile e sensibile, somatizza il dolore, modificandosi. Benché mantenga i suoi attributi, la sua caratteristica peluria, così come l'incarnato irrorato da vene o tempestato da efelidi, il corpo diventa deforme. La delicata epidermide prelude a un'anima che corrisponde alla sensibilità del proprio corpo, svelandone gli strati e la profondità; gli orifizi, infatti, sono i punti di accesso per il dentro, per lo spazio interiore. La reazione somatica al vuoto - che alberga dentro ciascuno di noi - diventa deformazione patoplastica nella crescita dell'individuo e della sua coscienza.

L'enigma logora l'anima, la rende inquieta e protende il corpo verso lo spazio, con un passo naturale. Due sole gambe si alternano in un solo punto di sostegno: l'azione mette a dura prova il nostro equilibrio, che è sempre proiettato verso un indefinibile divenire. Il passaggio da un luogo ad un altro erode il tempo e l'ignoto: conquistarli e dominarli è la prova di forza messa in atto nel rito di ciò che è morituro. Quello che è stato consumato lascia dietro di sé dei vuoti, immediatamente tamponati con strategie e certezze. Il cammino dolorante e vacillante dell'incompleto è sostenuto dalla frenetica produzione di artefatti (estensioni umane, protesi, sostegni), materia stabile che ci garantisce una proiezione verso il duraturo. Impossessarsi di queste apparizioni concrete è l'escamotage salvifico dall'incertezza, ed è proporzionale alla menomazione della vacuità percepita».

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Tutto Insieme
Gianni Dessì
Piano Terra

Gianni Dessì [Roma, 1955] indaga il mondo con occhio curioso e vigile. Nel corso degli anni l'artista ha sviluppato una personale visione della realtà che ci circonda, conscio del fatto che l'arte è «un vedere attraverso il quale si disegna il mondo».
Né astratta né figurativa, l'arte di Dessì interroga i linguaggi della pittura per assecondare le proprie intuizioni, le idee e le urgenze che gli permettono di raggiungere un'essenza e un'evidenza delle forme. Grazie a una economia stringente che ha la forza di aprirsi alla vastità, Dessì continua imperterrito a sviluppare un percorso coerente ma sempre imprevedibile.

«Vagheggio un'idea dell'arte che possa essere inclusiva e non esclusiva» ammette l'artista. È con questo spirito che si esplica il titolo di questa mostra: Tutto insieme allude a un complesso eterogeneo attraverso il quale Dessì intende riarticolare lo spazio espositivo, creando rimandi e concatenazioni tra i singoli elementi. Poiché la somma delle singole parti è più grande delle parti stesse, l'artista intende stabilire una relazione tra opera e opera, combinando assieme pittura, disegno e altre tecniche, alla maniera di disjecta membrache si ricompongono a chiarire il proprio corpus artistico.

Dessì crea forme precise nella loro definizione benché libere nella loro interpretazione; ciò consente uno scambio vicendevole tra dento e fuori, finito e non-finito, generando un flusso di energie e di sensibilità. Concependo ogni mostra alla stregua di un ambiente unitario, l'artista stabilisce una forte relazione tra le opere e lo spettatore. Tematizzando la sostanza del gesto e del segno, dei pieni e dei vuoti, Dessì genera un coagulo di significati che trovano il proprio fondamento nel groviglio del mondo. In mostra a Lissone un dipinto su tela, una serie di opere su carta e una grande vetroresina intendono afferrare il cuore stesso della forma mentre migra tra le tecniche e i materiali.

Gianni Dessì si è diplomato in scenografia con Toti Scajola all'Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1978 ha tenuto la sua prima mostra presso la Galleria Ugo Ferranti di Roma.
Nei primi anni Ottanta ha stabilito il suo studio nell'ex pastificio Cerere in via degli Ausoni, nel quartiere romano di San Lorenzo; qui si è tenuta la mostra Ateliers(1984) in occasione della quale gli artisti aprirono i loro studi al pubblico. All'esperienza dell'ex Pastificio Cerere e a quella che fu definita Nuova Scuola Romana sono state recentemente dedicate mostre a Villa Medici a Roma (2006) e al Mart di Rovereto (2009).

La sua attività espositiva annovera numerose mostre sia in Europa che negli Stati Uniti, tra le più importanti si ricordano le partecipazioni alla Biennale di San Paolo nel 1981, alla Biennale des jeunes artistes di Parigi nel 1982, alla Biennale di Venezia nel 1984 e nel 1986. Nel 1995 gli è stata dedicata un'ampia rassegna antologica alla Galleria Civica d'Arte Contemporanea di Trento. Negli ultimi anni, sue mostre personali si sono tenute al Macro di Roma (2006) e al Museo d'Arte Moderna di Saint-Etienne (2011).

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Il Sogno Bianco
Lucio Pozzi
Piano Interrato

Lucio Pozzi [Milano, 1935] sarà protagonista di una "pitturazione" che si svolgerà il 10 maggio dalle ore 12:00 fino alle ore 20:00 (le "assurde otto ore di ufficio" svolte dalla maggior parte delle persone), dando prova dei temi che da oltre un decennio ricorrono nella pittura dell'artista: l'atto stesso del dipingere e la sua estensione teatrale. In questo senso, Il Sogno Biancodi Pozzi non è solo un quadro ma anche un evento; il titolo scelto dall'artista si pone come un ossimoro, perché l'opera è dipinta con del colore nero: «Forse questo titolo addita all'importanza degli spazi negativi fra le forme nere, ma può anche alludere al vuoto trascendente che si intreccia nella nostra esistenza piena di detriti».

Dall'ossimoro all'agone: al MAC di Lissone Pozzi si cimenterà con una tela alta due metri e lunga dieci, gigantismo che sancisce una sfida con se stesso (non finalizzata a stupire o dimostrare alcunché), "condizione estrema" che permetterà all'artista di far fluire in diretta pensieri e sensibilità, senza remore o filtri. La grande tela verrà dipinta in pubblico, mettendo così a nudo il conflitto amoroso che intercorre fra il pittore e lo spettatore.

L'evento pittorico non coinvolgerà soltanto Pozzi, ma anche altri artisti, musicisti e spettatori. Nell'arco delle otto ore di "pitturazione", Stefano Castagna e Luca Formentini produrranno suoni per mezzo di strumenti da loro costruiti, e allo scoccare di ogni ora riceveranno la visita di altri musicisti - Pino Dieni , Roberto Zorzi, Maddalena Fasoli, Max Foti , Vittorio Guindani- che collaboreranno alla produzione sonora. Alla mezza di ogni ora, una persona scelta tra il pubblico sarà invece invitata a piantare un chiodo all'interno delle campiture nere dipinte sulla tela per appendervi un piccolo quadro fatto pervenire da otto artisti amici di Pozzi. Attraverso il pubblico si stabilirà un'imprevedibile collaborazione con le opere di Luca Bertolo, David Lindberg , Filippo Manzini, Maria Morganti, Albano Morandi, Luca Pozzi, Lorenza Sannai e LynnUmlauf.

L'ambiente nel quale si svolgerà l'azione sarà considerato parte integrale dell'opera: fruibile nel suo aspetto disadorno, con le tracce di allestimenti precedenti e lasciando a vista le prese elettriche, gli estintori e la segnaletica di servizio. Nella sala verranno sparse alcune sedie, atte a formare piccoli nuclei di conversazione, nei quali gli spettatori si potranno accomodare per riposare o chiacchierare. L'andirivieni e le voci delle persone presenti in sala concorreranno in pari modo a definire l'evento in "corso d'opera", che sarà registrato e proiettato nelle quattro settimane successive alla serata inaugurale.

Dopo aver vissuto qualche anno a Roma, dove aveva studiato architettura senza conseguire la laurea, Lucio Pozzi si reca negli Stati Uniti come ospite dell'Harvard International Seminar. Più tardi si trasferisce a New York e prende la cittadinanza americana. Ora divide il suo tempo tra gli studi di Hudson (NY) e Valeggio sul Mincio (VR).

La pratica transdisciplinare di Pozzi consiste nel dipingere pittura figurativa e astratta, generare fotografie e performances, costruire installazioni o produrre video. Sue opere sono presenti in musei internazionali e collezioni private. Oltre alle grandi mostre all'Università del Massachusetts, al Fabrikculture di Hegenheim/Basel e nei Musei tedeschi di Bielefeld e Karlsruhe, sono altrettanto significative le mostre inaugurate nelle gallerie di Leo Castelli, John Weber, Susan Caldwell, Carlo Grossetti, Roberto Peccolo, Stefania Miscetti, Carlo e Simone Frittelli. Nel 1977 è stato invitato alla Documenta 6 e nel 1980 ha esposto nel Padiglione americano della XXXIX Biennale di Venezia

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Il Collasso dell'Entropia /ZWEI
Su tutti i piani

ANDRECO, A/R STUDIO, MATTEO BERGAMASCO, MATTIA BOSCO, MIRKO CANESI, MARIO CONSIGLIO, LORENZO DAMIANI, OPPY DE BERNARDO, ANDREA FACCO, FRANCESCO FOSSATI, FILIPPO MANZINI, FABRIZIO PREVEDELLO, SILVIA VENDRAMEL

Nuove opere e interventi installativi studiati appositamente per il MAC di Lissone arricchiscono il secondo appuntamento de Il collasso dell'entropia . L'obiettivo è quello di trasformare tutto il museo in superficie espositiva, ossia in uno spazio in cui i fruitori possano fare esperienza dell'intero complesso architettonico. Dal mese di febbraio, una ricca e variegata proposta di opere ha iniziato a trasformare il museo in un grande contenitore. Alle opere di Arruzzo, Carboni, Coser, Consani, Dal Molin, Dall'O, Gligorov, Grassino, Hernández, Eškinja, Gilberti, Kehrer, Mazzonelli, Persiani, Sal, Serusi, Spanghero, Spinelli e Termini si affiancano ora quelle di una dozzina di altri autori.

Tra gli interventi site-specific si segnalano quelli di Oppy De Bernardo [Locarno, 1970], Mirko Canesi [Milano, 1981], Matteo Bergamasco [Milano, 1982], Fabrizio Prevedello [Padova, 1972] e Andreco [Roma, 1978]. De Bernardo ripropone l'installazione Scacciapensieri esposta al Museo Cantonale d'Arte di Lugano e qui riadattata per gli spazi del MAC; il progetto affronta in modo obliquo il tema della morte che affligge la nostra società e tutta la cultura occidentale. Canesi interviene sulle foglie e sui fusti di alcune piante d'appartamento generando un'ibridazione che sposa le dinamiche della Green Art e della Viral Art. Sfruttando un interstizio del museo, Bergamasco ha deciso di "occultare" un grande quadro effigiante una stanza contenente un grande arazzo di alberi e uccelli che potrà essere visto spiando da un foro praticato su un pannello. Già presente con una video-installazione alla prima inaugurazione del Collasso dell'Entropia, Prevedello si riappropria dello spazio a lui assegnato per realizzare un inedito ambiente scultoreo. Ispirandosi all'energia potenziale, Andreco ha dipinto una serie di macigni che suggeriscono un senso di instabilità (l'irregolare sovrapposizione dei massi suggerisce una "tensione" dovuta all'equilibrio precario della struttura e della posizione statica degli elementi che la compongono).

Disseminate negli ambienti espositivi troviamo anche le opere di Silvia Vendramel [Treviso, 1972], Mattia Bosco [Milano, 1976], Mario Consiglio [Maglie, 1968] e Filippo Manzini [Firenze, 1975]. Vendramel presenta un Soffio, scultura che si ricollega a un gesto diretto e irrevocabili - come il soffiare del vetro all'interno di manufatti prelevati dalla propria infanzia - per rielaborare tensioni e nodi legati al "senso di appartenenza" che riguarda ciascuno di noi. Mattia Bosco propone un nucleo di lavori eterogenei per forma e materiali ma coerenti sotto il profilo concettuale che mettono in evidenza il rapporto tra l'artista e le potenzialità insite nella scultura. Mario Consiglio ha invece abbandonato all'interno del museo una mazza sul cui lungo manico è incisa una frase emblematica, che è anche il titolo dell'opera: With this hammer I have killed dozens of fake monkeys Servendosi di un bisturi, Manzini ha asportato delle piccole porzioni di carta da alcuni fogli per ottenere morbidi avvallamenti e ombre cariche di allusività.

Una particolare attenzione viene dedicata anche al design. A/R Studio [fondato da Antigone Acconci e Riccardo Bastiani nel 2003] presenta Edison Jr, un set di costruzioni in legno che possono essere infilate nelle prese elettrice permettendo così ai bambini di giocare in totale sicurezza. Nella saletta della didattica sono allestiti gli orologi Catino di Lorenzo Damiani [Lissone, 1972], il quale ha progettato anche i nuovi fermaporte del museo, caratterizzati da un lungo manico in legno e un contrappeso in marmo.
Un'altra novità del Collasso dell'entropia è la sezione dedicata ai multipli realizzati appositamente per il MAC di Lissone. Andrea Facco [Verona, 1973] presenta una serie di grafiche su carta che si ricollegano alle opere esposte in occasione de Lo strano caso di Joan Mitchell, mentre di Francesco Fossati [Carate Brianza, 1985] sono disponibili i Souvenir di sculture realizzati lo scorso anno a seguito della mostra Displace.

Inaugurazione: sabato 10 maggio, ore 18.00

Museo d'Arte Contemporanea di Lissone MAC
viale Padania 6, Lissone
Orari di apertura: Martedì - Mercoledì - Venerdì 15-19, Giovedì 15-23 e Sabato - Domenica 10-12 e 15-19
Ingresso libero

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