Walk Straight. The Japanese artist presents a complex project composed of two different works, intersecting intensifying references and gazes and interlocking the different points of view.
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Testo e conversazione con l’artista di Maria Giovanna Mancini
Voice Gallery è lieta di invitarla all’inaugurazione della mostra personale Walk
Straight di Megumi Matsubara negli spazi della galleria di Marrakech il 30 maggio
2014 alle ore19:00.
L’artista giapponese presenta un complesso progetto composto da due gruppi
differenti di opere: un primo nucleo si dispone lungo l’asse visivo verticale dello
spettatore che entra nell’ambiente della galleria; la seconda parte è rappresentata
dall’installazione video presente nell’ambiente che si orienta idealmente su un asse
ortogonale al primo. Le due differenti installazioni si intersecano complicando i
rimandi, gli sguardi e incrociando i punti di vista.
Fin dalla prima impressione il pubblico può riconoscere che la centralità della
fotografia è metafora della visione. La presenza di differenti schermi, trasparenti in
alcuni casi, riflettenti o semi-specchianti in altri, fa sì che l’atto stesso della visione si
riveli come azione e processo nient’affatto involontario. Infatti, lo spettatore è calato
in una macchina della visione dove il vedere diventa esperienza spaziale.
Nel primo ambiente della galleria sono esposte fotografie scattate nella casa
dell’artista a Fés in cui l’immagine, talvolta, perde il contatto con il referente originario
attraverso il processo della ri-fotografia da cui emergono le ombre e i riflessi prodotti
dai supporti patinati delle immagini o dal vetro della cornice. La visione di alcune di
queste immagini viene ulteriormente complicata dall’aggiunta di vetri sospesi semi-
riflettenti, di color seppia, che imbruniscono leggermente l’immagine sottoposta. In
altri casi, invece, la visione è diretta. Gli schermi, collocati ad una certa distanza,
moltiplicano esponenzialmente il trucco della riflessione immettendo, nel flusso delle
immagini in scena nell’installazione, la rappresentazione stessa dello spettatore,
elemento irrinunciabile nel dispositivo visivo creato dall’artista. Sulla parete di fondo
un fiore rosso, anch’esso una fotografia scattata ad una fotografia, la cui visione è
forzata attraverso il vetro trasparente che si frappone tra l’osservatore e l’opera,
fronteggia lo spettatore esponendo un riflesso che solo ad un’attenta osservazione si
riconosce essere parte dell’immagine e non effetto del vetro che si intrude tra i due
elementi della relazione visiva (soggetto ed oggetto). Il secondo nucleo installativo,
che incrocia il primo gruppo di opere con un effetto ridondante, è composto da una
proiezione circolare di un video in cui sono montate, in loop, 3000 fotografie del
tramonto. Il tempo di ripresa fotografica del tramonto è allungato su una timeline di
dodici ore circa in cui le singole immagini si trasformano lentamente l’una nell’altra
per l’effetto del morphing a cui l’artista sottopone l’intera sequenza. Sulla parete
opposta alla proiezione è montato uno specchio. Solo nel momento in cui il pubblico
darà le spalle alla proiezione, per dirigersi verso l’uscita dall’ambiente espositivo,
vedrà dinanzi a sé lo specchio che restituisce la sua stessa sagoma contornata
dall’immagine del tramonto che lentamente si sussegue alle sue spalle.Megumi Matsubara opera una spazializzazione della visione trasformando l’atto stesso
del vedere in un processo analitico di scomposizione e ricomposizione che
l’osservatore agisce non solo con gli occhi ma con il resto del corpo in movimento.
L’attraversamento dello spazio della galleria permette all’osservatore di “conoscere” le
immagini -e la visione stessa di cui il progetto dell’artista è allegoria- a dispetto della
loro bidimensionalità in una profondità spaziale percepibile esclusivamente in
movimento.
MGM: In questa mostra, come in altre precedenti, sottoponi l’atto del vedere ad
un processo di moltiplicazione e scomposizione costringendo lo spettatore ad
agire (muovendosi, toccando, ascoltando) per vedere.
Intendi l’opera d’arte come un’esperienza pluri-sensoriale di attraversamento?
Puoi parlarci del titolo che hai scelto per la mostra?
MM: Walk Straight, che significa Camminare Diritto, è diventato il titolo di questa
mostra perché considero questa azione molto difficile. Inoltre, la pianta della galleria è
a L.
Per essere capaci di avere la lucidità per camminare diritto, dobbiamo passare
attraverso l’accettazione di tutto ciò che ci circonda. Il coraggio non basta. Quando
perdiamo il senso dell’orientamento, siamo costretti a incrementare la nostra
sensibilità e la nostra capacità di ricezione. Questo può spaventare giacché dobbiamo
diventare disponibili ad accettare l’ignoto.
Con questo titolo intendo sottolineare questa paura così come l’ottimismo di questo
atto. Se crediamo profondamente in noi stessi e in ciò che ci circonda, le nostre
percezioni diventano il nostro unico mezzo di navigazione.
MGM: Il tuo portfolio è ricco di esperienze più facilmente riconducibili alla
progettazione architettonica e al design in cui costruisci stanze abitabili e spazi
attraversabili. Emerge l’accento ad una dimensione collettiva dello spazio.
Nel caso dell’installazione in galleria invece ti rivolgi ad un pubblico pensato
come individualità?
MM: Non immagino mai il pubblico come audience. Non riesco neppure a immaginare
degli spettatori. Immagino solo delle persone. Mi piace immaginare tante individualità
che comunicano fra loro. Il mio lavoro consiste nel creare uno spazio vuoto dove la
presenza di un singolo diventa molto importante, per creare un’intimità. Questa
intimità ti fa avere cura di cose che solo tu puoi vedere.
Lo spazio non ha nulla a che vedere con l’ambiente fisico. L’unico spazio che esiste per
me è lo spazio nella mia mente, nella mente delle persone, ed è condivisibile. Tutto il
mio lavoro si basa sulla comprensione dello spazio così inteso.
MGM: L’uso della fotografia è centrale nella tua analisi della visione e, come
presa diretta del reale, registra i segni immateriali del nostro quotidiano (riflessi
e ombre). La fotografia viene fotografata in un processo che Craig Owens ha
definito di mise en abyme.
Nelle tue immagini la ri-fotografia apre la serie della ripetizione, ma contiene allo
stesso tempo un nuovo elemento: il riflesso prodotto dalla superficie dell’immagine.
Nel processo del rispecchiamento introduci un elemento ulteriore.
Potresti parlarci del rapporto in cui leghi gli oggetti, le loro fotografie e le loro immagini riflesse?
MM: Le otto fotografie in mostra scattate a casa mia sono immagini di immagini:
ombre, luci, riflessi piuttosto che immagini di oggetti. Come si può definire qualcosa
come un oggetto? Non conosco l’Uno come singolarità. Come si può dire che la luna
sia la luna quando non è illuminata dal sole? Come posso separare la luna dalle storie
che ci proietto sopra? La luna è già una immagine per me.
MGM: Nelle installazioni da te realizzate spesso incroci progetti diversi. Lavori
sempre recuperando segni e ibridando in una nuova riflessione elementi e
progetti che già hai realizzato?
E’ importante per te l’idea della trasformazione dell’opera, in relazione al sito
specifico in cui viene installata?
MM: Io sono una vita che ha una direzione. Nel corso di questa vita succedono degli
eventi. Alcune cose arrivano e altre se ne vanno. Ma nulla sparisce dalla mia vita ed io
non sparisco da quelle degli altri. Qualsiasi interazione esistita resta. Non importa se
lo si percepisce chiaramente oppure no, l’interconnessione avviene fuori dal nostro
controllo.
Per me, Uno, per definizione, contiene in se Tanti. Io non sono Me a causa di me
stessa. L’esistenza non è cosi tanto nelle nostre mani. Per me, la forma più pura
dell’esistenza è come la foschia. I nostri corpi sono contenitori di cose tipo
temperatura, umidità, battiti. Questi elementi interagiscono con molte cose intorno a
loro e cambiano il loro stato: metamorfosi. Nulla sparisce ma tutto cambia di stato.
Per me non è importante l’idea di trasformazione ma la comprensione della natura
dell’essere e mantenerne il contatto attraverso il mio lavoro.
MGM: Continuamente il tuo lavoro suggerisce l’ambiguità tra ciò che è materiale
e ciò che è immateriale.
In questo senso privilegi il vetro e le immagini riflesse?
MM: Mi piace il vetro. Mi piacciono i fugaci riflessi sulla sua superficie; ma so che lo
posso rompere. Sapendo questo non lo rompo neppure se posso. Solo per questa
ragione i vetri sottili diventano resistenti. Allo stesso modo posso uccidere una
farfalla. Ma, sentendo la sua fragilità, decido di stare attenta. Non siamo potenti
perché possiamo essere crudeli; questa non è forza. E per questo che anche vetro e
farfalle possono diventare forti. Forza e fragilità sono una coppia. Quando capiamo
questa contraddizione la bellezza inizia a liberarsi.
La bellezza è un linguaggio che ha il potere di parlare a tutti. Ma per padroneggiare
questo linguaggio bisogna conoscerne le contraddizioni. La bellezza ti tradisce se sei
inconsapevole di questo.
Voglio sfidare il potere. Voglio sfidare la nostra abilità di usare la nostra vera forza.
Riflessi, ombre, ibridi possono sembrare molto sottili. Ma sono anche la vera natura
degli esseri. Sono cosi fragili, e quindi, per me, anche indubbiamente forti.
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Text and conversation with the artist by Maria Giovanna Mancini
Voice Gallery is pleased to invite you to the private view of the solo show Walk
Straight by Megumi Matsubara, held in the spaces of the gallery in Marrakech on
30 May 2014 at 19:00.
The Japanese artist presents a complex project composed of two different works: the
first nucleus is disposed along the vertical visual axis the spectator encounters
entering the gallery; the second part is represented by the video installation present
in the environment that is oriented on the axis ideally orthogonal to the first. The two
different installations intersect intensifying references and gazes and interlocking the
different points of view.
Since the first impression the public can recognise that the centrality of photography
is a metaphor of vision. The presence of different screens, some transparent, others
reflecting or semi-reflecting, allows the act of vision to reveal itself as an action and a
process that is by no means involuntary. In fact, the spectator is immersed in a
machine of vision where seeing becomes a spatial experience.
In the first ambient of the gallery photographs shot in the artist’s home in Fès are
exposed; in these the image, at times, loses contact with the original referent through
the process of re-photography, where shadows and reflections produced by shiny
surfaces or glass frames emerge. The vision of some of these images is complicated
further by the addition of suspended semi-reflecting glasses of a sepia colour, which
slightly darken the underlying picture. In other cases, instead, the vision is direct. The
screens, placed at a certain distance, exponentially multiply the trick of reflection
inserting, in the flux of images staged in the installation, the representation of the
very spectator, indispensable element in the visual device created by the artist. On
the background wall a red flower, also a photo of a photo, whose vision is forced
through the transparent glass interposed between observer and work, faces the
spectator exposing a reflection that only by careful observation can be recognised as
part of the image and not as an effect of the glass intruding between the two
elements of the visual relation (subject and object).
The second body of work, part of this installation, which crosses the first group of
works with a redundant effect, is composed of a circular projection of a video in which
3000 photos of a sunset are edited in a loop. The shooting time of the sunset is
stretched on a timeline of about twelve hours where single images slowly transform
into one another through the morphing effect to which the artist submits the whole
sequence. On the wall opposite the projection a mirror is mounted. Only in that
moment when one turns one's back to the projection, going towards the exit of the
exhibition space, the public will see at its front the mirror giving back their profile,outlined by the image of the sunset, slowly coming in succession behind.
Megumi Matsubara operates a spatialisation of vision that transforms the very act of
seeing into an analytic process of composition and decomposition which the observer
can enact not only with the eyes but also with the rest of the moving body. Passing
through the space of the gallery enables the observer to “know” the images – and the
act of vision itself, of which the project is an allegory – exclusively by moving through
it, in a spatial depth perceptible despite their being two-dimensional.
MGM: In this show, as in previous ones, you pone to act of seeing under a
process of multiplication and decomposition, forcing the spectator to act
(moving, touching, listening) in order to see.
Do you conceive the artwork as a multi-sensorial experience of crossing? Can
you tell us about the title you chose for the show?
MM: Walk Straight became the title of this show, because I find this act very difficult.
(Also, the plan of the gallery is L-shaped)
To be able to have clarity to walk straight, you have to accept everything around you.
Courage is not enough. When the sense of direction obliterates, you also need to
maximize your sensitivity, receptivity. This might create fear, since you need to be
available to receive the unknown.
By this title, I underline this fear as well as the optimism of this act. If you trust
deeply yourself as well as the surroundings, your own perception becomes your only
navigation.
MGM: Your portfolio is rich of experiences more easily reconnectable to
architectural design, where you build habitable rooms and navigable spaces. The
accent on a collective dimension of space emerges.
In the case of the installation in a gallery, instead, do you talk to a public
intended as an individual?
MM: I never imagine public as an audience. I barely imagine audience either. I only
imagine people. I like imagining people hoping to communicate with each one of
them.
My work is creating a blank space – where your presence becomes very important, to
create an intimacy. This intimacy makes you care about things that only you can see.
Space has nothing to do with physical environment.
The only space that exists to me, is the space in my mind, in people’s mind, and it’s
sharable. My work is all based on this understanding of space.
MGM: The use of photography is central in your analysis of vision and, as a live
reproduction of the real, it records the immaterial signs of our everyday life
(shadows and reflections). Photography is photographed in a process that Craig
Owens has defined mise en abyme.
In your images re-photographing opens the series of repetition, containing at
the same time a new element: the reflection produced by the image's surface.
You introduce a new element in the process of mirroring.
Can you tell us about the relation in which you connect objects, their photos and
their reflected images?MM: The eight photographs taken in my home that I am showing are images of
images: shadows, lights, reflections, rather than images of objects. But how can
something be defined as an object? I don't know One as a singularity. How can you
tell the moon is the moon when it is not illuminated by the sun? How can the moon be
separated from the stories I project on it? The moon is already an image to me.
MGM: In the installations you realised you often intertwine different projects. Do
you always work retrieving signs and hybridising in a new reflection elements
and projects you have already realised?
Is it important for you the idea of the transformation of the work, in relation to
the specific site in which the piece is installed?
MM: I am a life that has a direction. In the course of this life, events happen. Things
come and go. But nothing disappears from my life and I don't disappear from any
other life. Any interaction that existed remains. No matter if you see it clearly or not,
they interconnect beyond your control.
To me, One by definition contains Many in itself. I am not Me because of myself.
Existence is not so much in the hands of oneself. To me, the purest form of existence
is like mist. Our bodies are containers of things like temperature, humidity, beats.
These elements interact with many things around them and change their states: they
metamorphose. Nothing disappears but everything changes its state.
What is important for me is not the idea of transformation but the understanding of
the nature of beings, and being in touch with it through my work.
MGM: Your work suggests continuously the ambiguity between what is material
and that which is immaterial.
Is it in this sense that you privilege glass and reflected images?
MM: I like thin glass. I like transient reflections on it; but I know I can break it.
Knowing this, I will not break it even if I can. Only because of that, thin glass
becomes strong. In the same way, I can kill a butterfly. But, sensing its fragility, I
choose to be careful. You are not powerful because you can be cruel; that is not
strength. And because of that, glass and butterflies can also become strong. Only
because they are so fearlessly fragile, they become strong.
Power and fragility is a pair. When you understand this contradiction, beauty begins to
unfold. Beauty is a language that has a power to speak to all. But to master this
language, you have to learn about contradictions. Beauty betrays you if you are
oblivious to this.
I want to challenge power. I want to challenge our ability to use our real strength.
Reflections, shadows, hybridity may look subtle. But they are also the true nature of
beings. They are so fragile and therefore, to me, they are undoubtedly strong.
private view: 30 May 2014 at 19:00
VOICE GALLERY
366, Z.I. SIDI GHANEM | 40000 MARRAKECH | MAROC