Voice Gallery
Marrakech
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Megumi Matsubara
dal 29/5/2014 al 29/9/2014

Segnalato da

Voice Gallery



 
calendario eventi  :: 




29/5/2014

Megumi Matsubara

Voice Gallery, Marrakech

Walk Straight. The Japanese artist presents a complex project composed of two different works, intersecting intensifying references and gazes and interlocking the different points of view.


comunicato stampa

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Testo e conversazione con l’artista di Maria Giovanna Mancini

Voice Gallery è lieta di invitarla all’inaugurazione della mostra personale Walk Straight di Megumi Matsubara negli spazi della galleria di Marrakech il 30 maggio 2014 alle ore19:00.

L’artista giapponese presenta un complesso progetto composto da due gruppi differenti di opere: un primo nucleo si dispone lungo l’asse visivo verticale dello spettatore che entra nell’ambiente della galleria; la seconda parte è rappresentata dall’installazione video presente nell’ambiente che si orienta idealmente su un asse ortogonale al primo. Le due differenti installazioni si intersecano complicando i rimandi, gli sguardi e incrociando i punti di vista.

Fin dalla prima impressione il pubblico può riconoscere che la centralità della fotografia è metafora della visione. La presenza di differenti schermi, trasparenti in alcuni casi, riflettenti o semi-specchianti in altri, fa sì che l’atto stesso della visione si riveli come azione e processo nient’affatto involontario. Infatti, lo spettatore è calato in una macchina della visione dove il vedere diventa esperienza spaziale.

Nel primo ambiente della galleria sono esposte fotografie scattate nella casa dell’artista a Fés in cui l’immagine, talvolta, perde il contatto con il referente originario attraverso il processo della ri-fotografia da cui emergono le ombre e i riflessi prodotti dai supporti patinati delle immagini o dal vetro della cornice. La visione di alcune di queste immagini viene ulteriormente complicata dall’aggiunta di vetri sospesi semi- riflettenti, di color seppia, che imbruniscono leggermente l’immagine sottoposta. In altri casi, invece, la visione è diretta. Gli schermi, collocati ad una certa distanza, moltiplicano esponenzialmente il trucco della riflessione immettendo, nel flusso delle immagini in scena nell’installazione, la rappresentazione stessa dello spettatore, elemento irrinunciabile nel dispositivo visivo creato dall’artista. Sulla parete di fondo un fiore rosso, anch’esso una fotografia scattata ad una fotografia, la cui visione è forzata attraverso il vetro trasparente che si frappone tra l’osservatore e l’opera, fronteggia lo spettatore esponendo un riflesso che solo ad un’attenta osservazione si riconosce essere parte dell’immagine e non effetto del vetro che si intrude tra i due elementi della relazione visiva (soggetto ed oggetto). Il secondo nucleo installativo, che incrocia il primo gruppo di opere con un effetto ridondante, è composto da una proiezione circolare di un video in cui sono montate, in loop, 3000 fotografie del tramonto. Il tempo di ripresa fotografica del tramonto è allungato su una timeline di dodici ore circa in cui le singole immagini si trasformano lentamente l’una nell’altra per l’effetto del morphing a cui l’artista sottopone l’intera sequenza. Sulla parete opposta alla proiezione è montato uno specchio. Solo nel momento in cui il pubblico darà le spalle alla proiezione, per dirigersi verso l’uscita dall’ambiente espositivo, vedrà dinanzi a sé lo specchio che restituisce la sua stessa sagoma contornata dall’immagine del tramonto che lentamente si sussegue alle sue spalle.Megumi Matsubara opera una spazializzazione della visione trasformando l’atto stesso del vedere in un processo analitico di scomposizione e ricomposizione che l’osservatore agisce non solo con gli occhi ma con il resto del corpo in movimento.

L’attraversamento dello spazio della galleria permette all’osservatore di “conoscere” le immagini -e la visione stessa di cui il progetto dell’artista è allegoria- a dispetto della loro bidimensionalità in una profondità spaziale percepibile esclusivamente in movimento.

MGM: In questa mostra, come in altre precedenti, sottoponi l’atto del vedere ad un processo di moltiplicazione e scomposizione costringendo lo spettatore ad agire (muovendosi, toccando, ascoltando) per vedere.
Intendi l’opera d’arte come un’esperienza pluri-sensoriale di attraversamento? Puoi parlarci del titolo che hai scelto per la mostra?

MM: Walk Straight, che significa Camminare Diritto, è diventato il titolo di questa mostra perché considero questa azione molto difficile. Inoltre, la pianta della galleria è a L.

Per essere capaci di avere la lucidità per camminare diritto, dobbiamo passare attraverso l’accettazione di tutto ciò che ci circonda. Il coraggio non basta. Quando perdiamo il senso dell’orientamento, siamo costretti a incrementare la nostra sensibilità e la nostra capacità di ricezione. Questo può spaventare giacché dobbiamo diventare disponibili ad accettare l’ignoto.

Con questo titolo intendo sottolineare questa paura così come l’ottimismo di questo atto. Se crediamo profondamente in noi stessi e in ciò che ci circonda, le nostre percezioni diventano il nostro unico mezzo di navigazione.

MGM: Il tuo portfolio è ricco di esperienze più facilmente riconducibili alla progettazione architettonica e al design in cui costruisci stanze abitabili e spazi attraversabili. Emerge l’accento ad una dimensione collettiva dello spazio. Nel caso dell’installazione in galleria invece ti rivolgi ad un pubblico pensato come individualità?

MM: Non immagino mai il pubblico come audience. Non riesco neppure a immaginare degli spettatori. Immagino solo delle persone. Mi piace immaginare tante individualità che comunicano fra loro. Il mio lavoro consiste nel creare uno spazio vuoto dove la presenza di un singolo diventa molto importante, per creare un’intimità. Questa intimità ti fa avere cura di cose che solo tu puoi vedere.

Lo spazio non ha nulla a che vedere con l’ambiente fisico. L’unico spazio che esiste per me è lo spazio nella mia mente, nella mente delle persone, ed è condivisibile. Tutto il mio lavoro si basa sulla comprensione dello spazio così inteso.

MGM: L’uso della fotografia è centrale nella tua analisi della visione e, come presa diretta del reale, registra i segni immateriali del nostro quotidiano (riflessi e ombre). La fotografia viene fotografata in un processo che Craig Owens ha definito di mise en abyme.

Nelle tue immagini la ri-fotografia apre la serie della ripetizione, ma contiene allo stesso tempo un nuovo elemento: il riflesso prodotto dalla superficie dell’immagine. Nel processo del rispecchiamento introduci un elemento ulteriore.
Potresti parlarci del rapporto in cui leghi gli oggetti, le loro fotografie e le loro immagini riflesse?

MM: Le otto fotografie in mostra scattate a casa mia sono immagini di immagini: ombre, luci, riflessi piuttosto che immagini di oggetti. Come si può definire qualcosa come un oggetto? Non conosco l’Uno come singolarità. Come si può dire che la luna sia la luna quando non è illuminata dal sole? Come posso separare la luna dalle storie che ci proietto sopra? La luna è già una immagine per me.

MGM: Nelle installazioni da te realizzate spesso incroci progetti diversi. Lavori sempre recuperando segni e ibridando in una nuova riflessione elementi e progetti che già hai realizzato?
E’ importante per te l’idea della trasformazione dell’opera, in relazione al sito specifico in cui viene installata?

MM: Io sono una vita che ha una direzione. Nel corso di questa vita succedono degli eventi. Alcune cose arrivano e altre se ne vanno. Ma nulla sparisce dalla mia vita ed io non sparisco da quelle degli altri. Qualsiasi interazione esistita resta. Non importa se lo si percepisce chiaramente oppure no, l’interconnessione avviene fuori dal nostro controllo.

Per me, Uno, per definizione, contiene in se Tanti. Io non sono Me a causa di me stessa. L’esistenza non è cosi tanto nelle nostre mani. Per me, la forma più pura dell’esistenza è come la foschia. I nostri corpi sono contenitori di cose tipo temperatura, umidità, battiti. Questi elementi interagiscono con molte cose intorno a loro e cambiano il loro stato: metamorfosi. Nulla sparisce ma tutto cambia di stato. Per me non è importante l’idea di trasformazione ma la comprensione della natura dell’essere e mantenerne il contatto attraverso il mio lavoro.

MGM: Continuamente il tuo lavoro suggerisce l’ambiguità tra ciò che è materiale e ciò che è immateriale.
In questo senso privilegi il vetro e le immagini riflesse?

MM: Mi piace il vetro. Mi piacciono i fugaci riflessi sulla sua superficie; ma so che lo posso rompere. Sapendo questo non lo rompo neppure se posso. Solo per questa ragione i vetri sottili diventano resistenti. Allo stesso modo posso uccidere una farfalla. Ma, sentendo la sua fragilità, decido di stare attenta. Non siamo potenti perché possiamo essere crudeli; questa non è forza. E per questo che anche vetro e farfalle possono diventare forti. Forza e fragilità sono una coppia. Quando capiamo questa contraddizione la bellezza inizia a liberarsi.

La bellezza è un linguaggio che ha il potere di parlare a tutti. Ma per padroneggiare questo linguaggio bisogna conoscerne le contraddizioni. La bellezza ti tradisce se sei inconsapevole di questo.

Voglio sfidare il potere. Voglio sfidare la nostra abilità di usare la nostra vera forza. Riflessi, ombre, ibridi possono sembrare molto sottili. Ma sono anche la vera natura degli esseri. Sono cosi fragili, e quindi, per me, anche indubbiamente forti.

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Text and conversation with the artist by Maria Giovanna Mancini

Voice Gallery is pleased to invite you to the private view of the solo show Walk Straight by Megumi Matsubara, held in the spaces of the gallery in Marrakech on 30 May 2014 at 19:00.

The Japanese artist presents a complex project composed of two different works: the first nucleus is disposed along the vertical visual axis the spectator encounters entering the gallery; the second part is represented by the video installation present in the environment that is oriented on the axis ideally orthogonal to the first. The two different installations intersect intensifying references and gazes and interlocking the different points of view.

Since the first impression the public can recognise that the centrality of photography is a metaphor of vision. The presence of different screens, some transparent, others reflecting or semi-reflecting, allows the act of vision to reveal itself as an action and a process that is by no means involuntary. In fact, the spectator is immersed in a machine of vision where seeing becomes a spatial experience.

In the first ambient of the gallery photographs shot in the artist’s home in Fès are exposed; in these the image, at times, loses contact with the original referent through the process of re-photography, where shadows and reflections produced by shiny surfaces or glass frames emerge. The vision of some of these images is complicated further by the addition of suspended semi-reflecting glasses of a sepia colour, which slightly darken the underlying picture. In other cases, instead, the vision is direct. The screens, placed at a certain distance, exponentially multiply the trick of reflection inserting, in the flux of images staged in the installation, the representation of the very spectator, indispensable element in the visual device created by the artist. On the background wall a red flower, also a photo of a photo, whose vision is forced through the transparent glass interposed between observer and work, faces the spectator exposing a reflection that only by careful observation can be recognised as part of the image and not as an effect of the glass intruding between the two elements of the visual relation (subject and object).

The second body of work, part of this installation, which crosses the first group of works with a redundant effect, is composed of a circular projection of a video in which 3000 photos of a sunset are edited in a loop. The shooting time of the sunset is stretched on a timeline of about twelve hours where single images slowly transform into one another through the morphing effect to which the artist submits the whole sequence. On the wall opposite the projection a mirror is mounted. Only in that moment when one turns one's back to the projection, going towards the exit of the exhibition space, the public will see at its front the mirror giving back their profile,outlined by the image of the sunset, slowly coming in succession behind.

Megumi Matsubara operates a spatialisation of vision that transforms the very act of seeing into an analytic process of composition and decomposition which the observer can enact not only with the eyes but also with the rest of the moving body. Passing through the space of the gallery enables the observer to “know” the images – and the act of vision itself, of which the project is an allegory – exclusively by moving through it, in a spatial depth perceptible despite their being two-dimensional.

MGM: In this show, as in previous ones, you pone to act of seeing under a process of multiplication and decomposition, forcing the spectator to act (moving, touching, listening) in order to see.
Do you conceive the artwork as a multi-sensorial experience of crossing? Can you tell us about the title you chose for the show?

MM: Walk Straight became the title of this show, because I find this act very difficult. (Also, the plan of the gallery is L-shaped)
To be able to have clarity to walk straight, you have to accept everything around you. Courage is not enough. When the sense of direction obliterates, you also need to maximize your sensitivity, receptivity. This might create fear, since you need to be available to receive the unknown.

By this title, I underline this fear as well as the optimism of this act. If you trust deeply yourself as well as the surroundings, your own perception becomes your only navigation.

MGM: Your portfolio is rich of experiences more easily reconnectable to architectural design, where you build habitable rooms and navigable spaces. The accent on a collective dimension of space emerges.
In the case of the installation in a gallery, instead, do you talk to a public intended as an individual?

MM: I never imagine public as an audience. I barely imagine audience either. I only imagine people. I like imagining people hoping to communicate with each one of them.
My work is creating a blank space – where your presence becomes very important, to create an intimacy. This intimacy makes you care about things that only you can see. Space has nothing to do with physical environment.
The only space that exists to me, is the space in my mind, in people’s mind, and it’s sharable. My work is all based on this understanding of space.

MGM: The use of photography is central in your analysis of vision and, as a live reproduction of the real, it records the immaterial signs of our everyday life (shadows and reflections). Photography is photographed in a process that Craig Owens has defined mise en abyme.

In your images re-photographing opens the series of repetition, containing at the same time a new element: the reflection produced by the image's surface. You introduce a new element in the process of mirroring.

Can you tell us about the relation in which you connect objects, their photos and their reflected images?MM: The eight photographs taken in my home that I am showing are images of images: shadows, lights, reflections, rather than images of objects. But how can something be defined as an object? I don't know One as a singularity. How can you tell the moon is the moon when it is not illuminated by the sun? How can the moon be separated from the stories I project on it? The moon is already an image to me.

MGM: In the installations you realised you often intertwine different projects. Do you always work retrieving signs and hybridising in a new reflection elements and projects you have already realised?
Is it important for you the idea of the transformation of the work, in relation to the specific site in which the piece is installed?

MM: I am a life that has a direction. In the course of this life, events happen. Things come and go. But nothing disappears from my life and I don't disappear from any other life. Any interaction that existed remains. No matter if you see it clearly or not, they interconnect beyond your control.

To me, One by definition contains Many in itself. I am not Me because of myself. Existence is not so much in the hands of oneself. To me, the purest form of existence is like mist. Our bodies are containers of things like temperature, humidity, beats. These elements interact with many things around them and change their states: they metamorphose. Nothing disappears but everything changes its state. What is important for me is not the idea of transformation but the understanding of the nature of beings, and being in touch with it through my work.

MGM: Your work suggests continuously the ambiguity between what is material and that which is immaterial.
Is it in this sense that you privilege glass and reflected images?

MM: I like thin glass. I like transient reflections on it; but I know I can break it. Knowing this, I will not break it even if I can. Only because of that, thin glass becomes strong. In the same way, I can kill a butterfly. But, sensing its fragility, I choose to be careful. You are not powerful because you can be cruel; that is not strength. And because of that, glass and butterflies can also become strong. Only because they are so fearlessly fragile, they become strong.

Power and fragility is a pair. When you understand this contradiction, beauty begins to unfold. Beauty is a language that has a power to speak to all. But to master this language, you have to learn about contradictions. Beauty betrays you if you are oblivious to this.

I want to challenge power. I want to challenge our ability to use our real strength. Reflections, shadows, hybridity may look subtle. But they are also the true nature of beings. They are so fragile and therefore, to me, they are undoubtedly strong.

private view: 30 May 2014 at 19:00

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